La Grande Italia

Il forum dei patrioti italiani

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Accadeva duecentootto anni fa.
Il 15 ottobre 1815 iniziano i sei anni di agonia di Napoleone Bonaparte. Già alla fine di giugno il governo provvisorio di Fouché accettò l’abdicazione di Bonaparte; quest’ultimo era combattuto tra la speranza di essere richiamato al governo contro gli invasori alleati, e quella di trasferirsi negli Stati Uniti d’America. Verso la mezzanotte del 14 luglio, prima di consegnarsi, Napoleone scrisse una lettera al sovrano inglese: “Come Temistocle, vengo a sedermi in seno al popolo britannico”. Paragone storico infelice, dato che Temistocle si era unito ai persiani per combattere contro i greci suoi connazionali. Quando intravide la sperduta, tetra isoletta atlantica di Sant’Elena abitata da europei, africani e cinesi il reietto esclamò “Avrei fatto meglio a restare in Egitto”. Lo accompagnarono il mamelucco Alì, sua guardia del corpo, il cuoco e alcuni ufficiali bonapartisti di seconda fila con le rispettive famiglie. Tra di essi spiccano gli occasionali biografi Las Cases e Gourgaud, grazie ai quali Bonaparte poté riannodare i fili della memoria e mettere nero su bianco le imprese di una vita, l’arcinoto “Memoriale di Sant’Elena”. La scrittura autobiografica era, insieme al pollice verde e al gioco degli scacchi, il principale hobby del vecchio leone in cattività, ormai svogliato e infiacchito. E depresso. La depressione era dovuta al pensiero di avere una moglie infedele per obblighi familiari e dinastici, al fatto di non poter stare accanto al figlioletto. Inizialmente Napoleone alloggiò in un villino con la famiglia del soprintendente della Compagnia delle Indie orientali William Balcombe. Quel periodo fu indubbiamente il più sereno della sua prigionia, allietato dalla secondogenita dei Balcombe, Betsy, una vivace quattordicenne che masticava il francese. Quando Napoleone le domandò: «Chi ha dato alle fiamme Mosca?». Betsy rimase senza parole, allora Napoleone rise e disse: «Oui, oui. Lo sai benissimo che sono stato io!». Ma la ragazza lo corresse: «Credo, signore, che l’abbiano bruciata i russi per sbarazzarsi dei francesi». In dicembre dovette traslocare nella bicocca di Longwood, un luogo triste, inospitale, nebbioso, flagellato da violente piogge. L’umidità agevolava la crescita di funghi e muffe, mentre i topi e gli insetti scorrazzano ovunque. I britannici avevano insistito affinché il prigioniero conservasse soltanto il grado di «generale non in servizio» e venisse apostrofato «signore» o «vostra eccellenza», e che non fosse chiamato imperatore per timore di offendere i Borboni (ma a quell’epoca i regnanti inglesi accampavano ancora diritti sulla Francia!). Gli negavano quel titolo imperiale che, in tutte le cancellerie d'Europa, gli scribi tentavano invano di obliterare dai trattati. A un invito a un ballo indirizzato al «generale Bonaparte», Napoleone replicò con secco sarcasmo: «Rispeditelo al mittente; l’ultima volta che ho sentito parlare di lui era alle Piramidi e al monte Tabor». Nel 1816 arrivò a Sant’Elena il nuovo governatore, il pedante e ottuso Hudson Lowe, un soldataccio col dente avvelenato che aveva combattuto la Grande Armée in diversi teatri. Sebbene non si siano verificati tentativi di evasione (singolare per l’uomo fuggito dalla Corsica, dall’Egitto e dall’isola d’Elba), il prigioniero fu sottoposto a una sorveglianza snervante; segnali con bandierine colorate informavano Lowe di quel che accadeva, e significavano: «Il generale Bonaparte ha passato il limite delle quattro miglia». «Egli è accompagnato.» «Egli è solo.» Il tutto alla modica cifra di mezzo milione di napoleoni d’oro all’anno: tanto costava la reclusione non proprio dorata dell’ex imperatore francese. Lowe arrivò a impedirgli di riscattare il giardiniere Toby, un anziano schiavo malese. La restrizione più meschina e dolorosa fu sicuramente il divieto di intrattenere una corrispondenza con il figlio, una imposizione che concorse a peggiorare le già precarie condizioni di salute e, di conseguenza, ad affrettarne la morte, sopraggiunta il 5 maggio 1821. Il Console dai lineamenti asciutti e dalla bocca sottile era diventato un uomo corpulento e pallido, colpito da un'affezione all'ipofisi i cui primi sintomi, accertati più tardi dall'autopsia, sono l'abbondanza di tessuti grassi, la scomparsa dei peli, l'atrofia degli organi genitali (partes viriles exiguitate insignes sicut pueri sentenziarono i medici), l'estrema sottigliezza della pelle. Le petit caporal, patrigno dell’Ottocento, anticipò la “plebaglia” al potere del secolo successivo, quel tragico Novecento segnato dalla stella degli imbianchini austriaci, dei maestri elementari romagnoli, dei seminaristi georgiani, degli avvocati paraplegici di Wall Street e dei poeti cinesi.

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Caligorante
PS. Lo trovate troppo lungo? Attaccatevi al tram.
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