Accadeva duecentotrentasette anni fa.
30 novembre 1786. Il Codice leopoldino, promulgato dal Granduca di Toscana Leopoldo I (futuro imperatore d'Austria col nome di Leopoldo II d'Asburgo-Lorena), prevede per la prima volta nella Storia, l'abolizione della pena di morte. La riforma del codice penale, fortemente voluta da Leopoldo e dai suoi consiglieri, ebbe una gestazione ventennale, e viene comunemente considerata la prima conseguenza concreta del dibattito che seguì la pubblicazione di Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria. Pur considerando come precipua funzione della pena quella intimidatrice, la norma diede spazio all’idea che essa possa servire alla «correzione del reo, figlio anch’esso della società e dello Stato». E al paragrafo 51 stabilisce «di abolire per sempre la pena di morte contro qualunque reo, sia presente sia contumace, ed ancorché confesso e convinto di qualsivoglia delitto dichiarato capitale dalle leggi fin qui promulgate, le quali tutte vogliamo in questa parte cessate ed abolite». La norma ebbe vita breve: solo quattro anni dopo, la pena capitale venne reintrodotta, dapprima contro i «ribelli» e i «sollevatori», e successivamente per altri reati. Ma circa un secolo dopo, il 30 aprile 1859, il governo provvisorio toscano la vietò nuovamente determinando con questo una situazione legislativamente problematica. Le leggi della nascente Italia unita, infatti, prevedevano tutte la pena capitale. Poiché l’unità legislativa del paese era un’esigenza fondamentale, nacque e si sviluppò nel paese un lungo dibattito, risolto a favore degli abolizionisti nel 1889, quando entrò in vigore il nuovo codice penale unificato Zanardelli. La battaglia, tuttavia, non era finita: nel 1926 il regime fascista la reintrodusse contro coloro che commettevano una serie di reati contro lo Stato, fra cui l’attentato alla vita o alla libertà della famiglia reale o del capo del Governo; e il nuovo codice penale di Alfredo Rocco, entrato in vigore il 1° luglio 1931, previde nuove ipotesi di reati contro lo Stato punibili con la pena di morte. Il codice leopoldino consacrò definitivamente le più grandi conquiste del pensiero giuridico moderno, abolendo d’un sol colpo quattro residuati scomodi del Medio Evo: i cosiddetti delitti di lesa maestà, la confisca dei beni, la tortura, e la pena di morte. Cesare Beccaria e tutti i progressisti d’Europa esultarono, e Mirabeau chiamò Leopoldo «il nuovo Solone». I timorati benpensanti gridarono allo scandalo e pronosticarono una Toscana alla mercé dei criminali e dei terroristi. I fatti però diedero ragione ai riformatori: nei venticinque anni del granducato leopoldino, la media dei delitti scese da duemila a trecento all'anno. Leopoldo ordinò altresì di sciogliere l’esercito: da cattolico odiava la guerra; da uomo di Stato economo e accorto sapeva che la Toscana non aveva mire espansionistiche, né vicini malintenzionati; da godereccio austriaco (e non prussiano) toscanizzante, aveva sempre avuto in antipatia le divise e i metodi militareschi. A tutelare la sicurezza interna sarebbe bastata la milizia civica. Quest’ultima fu un fiasco, tanto che, alla fine del suo regno, Leopoldo l’abolì. Ma la fine dell’esercito non fu rimpianta che da coloro che ci lucravano. Il granduca, inoltre, autorizzò Sebastiano de' Ricci, vescovo di Pistoia e di Prato, ad attuare ampie riforme nella sua diocesi, fra cui la promozione della lettura della Bibbia in volgare, la stampa di nuove edizioni di Quesnel e di altri scritti giansenisti, e un indirizzo ostile agli ordini regolari. Un granducato socialdemocratico, non c'è che dire: le roccaforti rosse hanno radici lontane. Nel 1787, tuttavia, un'assemblea di vescovi toscani lo appoggiò molto tiepidamente, e nel 1791, dopo la partenza di Leopoldo per l'Austria, Ricci diede le dimissioni. Le sue riforme furono abbandonate e nel 1794 quasi tutta l'opera del sinodo di Pistoia fu condannata da una bolla pontificia.
30 novembre 1786. Il Codice leopoldino, promulgato dal Granduca di Toscana Leopoldo I (futuro imperatore d'Austria col nome di Leopoldo II d'Asburgo-Lorena), prevede per la prima volta nella Storia, l'abolizione della pena di morte. La riforma del codice penale, fortemente voluta da Leopoldo e dai suoi consiglieri, ebbe una gestazione ventennale, e viene comunemente considerata la prima conseguenza concreta del dibattito che seguì la pubblicazione di Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria. Pur considerando come precipua funzione della pena quella intimidatrice, la norma diede spazio all’idea che essa possa servire alla «correzione del reo, figlio anch’esso della società e dello Stato». E al paragrafo 51 stabilisce «di abolire per sempre la pena di morte contro qualunque reo, sia presente sia contumace, ed ancorché confesso e convinto di qualsivoglia delitto dichiarato capitale dalle leggi fin qui promulgate, le quali tutte vogliamo in questa parte cessate ed abolite». La norma ebbe vita breve: solo quattro anni dopo, la pena capitale venne reintrodotta, dapprima contro i «ribelli» e i «sollevatori», e successivamente per altri reati. Ma circa un secolo dopo, il 30 aprile 1859, il governo provvisorio toscano la vietò nuovamente determinando con questo una situazione legislativamente problematica. Le leggi della nascente Italia unita, infatti, prevedevano tutte la pena capitale. Poiché l’unità legislativa del paese era un’esigenza fondamentale, nacque e si sviluppò nel paese un lungo dibattito, risolto a favore degli abolizionisti nel 1889, quando entrò in vigore il nuovo codice penale unificato Zanardelli. La battaglia, tuttavia, non era finita: nel 1926 il regime fascista la reintrodusse contro coloro che commettevano una serie di reati contro lo Stato, fra cui l’attentato alla vita o alla libertà della famiglia reale o del capo del Governo; e il nuovo codice penale di Alfredo Rocco, entrato in vigore il 1° luglio 1931, previde nuove ipotesi di reati contro lo Stato punibili con la pena di morte. Il codice leopoldino consacrò definitivamente le più grandi conquiste del pensiero giuridico moderno, abolendo d’un sol colpo quattro residuati scomodi del Medio Evo: i cosiddetti delitti di lesa maestà, la confisca dei beni, la tortura, e la pena di morte. Cesare Beccaria e tutti i progressisti d’Europa esultarono, e Mirabeau chiamò Leopoldo «il nuovo Solone». I timorati benpensanti gridarono allo scandalo e pronosticarono una Toscana alla mercé dei criminali e dei terroristi. I fatti però diedero ragione ai riformatori: nei venticinque anni del granducato leopoldino, la media dei delitti scese da duemila a trecento all'anno. Leopoldo ordinò altresì di sciogliere l’esercito: da cattolico odiava la guerra; da uomo di Stato economo e accorto sapeva che la Toscana non aveva mire espansionistiche, né vicini malintenzionati; da godereccio austriaco (e non prussiano) toscanizzante, aveva sempre avuto in antipatia le divise e i metodi militareschi. A tutelare la sicurezza interna sarebbe bastata la milizia civica. Quest’ultima fu un fiasco, tanto che, alla fine del suo regno, Leopoldo l’abolì. Ma la fine dell’esercito non fu rimpianta che da coloro che ci lucravano. Il granduca, inoltre, autorizzò Sebastiano de' Ricci, vescovo di Pistoia e di Prato, ad attuare ampie riforme nella sua diocesi, fra cui la promozione della lettura della Bibbia in volgare, la stampa di nuove edizioni di Quesnel e di altri scritti giansenisti, e un indirizzo ostile agli ordini regolari. Un granducato socialdemocratico, non c'è che dire: le roccaforti rosse hanno radici lontane. Nel 1787, tuttavia, un'assemblea di vescovi toscani lo appoggiò molto tiepidamente, e nel 1791, dopo la partenza di Leopoldo per l'Austria, Ricci diede le dimissioni. Le sue riforme furono abbandonate e nel 1794 quasi tutta l'opera del sinodo di Pistoia fu condannata da una bolla pontificia.