Accadeva centocinque anni fa.
4 gennaio 1919. Rivoluzione spartachista in Germania. Già negli anni finali della guerra l’ala sinistra della socialdemocrazia aveva dato vita alla Spartakusbund, l’Unione di Spartaco, che si proponeva di seguire l’esempio russo. Guidata da esponenti di alto profilo, come Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, l’ala radicale credette, dopo l’ammutinamento dei marinai di Kiel, che la situazione fosse ormai matura per un rivolgimento radicale. A dire il vero, Liebknecht e Luxemburg (i quali pagarono con la vita l'incauta iniziativa) ritenevano necessario fidelizzare tutta la classe operaia all’ideale rivoluzionario, ma furono spinti sulla strada del colpo di mano da una minoranza di militanti facinorosi. Ai primi di gennaio del 1919 venne fondato il Partito comunista («Kommunistische Partei Deutschlands», KPD), nel quale confluirono gli spartachisti; pochi giorni dopo i comunisti tentarono di prendere il potere con le armi, a Berlino. L’insurrezione, che durò dal 5 al 12 gennaio, si svolse in un crescendo di violenze da entrambe le parti. Essa fu soffocata con una durissima repressione da parte dei Freikorps, i corpi franchi, milizie di reduci temprati dalle trincee, la stragrande maggioranza antidemocratici, antisocialisti e monarchici, disinvoltamente utilizzati dal governo repubblicano presieduto dal cancelliere socialdemocratico Friedrich Ebert, accordatosi con il generale Groener. Anche se nei mesi seguenti continuarono a verificarsi tentativi insurrezionali comunisti e spartachisti in altre zone del paese, si può dire che con la repressione del putsch berlinese le possibilità per una svolta di tipo sovietica siano svanite in modo definitivo. Il fallimento era dovuto all’assenza di una vera cultura rivoluzionaria in seno al movimento operaio organizzato, ma anche alle profonde spaccature in seno alla sinistra tedesca. Molti ex combattenti, tra cui ufficiali e sottufficiali, fecero fatica a reinserirsi nella vita civile; la guerra li aveva abituati al combattimento, allo spirito comunitario. Ne era derivata una militarizzazione e brutalizzazione della vita collettiva, che aveva riflessi sulla vita politica. Erano gruppi che si raccoglievano attorno a figure di capi militari carismatici, e che in genere dettero il nome ai reparti stessi. I corpi franchi, che complessivamente raccolsero 200-300 mila uomini, godevano del tacito, ma decisivo sostegno dei comandi dell’esercito, che li rifornì di armi, munizioni, uniformi, informazioni ecc. I corpi franchi, altresì, si impegnarono di propria iniziativa in operazioni militari sui confini orientali e sul Baltico, dove sorse il problema di ricostituire la Polonia, a cui teneva soprattutto il presidente americano Wilson. Nelle zone orientali a popolazione mista del Reich si verificarono durissimi scontri armati fra i nazionalisti polacchi e i corpi franchi tedeschi, con lo scopo di spostare a vantaggio della rispettiva nazione i confini. Nel Baltico, i corpi franchi funsero da braccio armato dei latifondisti di origine tedesca, desiderosi di impadronirsi dei neonati stati indipendenti. Ben presto le iniziative autonome dei corpi franchi suscitarono imbarazzo nel governo tedesco, preoccupato di conquistare la benevolenza delle potenze vincitrici riunite a Versailles. All’inizio degli anni venti il loro impeto scemò, ed essi sparirono gradualmente dalla scena, anche se il loro spettro aleggerà a lungo, e rivivrà nelle nascenti milizie nazionalsocialiste. La dura repressione dell’insurrezione di gennaio non pose affatto fine ai torbidi. Nel corso del 1919 il movimento dei consigli andò radicalizzandosi, sfuggendo al controllo dei tre principali partiti della sinistra: SPD (Partito Socialista Tedesco), USPD (Partito Socialdemocratico Indipendente Tedesco) e KPD (Partito Comunista Tedesco). Esso fece proprie parole d’ordine di natura economica e sociale, fra cui spicca quella della socializzazione delle più importanti branche industriali. A Monaco, la sopravvivenza della repubblica dei consigli, isolata in un contesto prevalentemente rurale e clerical-conservatore, era legata alla personalità del suo fondatore, Kurt Eisner. Dopo la sua uccisione, il 21 febbraio, a opera di un militante di estrema destra, i consigli entrarono in crisi. Un secondo tentativo di dare vita a una repubblica consiliare venne compiuto agli inizi di aprile a opera di un gruppo di intellettuali, anarchici o vicini al Partito comunista, fra i quali spicca il commediografo Ernst Toller. In questa fase dominò un utopismo romantico intriso di eccessi di violenza. L’esempio di Monaco fu seguito in altre città, fra cui Brema, tradizionale roccaforte del radicalismo operaio. Furono ancora una volta i corpi franchi a intervenire, ponendo fine dopo poche settimane a questo esperimento di democrazia diretta. Solo i sindacati riuscirono a fatica a tenere a freno il radicalismo consiliare. Ma la frammentazione organizzativa, l’attenuarsi dell’estremismo anche a causa della crescente disoccupazione, nonché l’incisiva opera repressiva, fecero sì che il movimento consiliare desse scarsi frutti. Un risultato, in negativo, però lo raggiunse: provocare la definitiva rottura con il movimento che si era parallelamente andato sviluppando nei ceti medi. È questo un tema poco conosciuto, anche se non privo di importanza. L’ingloriosa liquidazione della classe dirigente imperiale (il 9 novembre 1918 il Kaiser fuggì dal paese, mentre il suo cancelliere, il principe Max di Baden, consegnò la nazione a Ebert e ai repubblicani) fecero sorgere gruppi politici spontanei, che si organizzarono in Bürgerräte, consigli dei cittadini. Questi guardarono con iniziale simpatia ai cambiamenti politico-istituzionali in atto. Furono però impauriti dalle insurrezioni di stampo comunista; di fronte a tale insidia, i consensi di ampi settori moderati verso il nuovo governo democratico-consiliare vennero meno. Nei ceti medi rimase, comunque, la capacità di mobilitazione dal basso, dalla quale avrebbe attinto il nazionalsocialismo. Il movimento consiliare attuò alcune riforme fondamentali, come la concessione del voto alle donne e una serie di leggi protettive del lavoro e previdenziali; inoltre, sdoganò la Mitbestimmung, la cogestione operaia nelle grandi imprese. La spinta politica del movimento dei consigli andò attenuandosi nel corso del 1919, nonostante il permanere di un elevatissimo livello di conflittualità operaia. Gli iscritti ai tre maggiori sindacati (socialdemocratico, cattolico e liberale), che nel 1913 erano attorno ai 3 milioni, balzarono a 7,5 milioni nel 1919 e a quasi 9 milioni l’anno seguente. Anche se in seguito si ebbe un graduale declino, per tutti gli anni venti gli iscritti ai sindacati non scesero mai sotto i 5,6 milioni. Per quanto riguarda gli scioperi, il ciclo dell’elevata conflittualità iniziò nel 1919 e si mantenne per un quadriennio, con 3500-4500 scioperi annui, a cui prendevano parte da 1,5 a oltre 2 milioni di lavoratori all’anno. I settori più caldi erano quelli dell’industria mineraria e della siderurgia, con altrettanto dure risposte padronali. In effetti, benché almeno fino al 1923 le tensioni sociali si mantenessero molto elevate, già nel corso del 1919 il fulcro delle decisioni politiche si era andato spostando dai consigli e dalla piazza al governo. Pochi giorni dopo la repressione dell’insurrezione spartachista si erano svolte le elezioni per l’Assemblea nazionale e a metà febbraio, dopo che Ebert era stato nominato presidente del Reich, Scheidemann aveva costituito un governo basato sull’alleanza con Zentrum e Partito democratico: la cosiddetta «coalizione di Weimar». L’ultimo momento in cui la pressione dal basso funzionò fu in risposta al tentativo di colpo di stato attuato il 12 marzo 1920 da Wolfgang Kapp, un alto burocrate prussiano che era uno dei dirigenti della Vaterlandspartei d’estrema destra. Il colpo di stato, sostenuto da alcuni corpi franchi, era mal preparato sia dal punto di vista tecnico che politico. Comunque colpisce che esso sia stato quasi sul punto di vincere senza alcuno spargimento di sangue. La maggioranza dell’opinione pubblica parve in un primo momento accettare l’inevitabilità della sconfitta della neonata repubblica di fronte al primo scoglio. Gli stessi vertici militari si misero in posizione di attesa. Fu uno sciopero generale riuscito, proclamato dai sindacati di sinistra il 13 marzo e durato quattro giorni, a togliere ai putschisti il terreno sotto i piedi e a metterne a nudo l’isolamento politico. Allo stesso tempo, il tentato colpo di stato di Kapp può essere considerato come la chiusura del ciclo eversivo iniziato un anno e mezzo prima nelle caserme di Kiel.
4 gennaio 1919. Rivoluzione spartachista in Germania. Già negli anni finali della guerra l’ala sinistra della socialdemocrazia aveva dato vita alla Spartakusbund, l’Unione di Spartaco, che si proponeva di seguire l’esempio russo. Guidata da esponenti di alto profilo, come Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, l’ala radicale credette, dopo l’ammutinamento dei marinai di Kiel, che la situazione fosse ormai matura per un rivolgimento radicale. A dire il vero, Liebknecht e Luxemburg (i quali pagarono con la vita l'incauta iniziativa) ritenevano necessario fidelizzare tutta la classe operaia all’ideale rivoluzionario, ma furono spinti sulla strada del colpo di mano da una minoranza di militanti facinorosi. Ai primi di gennaio del 1919 venne fondato il Partito comunista («Kommunistische Partei Deutschlands», KPD), nel quale confluirono gli spartachisti; pochi giorni dopo i comunisti tentarono di prendere il potere con le armi, a Berlino. L’insurrezione, che durò dal 5 al 12 gennaio, si svolse in un crescendo di violenze da entrambe le parti. Essa fu soffocata con una durissima repressione da parte dei Freikorps, i corpi franchi, milizie di reduci temprati dalle trincee, la stragrande maggioranza antidemocratici, antisocialisti e monarchici, disinvoltamente utilizzati dal governo repubblicano presieduto dal cancelliere socialdemocratico Friedrich Ebert, accordatosi con il generale Groener. Anche se nei mesi seguenti continuarono a verificarsi tentativi insurrezionali comunisti e spartachisti in altre zone del paese, si può dire che con la repressione del putsch berlinese le possibilità per una svolta di tipo sovietica siano svanite in modo definitivo. Il fallimento era dovuto all’assenza di una vera cultura rivoluzionaria in seno al movimento operaio organizzato, ma anche alle profonde spaccature in seno alla sinistra tedesca. Molti ex combattenti, tra cui ufficiali e sottufficiali, fecero fatica a reinserirsi nella vita civile; la guerra li aveva abituati al combattimento, allo spirito comunitario. Ne era derivata una militarizzazione e brutalizzazione della vita collettiva, che aveva riflessi sulla vita politica. Erano gruppi che si raccoglievano attorno a figure di capi militari carismatici, e che in genere dettero il nome ai reparti stessi. I corpi franchi, che complessivamente raccolsero 200-300 mila uomini, godevano del tacito, ma decisivo sostegno dei comandi dell’esercito, che li rifornì di armi, munizioni, uniformi, informazioni ecc. I corpi franchi, altresì, si impegnarono di propria iniziativa in operazioni militari sui confini orientali e sul Baltico, dove sorse il problema di ricostituire la Polonia, a cui teneva soprattutto il presidente americano Wilson. Nelle zone orientali a popolazione mista del Reich si verificarono durissimi scontri armati fra i nazionalisti polacchi e i corpi franchi tedeschi, con lo scopo di spostare a vantaggio della rispettiva nazione i confini. Nel Baltico, i corpi franchi funsero da braccio armato dei latifondisti di origine tedesca, desiderosi di impadronirsi dei neonati stati indipendenti. Ben presto le iniziative autonome dei corpi franchi suscitarono imbarazzo nel governo tedesco, preoccupato di conquistare la benevolenza delle potenze vincitrici riunite a Versailles. All’inizio degli anni venti il loro impeto scemò, ed essi sparirono gradualmente dalla scena, anche se il loro spettro aleggerà a lungo, e rivivrà nelle nascenti milizie nazionalsocialiste. La dura repressione dell’insurrezione di gennaio non pose affatto fine ai torbidi. Nel corso del 1919 il movimento dei consigli andò radicalizzandosi, sfuggendo al controllo dei tre principali partiti della sinistra: SPD (Partito Socialista Tedesco), USPD (Partito Socialdemocratico Indipendente Tedesco) e KPD (Partito Comunista Tedesco). Esso fece proprie parole d’ordine di natura economica e sociale, fra cui spicca quella della socializzazione delle più importanti branche industriali. A Monaco, la sopravvivenza della repubblica dei consigli, isolata in un contesto prevalentemente rurale e clerical-conservatore, era legata alla personalità del suo fondatore, Kurt Eisner. Dopo la sua uccisione, il 21 febbraio, a opera di un militante di estrema destra, i consigli entrarono in crisi. Un secondo tentativo di dare vita a una repubblica consiliare venne compiuto agli inizi di aprile a opera di un gruppo di intellettuali, anarchici o vicini al Partito comunista, fra i quali spicca il commediografo Ernst Toller. In questa fase dominò un utopismo romantico intriso di eccessi di violenza. L’esempio di Monaco fu seguito in altre città, fra cui Brema, tradizionale roccaforte del radicalismo operaio. Furono ancora una volta i corpi franchi a intervenire, ponendo fine dopo poche settimane a questo esperimento di democrazia diretta. Solo i sindacati riuscirono a fatica a tenere a freno il radicalismo consiliare. Ma la frammentazione organizzativa, l’attenuarsi dell’estremismo anche a causa della crescente disoccupazione, nonché l’incisiva opera repressiva, fecero sì che il movimento consiliare desse scarsi frutti. Un risultato, in negativo, però lo raggiunse: provocare la definitiva rottura con il movimento che si era parallelamente andato sviluppando nei ceti medi. È questo un tema poco conosciuto, anche se non privo di importanza. L’ingloriosa liquidazione della classe dirigente imperiale (il 9 novembre 1918 il Kaiser fuggì dal paese, mentre il suo cancelliere, il principe Max di Baden, consegnò la nazione a Ebert e ai repubblicani) fecero sorgere gruppi politici spontanei, che si organizzarono in Bürgerräte, consigli dei cittadini. Questi guardarono con iniziale simpatia ai cambiamenti politico-istituzionali in atto. Furono però impauriti dalle insurrezioni di stampo comunista; di fronte a tale insidia, i consensi di ampi settori moderati verso il nuovo governo democratico-consiliare vennero meno. Nei ceti medi rimase, comunque, la capacità di mobilitazione dal basso, dalla quale avrebbe attinto il nazionalsocialismo. Il movimento consiliare attuò alcune riforme fondamentali, come la concessione del voto alle donne e una serie di leggi protettive del lavoro e previdenziali; inoltre, sdoganò la Mitbestimmung, la cogestione operaia nelle grandi imprese. La spinta politica del movimento dei consigli andò attenuandosi nel corso del 1919, nonostante il permanere di un elevatissimo livello di conflittualità operaia. Gli iscritti ai tre maggiori sindacati (socialdemocratico, cattolico e liberale), che nel 1913 erano attorno ai 3 milioni, balzarono a 7,5 milioni nel 1919 e a quasi 9 milioni l’anno seguente. Anche se in seguito si ebbe un graduale declino, per tutti gli anni venti gli iscritti ai sindacati non scesero mai sotto i 5,6 milioni. Per quanto riguarda gli scioperi, il ciclo dell’elevata conflittualità iniziò nel 1919 e si mantenne per un quadriennio, con 3500-4500 scioperi annui, a cui prendevano parte da 1,5 a oltre 2 milioni di lavoratori all’anno. I settori più caldi erano quelli dell’industria mineraria e della siderurgia, con altrettanto dure risposte padronali. In effetti, benché almeno fino al 1923 le tensioni sociali si mantenessero molto elevate, già nel corso del 1919 il fulcro delle decisioni politiche si era andato spostando dai consigli e dalla piazza al governo. Pochi giorni dopo la repressione dell’insurrezione spartachista si erano svolte le elezioni per l’Assemblea nazionale e a metà febbraio, dopo che Ebert era stato nominato presidente del Reich, Scheidemann aveva costituito un governo basato sull’alleanza con Zentrum e Partito democratico: la cosiddetta «coalizione di Weimar». L’ultimo momento in cui la pressione dal basso funzionò fu in risposta al tentativo di colpo di stato attuato il 12 marzo 1920 da Wolfgang Kapp, un alto burocrate prussiano che era uno dei dirigenti della Vaterlandspartei d’estrema destra. Il colpo di stato, sostenuto da alcuni corpi franchi, era mal preparato sia dal punto di vista tecnico che politico. Comunque colpisce che esso sia stato quasi sul punto di vincere senza alcuno spargimento di sangue. La maggioranza dell’opinione pubblica parve in un primo momento accettare l’inevitabilità della sconfitta della neonata repubblica di fronte al primo scoglio. Gli stessi vertici militari si misero in posizione di attesa. Fu uno sciopero generale riuscito, proclamato dai sindacati di sinistra il 13 marzo e durato quattro giorni, a togliere ai putschisti il terreno sotto i piedi e a metterne a nudo l’isolamento politico. Allo stesso tempo, il tentato colpo di stato di Kapp può essere considerato come la chiusura del ciclo eversivo iniziato un anno e mezzo prima nelle caserme di Kiel.