Una similitudine che sono solito usare quando molti parlano di riforma della scuola è di paragonarla al trapianto di rene in un paziente cardiopatico. Il problema di un cuore malato risiede, infatti, essenzialmente nel fatto che, essendo il motore dell'organismo, ovviamente il suo malfunzionamento crea una serie di patologie multiorgano per cui non è raro che un povero disgraziato, dopo aver avuto un infarto, diventi nefropatico o diabetico. Anche per questo, di solito, quando approvano una riforma che riguarda uno specifico settore, la osservo con lo scetticismo di chi è consapevole che se non si cura il motore, concentrarsi sui singoli accessori è inutile. Nello specifico, la riforma Valditara reintroduce l'insegnamento del latino alle medie e della letteratura alle elementari, l'abolizione della cosiddetta "geostoria" - una delle tante porcate woke degli ultimi anni - e soprattutto la novità dello studio della Bibbia (e, a questo punto, perché non del Vangelo e del Corano?)
Tutte cose che hanno la loro utilità in senso assoluto ma che non si capisce perché inserirle in una riforma.
Ma prima bisogna chiarire il punto: perché la scuola è ridotta così male al punto che, ad ogni lustro - in quasi quarantaquattro anni di vita ne ho contate almeno una decina - c'è una riforma che pretenderebbe di cambiarla, salvo poi accorgersi che alla fine i somari continuano a fuoriuscire a frotte?
Questo concetto per gli italiani, semplicemente, non esiste. Certamente ci sono alcune facoltà universitarie più sensibili al tema del merito per il semplice motivo che i professionisti che sfornano di solito finiscono nel privato (si pensi ai medici o agli architetti) ma il punto è che oggi professori e presidi operano in un ambito antieconomico che non li porta a rispondere personalmente - se non con criteri fumosi come le famose prove INVALSI - dell'inefficienza e della scarsa qualità della propria offerta.
Nel mondo ideale, l'istruzione è privata e ci si iscrive ad una scuola o ad un'università non perché più vicina a casa ma perché è la migliore, si paga una retta annuale (e dunque si cancellano le tasse che paghiamo per l'istruzione) dopodiché se quell'istituto si fa la fama di produrre pessimi studenti, semplicemente ci andranno meno alunni, i professori verranno licenziati, il preside si trova a portare i libri in tribunale e dunque fallisce. Nel mondo reale, l'istruzione è pubblica e ci si iscrive ad una scuola non perché è la migliore ma perché è più vicina a casa, si finge di non pagarla (e invece la si paga, assieme ad altri servizi pessimamente gestiti, attraverso una pressione fiscale folle) dopodiché se quell'istituto si fa la fama di produrre pessimi studenti, i professori comunque rimangono saldamente al proprio posto, idem i presidi.
Ora sono sicuro che tanti lettori diranno "Chi io? Quando mai! Io ho mio figlio che ha quindici anni e non mi parla minimamente di voler fare un concorso ma di andare sulla Luna, su Marte!". Ditelo a me, io a quindici anni volevo diventare il Berlusconi del Sud, presidente del Napoli e fondatore di una TV che fosse l'equivalente al Sud di ciò che Mediaset era per il Nord. Una roba che quelli di "Io professione mitomane" se a quel tempo mi avessero letto, sarebbero venuti a prendermi con l'ambulanza. Poi con l'età si matura e, soprattutto se si tiene famiglia, ci si accorge che non è così male ricevere un fisso mensile che ci pari il sedere e allora si cerca di fare di tutto per entrare in un posto fisso, cosa che peraltro non è incompatibile col fare un'attività privata. Il sogno di un qualsiasi genitore, soprattutto in Italia, è che il pargolo entri con un posto fisso statale da qualche parte e "si sistemi", magari trovando una moglie anch'essa statale. Perché la realtà è che noi Partite IVA siamo letteralmente vessati da ogni tipo di rogna che uno statale non avrà mai.
Si può capire che in una situazione di questo tipo, nell'ottica di una società dove l'obiettivo è il posto fisso, il professore non abbia alcuna convenienza a bocciare lo zoticone che non solo non sa la materia ma che magari ha pure un padre criminaloide che casomai lo aspetta fuori scuola per gonfiarlo come un materasso Fabricatore, tanto non è che piglierà uno stipendio migliore per questo. E si può anche capire il padre criminaloide al quale fotte sega che il proprio giovincello zoticone sappia il latino o la poesia a memoria. Perché tanto se l'obiettivo è piazzarlo in una Pubblica Amministrazione dove si dovrà occupare di scemenze, grazie ad un concorso pubblico creato dal ras della politica locale, a meri scopi elettorali, a che gli serve sapere il 5 Maggio o le cinque declinazioni?
In una situazione come questa, i professori non fanno altro che attaccare l'asino dove vuole il padrone. Se lo Stato, per assicurarsene l'eterna fedeltà, vuole una pletora di parassiti il cui unico scopo è prendere uno stipendio mensile e casomai, di tanto in tanto, prestarsi a fare i propagandisti del Ministero della Verità, non solo non serve il latino ma neanche la matematica, la storia, la geografia, l'italiano. Si può, dunque, tranquillamente trasformare la scuola in una sorta di paese dei Balocchi dove la settimana è composta da sei giovedì e una domenica. Tanto cosa fotte, al nostro parassita, di sapere a memoria le commedie di Plauto o di Menandro, se il suo futuro deve essere in un archivio dove eseguire un compitino protocollare? Ma se il compito della scuola è di formare l'alunno per affrontare una società dove posti fissi non ce ne sono o ce ne sono il minimo indispensabile e dove, salvo pochissimi settori, è tutto privato, e soprattutto, se sta in piedi in base a quanti alunni si iscrivano e dunque il professore sa che la sua pagnotta dipende da quanto gli alunni poi si realizzino professionalmente, ecco che avremo un'istruzione molto più performante. L'alunno saprà che non dovrà lottare per avere la sufficienza ma per essere il più bravo nel suo settore. Il professore saprà che se quell'alunno fallirà, la colpa sarà sua. Il preside saprà che se non produce alunni in gamba, andrà in mezzo ad una strada.
Perché il punto è esattamente questo. La Scuola non crea valore perché è la società stessa a non essere costruita per favorire questo meccanismo. Se i messaggi che arrivano dall'alto è di demonizzare chi produce ricchezza e creare tanti fancazzisti magari anche in grado di tradurre, come si faceva una volta, dall'italiano al latino o addirittura dal latino al greco, ma non calati nella realtà dura e cruda che se non si lavora bene, non si mangia, ecco che non si avrà mai interesse a formare gente preparata ad affrontare il mercato del lavoro. E allora ci si affiderà a riforme che sanno di rosolio e di antica erboristeria, nell'illusione che tornando all'antico ci sarà un progresso.
So bene che queste affermazioni cozzano con chi è convinto che solamente il liceo classico sforni persone intellettualmente valide e che soltanto se si sa il latino si è degni di rispetto. Giusto per non ingenerare sospetti, il sottoscritto si è diplomato con 83/100 al liceo classico, quindi non è sospettabile di anti-liceoclassicismo e antilatinismo. Ed è ovvio che conoscere il latino e il greco sia molto meglio che padroneggiare tutte le tecniche per farsi un cospicuo capitale mostrando le pudenda su Onlyfans. L'insegnamento e lo studio di queste lingue antiche o anche imparare le poesie a memoria, sono cose che non hanno a che fare - come sostengono i somari - con la volontà di voler imporre lingue morte o trasformare i giovini in tanti ostentatori di erudizione, ma con l'educazione al ragionamento, alla comprensione di un testo, tutte cose che torneranno loro utili nel corso della vita. Mai nella vita mi vedrete proporre l'abolizione del liceo classico, dello studio del latino e del greco, che io personalmente amavo. Ma neanche si può far passare il principio che la scuola tornerà ad essere di valore soltanto perché si reintroduce il latino facoltativo alle medie o perché si ritorna alle poesie recitate a memoria. Perché questa è una scemenza.
Tutte cose che hanno la loro utilità in senso assoluto ma che non si capisce perché inserirle in una riforma.
Ma prima bisogna chiarire il punto: perché la scuola è ridotta così male al punto che, ad ogni lustro - in quasi quarantaquattro anni di vita ne ho contate almeno una decina - c'è una riforma che pretenderebbe di cambiarla, salvo poi accorgersi che alla fine i somari continuano a fuoriuscire a frotte?
L'istruzione italiana è lo specchio di una società che non concepisce minimamente il concetto di merito e di privato. E' sufficiente osservare quanto orrore facciano nell'opinione pubblica le cosiddette privatizzazioni, confondendo l'affidamento di un settore produttivo ad alcuni bravi imprenditori italiani - che però, rispondendo in prima persona dei propri errori, mettano nel servizio che offrono quella cura che un dipendente pubblico non metterà mai - con
la svendita allo straniero, contro la quale è anzitutto il liberale che deve battersi, altrimenti è solo un servo delle multinazionali.Questo concetto per gli italiani, semplicemente, non esiste. Certamente ci sono alcune facoltà universitarie più sensibili al tema del merito per il semplice motivo che i professionisti che sfornano di solito finiscono nel privato (si pensi ai medici o agli architetti) ma il punto è che oggi professori e presidi operano in un ambito antieconomico che non li porta a rispondere personalmente - se non con criteri fumosi come le famose prove INVALSI - dell'inefficienza e della scarsa qualità della propria offerta.
Nel mondo ideale, l'istruzione è privata e ci si iscrive ad una scuola o ad un'università non perché più vicina a casa ma perché è la migliore, si paga una retta annuale (e dunque si cancellano le tasse che paghiamo per l'istruzione) dopodiché se quell'istituto si fa la fama di produrre pessimi studenti, semplicemente ci andranno meno alunni, i professori verranno licenziati, il preside si trova a portare i libri in tribunale e dunque fallisce. Nel mondo reale, l'istruzione è pubblica e ci si iscrive ad una scuola non perché è la migliore ma perché è più vicina a casa, si finge di non pagarla (e invece la si paga, assieme ad altri servizi pessimamente gestiti, attraverso una pressione fiscale folle) dopodiché se quell'istituto si fa la fama di produrre pessimi studenti, i professori comunque rimangono saldamente al proprio posto, idem i presidi.
Ora sono sicuro che tanti lettori diranno "Chi io? Quando mai! Io ho mio figlio che ha quindici anni e non mi parla minimamente di voler fare un concorso ma di andare sulla Luna, su Marte!". Ditelo a me, io a quindici anni volevo diventare il Berlusconi del Sud, presidente del Napoli e fondatore di una TV che fosse l'equivalente al Sud di ciò che Mediaset era per il Nord. Una roba che quelli di "Io professione mitomane" se a quel tempo mi avessero letto, sarebbero venuti a prendermi con l'ambulanza. Poi con l'età si matura e, soprattutto se si tiene famiglia, ci si accorge che non è così male ricevere un fisso mensile che ci pari il sedere e allora si cerca di fare di tutto per entrare in un posto fisso, cosa che peraltro non è incompatibile col fare un'attività privata. Il sogno di un qualsiasi genitore, soprattutto in Italia, è che il pargolo entri con un posto fisso statale da qualche parte e "si sistemi", magari trovando una moglie anch'essa statale. Perché la realtà è che noi Partite IVA siamo letteralmente vessati da ogni tipo di rogna che uno statale non avrà mai.
Si può capire che in una situazione di questo tipo, nell'ottica di una società dove l'obiettivo è il posto fisso, il professore non abbia alcuna convenienza a bocciare lo zoticone che non solo non sa la materia ma che magari ha pure un padre criminaloide che casomai lo aspetta fuori scuola per gonfiarlo come un materasso Fabricatore, tanto non è che piglierà uno stipendio migliore per questo. E si può anche capire il padre criminaloide al quale fotte sega che il proprio giovincello zoticone sappia il latino o la poesia a memoria. Perché tanto se l'obiettivo è piazzarlo in una Pubblica Amministrazione dove si dovrà occupare di scemenze, grazie ad un concorso pubblico creato dal ras della politica locale, a meri scopi elettorali, a che gli serve sapere il 5 Maggio o le cinque declinazioni?
In una situazione come questa, i professori non fanno altro che attaccare l'asino dove vuole il padrone. Se lo Stato, per assicurarsene l'eterna fedeltà, vuole una pletora di parassiti il cui unico scopo è prendere uno stipendio mensile e casomai, di tanto in tanto, prestarsi a fare i propagandisti del Ministero della Verità, non solo non serve il latino ma neanche la matematica, la storia, la geografia, l'italiano. Si può, dunque, tranquillamente trasformare la scuola in una sorta di paese dei Balocchi dove la settimana è composta da sei giovedì e una domenica. Tanto cosa fotte, al nostro parassita, di sapere a memoria le commedie di Plauto o di Menandro, se il suo futuro deve essere in un archivio dove eseguire un compitino protocollare? Ma se il compito della scuola è di formare l'alunno per affrontare una società dove posti fissi non ce ne sono o ce ne sono il minimo indispensabile e dove, salvo pochissimi settori, è tutto privato, e soprattutto, se sta in piedi in base a quanti alunni si iscrivano e dunque il professore sa che la sua pagnotta dipende da quanto gli alunni poi si realizzino professionalmente, ecco che avremo un'istruzione molto più performante. L'alunno saprà che non dovrà lottare per avere la sufficienza ma per essere il più bravo nel suo settore. Il professore saprà che se quell'alunno fallirà, la colpa sarà sua. Il preside saprà che se non produce alunni in gamba, andrà in mezzo ad una strada.
Perché il punto è esattamente questo. La Scuola non crea valore perché è la società stessa a non essere costruita per favorire questo meccanismo. Se i messaggi che arrivano dall'alto è di demonizzare chi produce ricchezza e creare tanti fancazzisti magari anche in grado di tradurre, come si faceva una volta, dall'italiano al latino o addirittura dal latino al greco, ma non calati nella realtà dura e cruda che se non si lavora bene, non si mangia, ecco che non si avrà mai interesse a formare gente preparata ad affrontare il mercato del lavoro. E allora ci si affiderà a riforme che sanno di rosolio e di antica erboristeria, nell'illusione che tornando all'antico ci sarà un progresso.
So bene che queste affermazioni cozzano con chi è convinto che solamente il liceo classico sforni persone intellettualmente valide e che soltanto se si sa il latino si è degni di rispetto. Giusto per non ingenerare sospetti, il sottoscritto si è diplomato con 83/100 al liceo classico, quindi non è sospettabile di anti-liceoclassicismo e antilatinismo. Ed è ovvio che conoscere il latino e il greco sia molto meglio che padroneggiare tutte le tecniche per farsi un cospicuo capitale mostrando le pudenda su Onlyfans. L'insegnamento e lo studio di queste lingue antiche o anche imparare le poesie a memoria, sono cose che non hanno a che fare - come sostengono i somari - con la volontà di voler imporre lingue morte o trasformare i giovini in tanti ostentatori di erudizione, ma con l'educazione al ragionamento, alla comprensione di un testo, tutte cose che torneranno loro utili nel corso della vita. Mai nella vita mi vedrete proporre l'abolizione del liceo classico, dello studio del latino e del greco, che io personalmente amavo. Ma neanche si può far passare il principio che la scuola tornerà ad essere di valore soltanto perché si reintroduce il latino facoltativo alle medie o perché si ritorna alle poesie recitate a memoria. Perché questa è una scemenza.
La scuola è solo l'organo malato di una società malata. Si può pure obbligare la gente ad imparare il latino e il greco già alle medie e casomai al liceo introdurre l'ebraico e il sanscrito. Rimane sempre il fatto che se il professore non risponde della scarsa qualità del proprio insegnamento attraverso il rischio di venire licenziato e un preside non risponde della scarsa offerta formativa del proprio istituto, attraverso il rischio di chiudere e di finire in mezzo ad una strada, quello della reintroduzione del latino alle medie e delle poesie a memoria, rischia di essere l'ennesimo contentino dato ad un popolo che non vede l'ora di ritornare agli anni Sessanta, naturalmente mantenendo fisso lo smartphone in mano.
Franco Marino
Se ti è piaciuto questo articolo, sostienici con un like o un commento all'articolo all'interno di questo spazio e condividendolo sui social.