Anche chi non ritiene un genio Giorgia Meloni, non può che apprezzarne alcune caratteristiche.
La prima è un certo paraculismo che, se non attecchisce mai sugli avversari - il cui compito, del resto, è quello di opporsi alle sue azioni - può fare molto leva sugli indecisi che, se sono di buonsenso, all'arroganza della sinistra e ai velleitarismi della destra postfascista, preferiscono lei.
Dove Salvini spesso rutta, in maniera sbracata, concetti anche condivisibili ma in maniera totalmente divisiva e dove quel che resta di Forza Italia a volte pare una costola del PD o di Italia Viva, Giorgia non sbaglia praticamente nulla, perlomeno nei toni della sua comunicazione.
L'altra grande qualità è il realismo tipico dei grandi politici. Sa benissimo di guidare un'automobile molto pericolosa, sabotabile dall'esterno. Quindi è una che fa le cose da fare soltanto quando può permettersi di farle. Chi la accusa, per esempio, di essersi piegata alla NATO, dimentica che chiunque, in Italia, abbia osato anche solo timidamente ribellarsi - anche essendo molto carrozzato e strutturato - si è ritrovato con i piedi davanti oppure disarcionato da qualche inchiesta giudiziaria. Sicché la Meloni, come un'abile giocatrice di carte, se non le capita la carta con la quale poter fare il Burraco e dunque vincere, non si mette a strillare ma aspetta il suo momento.

Con questa premessa, mi trovo a commentare una domanda che leggo spesso in giro e che, ogni tanto, qualche contatto mi pone: "ce la faremo, stavolta, a fare la riforma della giustizia?".
Chi scrive, di questa come di altre riforme e, soprattutto, altre tematiche come il sempiterno "rilancio del Mezzogiorno", sente parlare da tanti anni, più o meno da quando era ancora all'asilo. E se consideriamo che di anni ne ho quasi quarantaquattro, cominciano ad essere tantini. Ma alcuni segnali mi inducono ad un cauto ottimismo e per una serie di ragioni.
La prima è che la presidente del Consiglio non si porta appresso un conflitto di interessi. E' possibilissimo che abbia qualche scheletro nell'armadio e senta incombere su di sé qualche spada di Damocle e che quindi sia sensibile al tema. Ma, a differenza di Berlusconi che aveva l'interesse - umanamente comprensibile - di sfuggire ai processi strumentali che gravavano sulle sue spalle, e di Craxi e Andreotti che comunque una struttura opaca di potere - non peggiore di quella dei loro nemici, sia chiaro - l'avevano costruita, la Meloni affronta la questione da una prospettiva, per così dire, di verginità molto maggiore, proponendo, peraltro, cose come la separazione delle carriere, condivisa anche da molti magistrati feticci come Giovanni Falcone.
La seconda è che il fatto che oggi alla Casa Bianca ci sia Trump e che questo crei molti cambiamenti di equilibri anche geopolitici, potrebbe anche essere molto utile per fare cose che fino a ieri venivano osteggiate, in tutto il mondo - non solo da noi ma anche in Turchia e in Polonia - dai Dem americani e dalle loro quinte colonne, che avevano l'interesse a far rimanere i paesi in questione agganciati all'asse atlantico e dunque avevano bisogno di magistrature molto potenti, in grado di sabotare una direzione sgradita.
La terza è che, per come viene presentata l'attuale controversia tra la Meloni e la magistratura, si direbbe quasi che la presidente abbia letto "l'arte della guerra". Infatti sta scegliendo il tempo e lo spazio che dovranno orientare questo scontro, cercando di impostare la narrazione di quanto le è accaduto, in modo tale da presentarsi come obiettivo di un attacco da parte delle "toghe rosse". E la ragione è molto semplice.
Tanto per cominciare, il Tribunale dei Ministri non poteva comportarsi diversamente. Difatti, ai sensi dell'articolo 96 della Costituzione, se un membro dell'esecutivo è fatto oggetto di un esposto - quello dell'avv. Li Gotti contro la Meloni (un ex-missino di vecchia data e la cosa a qualcuno è puzzata non poco) - questo Tribunale non ha la facoltà ma *il dovere* di esaminare gli atti (informando chi è oggetto dell'esposto) e decidere, entro novanta giorni, se archiviare il tutto - come, a mio modesto avviso, accadrà - oppure trasmettere gli atti alla procura che, a quel punto, per procedere, dovrà chiedere l'autorizzazione al Parlamento.
Questo significa che, per ora, non c'è nulla di concreto contro la presidente, che si considera già indagata quando ha semplicemente ricevuto un atto che, allo stato attuale delle cose, non implica sostanzialmente nulla di definitivo.

Per come la vedo io, se vi fidate del mio intuito - che non è infallibile ma che, insomma, talvolta ci prende - questa vicenda puzza lontano svariate centinaia di miglia di casus belli creato dalla Meloni per giocare a fare la vittima e dunque avere il destro per intervenire su un contropotere come quello giudiziario che, per come è, ormai da decenni è la più grave minaccia alla vita democratica del paese. E se ci ho preso, è la conferma che Giorgia Meloni sa il fatto suo.
"Ma allora caro Franco Marino, vuol dire che mi stai diventando meloniano?". No. Ma apprezzo particolarmente chi sa come ci si muove nella palude della politica. E ancor più chi capisce che se si vuole veramente cambiare un sistema, bisogna togliersi di mezzo tutti quei contropoteri che potrebbero mettere diverse mine nel suo passaggio. Se un pilota non ha il pieno possesso della macchina, non ha il minimo senso chiedergli la luna che molti chiedono.
Forse è presto per dire che finalmente cambieranno le cose. E sia chiaro: ciò che propone la Meloni è soltanto un quarto di ciò di cui la giustizia avrebbe bisogno per ritornare - o meglio, iniziare - ad essere parte di un normale paese democratico. Ma, per dovere di sincerità, devo confessare che, in barba al mio scetticismo, a differenza di altre circostanze, questa volta, per dirla col barista di Ceccano del grandissimo Nino Manfredi, mi sono detto: "Fusse che fusse la vorta bbona?"


Franco Marino


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