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Il forum dei patrioti italiani

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Accadeva centocinquantadue anni fa.
22 dicembre 1871. Nasce Cesare Mori, futuro prefetto di ferro che si distinguerà nella lotta senza quartiere alla mafia. La vita di Mori è romanzesca, quasi salgariana. Il primo dell'anno del 1872 fu affidato, col nome di Nerbi Primo, a un brefotrofio di Pavia, che nel 1880 lo darà in adozione all'ingegner Felice Mori. All'età di 17 anni entrò nell'Accademia militare di Torino. L'aspirante ufficiale si rivelò sveglio, desideroso di primeggiare (molto versato in italiano, latino, francese, tedesco e scienze militari) e, annotano i suoi insegnanti, «molto sicuro di sé, orgoglioso, capace.» A 19 anni venne promosso sottotenente d'artiglieria. A 23, nel 1895, col grado di tenente prestò servizio a Taranto. Il 19 febbraio di quell'anno ottenne una medaglia di bronzo «per avere inseguito e arrestato un malfattore armato. Mori conosceva bene la Sicilia. Nell'autunno del 1904 era stato testimone della bagarre elettorale svoltasi nel trapanese fra la consorteria di Vincenzo Saporito e quella di Nunzio Nasi (il futuro ministro delle Poste che sarà poi condannato per peculato). Saporito era già stato più volte fatto segno di attentati da parte di sicari e mazzieri che lo avevano seguito anche in Svizzera. Suo fratello Giuseppe, sindaco di Castelvetrano, era stato assassinato due anni prima. «L'Italia fascista debellerà la mafia», dichiarò Mussolini nel maggio 1924, nel corso di un suo giro nell’entroterra palermitano. A urtarlo erano state le profferte di Francesco Cuccia, sindaco di Piana dei Greci (attuale Piana degli Albanesi), che aveva insistito affinché i suoi bravacci facessero le veci della scorta del presidente del Consiglio. Pare che quell'affronto abbia convinto il nuovo uomo forte di Roma, allergico alle combriccole e infastidito dall'idea di dover condividere il potere con altri, a restaurare l'autorità governativa nell'isola. La mafia traeva la sua forza dalla raccolta dei voti e dalla repressione esercitata a danno dei contadini per conto dei latifondisti. Con uno nuovo esecutivo intenzionato a mandare in soffitta le elezioni e capacissimo di dosare bastone e carota con i contadini, la mafia divenne superflua. Di fronte alla prospettiva di un rafforzamento dell’autorità dello Stato sulla società siciliana ai danni delle sue tradizionali forze dominanti, il gattopardesco Vittorio Emanuele Orlando, il nocchiero di Vittorio Veneto, passò all’opposizione, e tentò di creare dei problemi all’esordiente regime organizzando e guidando una lista, detta “Unione per la libertà”, con la quale si contrappose ai fascisti nel corso delle elezioni amministrative dell’agosto 1925. In un celebre comizio tenuto a Palermo, Orlando elogiò la mafia come forza libertaria e peculiarità dell'anima siciliana: «Se per mafia si intende il senso dell’onore portato fino alla esagerazione, l’insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione, portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte, se per mafia si intendono questi sentimenti e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal senso si tratta di contrassegni indivisibili dell’anima siciliana e mafioso mi dichiaro e sono lieto di esserlo!» Mentre Orlando pronunziava tali ambigue parole, il Mori era già all’opera a Palermo, con poteri eccezionali, per realizzare la più grande operazione antimafia della storia. Il duce, desideroso di lasciarsi alle spalle il recente passato facinoroso, aveva fatto nominare Mori prefetto di Trapani (poi, su suggerimento del ras locale Alfredo Cucco, lo sposterà a Palermo), con la missione di pacificare le Madonie, al pari di un prefetto dell'antica Roma. Le Madonie, una porzione di Alpi trapiantata nel mediterraneo, erano letteralmente infestate dai briganti protetti e usati dall'onorata società. Rimarrà negli annali l'assedio di Gangi, amena cittadina delle Madonie di cui Mori nel 1925 scrisse: «Provincia: Palermo. Altitudine: 1.150 mt. Abitanti: 16.000. Banditi: 160. Favoreggiatori: (volenti o nolenti) tutti gli altri.» Con la “Ordinanza per ristabilire la sicurezza pubblica nelle campagne”, emanata il 5 gennaio 1925, veniva imposto ai proprietari terrieri di licenziare tutti i guardiani e i collaboratori, i campieri, i sovrastanti e i curatoli, che risultassero in qualche modo compromessi con la legge. Con i poteri quasi dittatoriali di cui disponeva, il prefetto di ferro ampliò il raggio della sua azione in misura delle crescenti acquisizioni di informazioni e procedette, con il metodo sbrigativo delle retate, all’arresto di centinaia e poi di migliaia di malavitosi, a seconda dei casi avviati alle carceri per regolari processi o spediti al domicilio coatto nelle isole adiacenti alla Sicilia. Per stroncare la malavita delle Madonie, dove avevano il loro regno alcuni tipici esemplari di briganti-mafiosi come Ferrarello e Andaloro, protetti dai grandi notabili locali, mise addirittura sotto assedio il Comune di Gangi e platealmente lo espugnò con una maxiretata. Sotto la stessa spinta dei successi dell’operazione, numerosi notabili mafiosi, vari “personaggi di rispetto”, aristocratici e gabelloti, politici e politicanti di vario livello, voltarono le spalle alla mafia e collaborarono. Si pensi che la gran parte dell’estesa base mafiosa dell’Agrigentino fu assicurata alla legge per merito di un notabile di Cianciana, in collegamento con illustri “amici degli amici”. Il principe Lanza di Scalea aveva già fatto la sua scelta definitiva capeggiando, per le amministrative del 1925 a Palermo, la lista dei fascisti opposta a quella di Orlando. Il legalitario Cesare Mori fu tutt'altro che “fascistissimo”: da prefetto di Bologna si era scontrato con gli squadristi di Arpinati che orinarono sotto il suo quartier generale. In quattro anni di infaticabile lavoro, Mori avrebbe agito con risolutezza ma soprattutto con astuzia. La sua opera, interrotta dall'improvvisa rimozione, sconfisse il banditismo e ristabilì l'ordine pubblico (scusa se è poco) dopo il letargo delle istituzioni negli anni della Grande Guerra e lo sbrago del 1919-1922; ma sicuramente non sradicò la mafia, che da allora adottò il basso profilo e agì sottotraccia, per riemergere nell'estate del 1943, a braccetto del crimine organizzato statunitense, autentica multinazionale del vizio e della trasgressione, alter ego del capitalismo manageriale nordamericano, vero vincitore del secondo conflitto mondiale. Anche gli storici sono divisi tra quanti sostengono che Mori riuscì ad infliggere alla mafia un colpo decisivo che avrebbe distrutto il fenomeno per sempre se il fascismo fosse rimasto al potere più lungo; e quanti ritengono che l’operazione si limitò a colpire, con determinazione, la delinquenza più o meno organizzata, senza disturbare granché i boss e i notabili organici al sistema di potere, il cosiddetto “terzo livello”, che fu per così dire inglobato e sedato dal regime (come accade in tutti gli stati veramente forti e sovrani, dagli USA alla Cina passando per la Russia). Comunque siano andate le cose, ognuna delle due tesi dispone di buoni argomenti.

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