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Il forum dei patrioti italiani

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Accadeva trentanove anni fa.
19 dicembre 1984. Il Regno Unito e la Repubblica Popolare Cinese firmano la Dichiarazione congiunta sino-britannica, col quale confermano la scadenza del 1997 per il trasferimento di Hong Kong alla giurisdizione della RPC. Dopo il 1997, per un periodo di cinquant’anni, in obbedienza alla formula “un paese, due sistemi”, Hong Kong avrebbe mantenuto il suo stile di vita, il suo sistema legislativo e un alto livello di autonomia, senza venire sottoposto al regime socialista. La Costituzione di Hong Kong, la Basic Law, nei suoi aspetti fondamentali subordinata alla Legge della RPC, prevede una magistratura indipendente, la piena libertà di parola e il diritto garantito alla proprietà privata, insieme al suffragio universale per l’elezione del Chief Executive (Capo del governo). Nel settembre del 1982 l'incontro Thatcher-Deng Xiaoping fu deludente e burrascoso. Deng si comportò in maniera scortese e liquidò con un cenno di mano l’idea di una qualche forma di presenza istituzionale e amministrativa britannica dopo il 1997. Di tanto in tanto il leader cinese, che accusava i britannici di manipolare la valuta di Hong Kong, si piegava in avanti per schiarirsi la gola, volgendosi rumorosamente verso una sputacchiera sistemata ai suoi piedi. Uscendo dall’incontro visibilmente scossa, la Lady di Ferro inciampò e cadde scendendo i gradini della Grande sala del popolo. Il dominio britannico aveva preso avvio 157 anni prima, nel 1842, con il primo dei “Trattati ineguali”, quello di Nanchino, al termine della Prima guerra dell’oppio. Si riferiva alla cessione della piccola isola di Vittoria, che oggi costituisce la city di Hong Kong. Nel 1860, con la Seconda guerra dell’oppio, l’impero Qing fu costretto a cedere l’area continentale prospiciente e infine, nel 1898, con la seconda Convenzione di Pechino, un gruppo di isole dell’arcipelago circostante; ma solo per 99 anni, fino al 1997. Il 1° luglio 1997 la potestà su Hong Kong è passata al governo cinese, senza che avvenisse un’integrazione forzosa delle istituzioni della città con quelle della Repubblica popolare cinese. Nel 2047, alla scadenza dei 50 anni previsti, Pechino potrà cancellare il quadro giuridico vigente, sebbene nulla sia scontato, perché la sua eventuale normalizzazione con il resto del territorio cinese potrebbe comprometterne il profilo di piazza finanziaria, danneggiando gli interessi cinesi. Nel settembre del 2014 la proposta di una riforma elettorale in vista delle elezioni locali del 2017 ha portato a una violenta protesta popolare durata settantanove giorni, che ha preso il nome di Occupy Central o “Movimento degli ombrelli”, dato che essi venivano usati dai dimostranti per proteggersi dall’uso dei lacrimogeni impiegati dalla polizia. In questo caso le triadi di Hong Kong hanno agito per difendere gli interessi di imprenditori che volevano fare un favore alla Cina e reprimere il movimento. L’estrema vicinanza delle mafie di Hong Kong alla Repubblica Popolare ne sta minando l’autonomia, trasformandole nel braccio armato di una superpotenza. Il 15 marzo 2019 ha avuto inizio una nuova ondata di proteste a causa della decisione del governo di Pechino, poi rientrata, di introdurre a Hong Kong l’estradizione per i latitanti, che avrebbe leso il principio di «uno Stato, due leggi» applicato fino ad allora. A oggi Hong Kong, col suo lungo guinzaglio, e Taiwan, Stato di fatto autonomo ma non riconosciuto come tale dal Pechino, rappresentano i due fossili della stagione coloniale, nella quale l’indipendenza della Cina è stata pesantemente condizionata dall'imperialismo occidentale. Questo retaggio influenza tuttora i rapporti internazionali e si può immaginare che continuerà a farlo a lungo, anche se il tempo, lenisce ogni male. Hong Kong è l'unico esempio al mondo di una colonia che ha superato in termini di benessere il paese colonizzatore. Nel 2021, il suo Pil pro-capite, secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale è stato di 49.036 dollari, mentre quello inglese di 46,344 dollari (in termini di PPP 62,839 contro 47,089), un divario esistente anche nel 1997 quando Hong Kong è tornata alla Cina: il suo Pil pro-capite nominale infatti era allora di 27.215, quello britannico di 26.735. D’altra parte, se Hong Kong, rappresenta l’indecorosa memoria da cancellare, la fine del secolo delle umiliazioni, Taiwan adombra una Cina bipolare: la Cina nazional-liberale sognata da Sun Yat Sen. Taiwan rappresenta invece una terra ancora sottratta alla vittoria completa contro il Kuomintang, ma soprattutto l’icona di un’alternativa storica irrealizzata, ma pur sempre possibile, rispetto alla Cina “comunista”. Secondo Pechino, gli occidentali iniziarono a battere il tasto della “retorica democratica” solo a partire dalla prima metà degli anni Novanta, mentre quegli stessi diritti democratici oggi così rumorosamente reclamati erano stati negati nei 157 anni del dominio britannico. Sul piano economico, a dispetto delle apparenze, Hong Kong presenta un tipico assetto coloniale basato sulla proprietà della terra e sui privilegi dei tycoons che controllano la ricchezza tramite una struttura fondiaria oligopolistica, un assetto che il ritorno alla Cina Popolare non ha intaccato. È diffusa la convinzione che il successo di Hong Kong, anche prima del 1997, sia dipeso dall’energia e dall’ingegnosità del suo popolo, oltre che dall'ibrido modello colonial-democratico. Si tratta di una lettura semplicistica della storia. Per oltre 130 anni e fino alla fine degli anni Settanta, l’ex colonia britannica, sebbene benestante, non aveva mostrato alcun particolare dinamismo. Ancora nei primi decenni del dopoguerra, la sua economia era stagnante e il futuro incerto. Di colpo, nel 1978, Deng Xiaoping apre le porte della Repubblica Popolare sul mondo, e Hong Kong diventa la porta d’ingresso del business occidentale nella Terra di Mezzo, dando vita a una rendita di posizione che dura fino al 2001, quando la Cina entra nel WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio), facendo perdere a Hong Kong i privilegi della rendita di posizione, perché le imprese straniere possono ora recarsi direttamente in Cina. Gran parte della fortuna di Hong Kong è dunque dovuta a tali fortunate circostanze e non a un particolare ingegno dei suoi abitanti o a un’inesistente buona amministrazione da parte del Regno Unito.

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