Conobbi Bruno Pizzul all'inizio della mia breve ma intensa carriera di giornalista pubblicista. Le cose andarono così: c'era un evento sportivo che si teneva al Parco Virgiliano - che si trova sopra Posillipo - e ad un certo punto, inviato per un giornale della mia città, gli chiesi un'intervista, in cui parlavamo del calcio in generale e soprattutto delle sue opinioni sul Napoli.
La cosa che ricordo in particolare era che, a differenza di tanti altri giornalisti e opinionisti sportivi locali - molto meno importanti di lui - lui che era il telecronista della Nazionale non solo non si dava alcuna aria, ma ti parlava da pari a pari, col suo caratteristico timbro di voce e rispondendo in maniera seria ma mai seriosa, sempre in palla ma mai palloso, alle domande che gli facevi.
Poi successe che seppi che non aveva l'auto - perché, curiosamente, non prese mai la patente - e così mi offrii di accompagnarlo alla stazione da dove avrebbe preso il treno per non ricordo più dove. Invito accettato. Il percorso che separava il Virgiliano da Piazza Garibaldi, in teoria, non sarebbe lunghissimo se non fosse che - tanto per non cambiare, venticinque anni fa quanto oggi - era trafficatissimo. Fu l'occasione per chiacchierare del più e del meno.

Bruno era il classico furlan di quelli che tutti noi abbiamo imparato ad apprezzare.
I friulani, popolo e terra che amo, non ti colpiscono subito e non fanno niente per rendersi piacevoli. Lo sono spontaneamente, se gli vai a genio. E Bruno era un vero friulano, riservato ma anche solare e schietto, di quelli che ti dicono le cose in maniera educata e ferma ma chiara, limpida e trasparente, facendo appena intuire i germoglianti sentimenti che aveva dentro sé. Di lui avevo capito questo: non riusciva a scindere il giudizio sportivo da quello umano. Se una persona gli piaceva umanamente, gli garbava anche sportivamente. Spesso è un difetto ma lui lo trasformava in pregio perché alla lunga, dai suoi discorsi, figli della sua esperienza, ci si rendeva conto che una vittoria sportiva non potesse non fiorire che da un terreno fertilizzato dalla terra nera dell'umanità.
Amava alla follia - e non si può dargli torto - Roberto Baggio, considerava Dino Zoff e Bearzot come fratelli, e Gianluca Vialli quasi come un figlio. E quando il maledetto mostro che ultimamente tende a colpire al pancreas, portò via quest'ultimo sulle scope della Befana di due anni fa, neanche la sua proverbiale sobrietà riuscì a nascondere il sincero dolore che provava. E da quanto lui volesse bene a questi eroi sportivi del passato, avevo capito anche un'altra cosa: non lo diceva apertamente, lo faceva capire, ma il calcio non lo gradiva più. Brunone, d'altro canto, visse la transizione dall'umano pallone di una volta all'affaristico soccer postmoderno. Poter intervistare Rivera in tram come fece Beppe Viola (che di Pizzul fu un fraterno amico) o accapigliarsi con un giocatore che non aveva gradito una tua critica, salvo poi farci pace davanti ad un bicchiere, sono scenari proponibili, oggi, al massimo in qualche torneo aziendale con tanto di articolo all'ultima pagina del giornale locale.
E, sempre a proposito di vino, ecco un'altra sua grande passione. Pizzul ne era, davvero, un grande intenditore. Non ne parlava con la spocchia di chi vuol mostrare molteplici interessi ma con la competenza effettiva di chi amava mangiare e bere bene. Anche perché, con quella sua ciclopica stazza che metteva in soggezione anche il mio non torreggiante ma comunque dignitoso metro e ottantacinque, si poteva dare per scontato che alcolici e superalcolici li reggesse come si solleva, con la mano, una spilla da balia. E fu proprio su suo suggerimento che imparai ad amare proprio quel meraviglioso figlio della sua terra che, se avesse avuto sembianze umane, gli sarebbe somigliato: il Tocai.
Tanto Bruno Pizzul avrebbe fatto fare una meravigliosa figura a chiunque lo avesse portato con sé, tanto io l'ho fatta quando mi è capitato di regalare una bottiglia di Tocai a qualcuno. Tanto Brunone era sobrio, aspro ma senza eccessi, cordiale ma senza untuosi piacionismi, tanto il Tocai è un vino forte senza farsi arrogante, accogliente ma senza trascinarti silenziosamente nella lasciva ebbrezza. E fu per lui un grande motivo di seccatura quando la globalizzazione impose, per fantomatici motivi di copyright, di cambiargli nome, per favorire le pretese di un omonimo vitigno di quattro soldi di derivazione ungherese, costringendoci quindi a trasformarlo in un anonimo "Friulano", anche se tanto chissenefrega, i vecchi furlan e anche un signor nessuno della Campania Felix come me, avrebbero continuato a ribattezzarlo Tocai.
Ci salutammo e ci scambiammo i numeri di telefono. Ci saremmo sentiti un altro paio di volte ma non di più. E mi è dispiaciuto non poter mai condividere una tavolata ricca di vino e di frico, a contornare un piatto di cjarsons e qualche trota, magari mentre mi raccontava qualche aneddoto su Riva o Boninsegna.

La sua morte, di cui ho avuto contezza solo al risveglio, a seguito della prima rapida scorsa del cellulare, mi ha addolorato, ma non era inattesa. Sapevo che da tempo non stava particolarmente bene, anche se non mi aspettavo un decorso così rapido. Dopodiché, ai ricordi personali, si associano le considerazioni sul tempo che passa. E quando muore un personaggio legato ad un'epoca che ci ha visto felici, sorge naturale figurarsi che muoia anche una parte di noi e che il presente sia molto più cupo e tetro di un tempo perduto che ci pare, così, magico e migliore, anche se ci ha rubato qualche lacrima. Si ripropone dunque un tema che può sembrare da perdigiorno e che, tuttavia, talora, se si vuole conversare di un presunto nulla dal quale trarre qualche suggerimento, può anche valere il tempo di un caffè: il passato era veramente migliore di oggi? Come sempre accade in questi casi, ogni risposta ideologizzata sarebbe sbagliata. Per il tennis, grazie a Sinner e Berrettini, è un momento d'oro, mentre per il calcio italiano, di cui Bruno Pizzul è stato un formidabile aedo, oggi non è un momento positivo. E questo già aiuta a rispondere molto più serenamente alla domanda: in alcune cose, siamo peggiorati, in altre migliorati. E il calcio di oggi onestamente non può piacere a nessuno se non per una sorta di abitudine che somiglia ad un cuore stanco che batte senza un perché ma che vorrebbe smettere.

Bruno manca a tantissime persone perché è stato il cronista di una Nazionale che era, in assoluto, la più forte del mondo della sua era e comunque una delle più forti della storia azzurra, inferiore soltanto a quella degli anni Trenta, dei Meazza e dei Piola, e che, per colpa di una serie di fattori, ha vinto molto meno di quel che avrebbe dovuto; manca perché quella Nazionale che lui condiva magistralmente con le sue mirabili telecronache, si inserisce in una fase della storia del nostro paese prospera e felice, in cui tutto andava bene e sentivamo che non sarebbe accaduto nulla di grave; e perché eravamo più giovani e spensierati.
Ma soprattutto, manca a chi, nostalgico della sua lingua che si serviva alle fonti di vocabolari antichi ma mai vecchi, non si è mai rassegnato alla neolingua del calcio e dunque ai braccetti, ai tiki-taka, ai retropassaggi all'indietro che alle volte sembra di vedere il rugby, ai match analyst, o anche alle seconde voci, ai podcast sgureggianti, che hanno reso il calcio materia asettica, quasi d'università, privandolo di quella gioia che portava fanciulli e anziani, a giocarlo per le strade, per le ville comunali, senza la pretesa di dover diventare per forza i numeri uno solo per attrarre soldi e donne, ma solo per la gioia di segnare un gol, anche se in una porta costruita su due zaini e dove la traversa era virtuale.
Manca, insomma, a chi non riesce ad affezionarsi a niente che non abbia un'anima.

Franco Marino


𝑽𝒊 𝒑𝒓𝒆𝒈𝒐 𝒅𝒊 𝒓𝒆𝒈𝒊𝒔𝒕𝒓𝒂𝒓𝒗𝒊 𝒆 𝒅𝒊 𝒊𝒏𝒔𝒆𝒓𝒊𝒓𝒆 𝒄𝒐𝒎𝒎𝒆𝒏𝒕𝒊 𝒆 "𝒎𝒊 𝒑𝒊𝒂𝒄𝒆" 𝒂𝒍𝒍'𝒊𝒏𝒕𝒆𝒓𝒏𝒐 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒐 𝒔𝒑𝒂𝒛𝒊𝒐 𝒅𝒐𝒗𝒆 𝒍𝒆𝒈𝒈𝒆𝒓𝒆𝒕𝒆 𝒍'𝒂𝒓𝒕𝒊𝒄𝒐𝒍𝒐, 𝒄𝒐𝒔𝒊̀ 𝒍𝒐 𝒂𝒏𝒊𝒎𝒊𝒂𝒎𝒐. 𝑮𝒓𝒂𝒛𝒊𝒆

Comments

Lo incontrai in un aeroporto, non ricordo quale e quando. Non lo riconobbi subito dato che non ho mai seguito il calcio, poi data la stazza e il faccione, mi ricordai che era un pezzo da '90 del calcio e della TV. Tentavo di infilare il mio bagaglio in una cappelliera strapiena con un "porcozzio non ci sta", mormorato appena, ma capito da lui che con un vocione da tuono chiese "Veneta vero?" -"Si di Vicenza" "Ahhh la terra di Roberto Baggio" fece lui.e con la forza delle sue manone fece spazio al mio bagaglio. Gli dissi scherzando "E anche terra del Palladio, del Pigafetta, del.Giorgione!!! " "Si ma quelli non hanno.mai giocato a calcio"
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