Davanti ad una notizia oggettivamente importante e, teoricamente, a favore delle proprie battaglie, la prima vera difficoltà è cercare di separare il grano della notizia dal loglio delle cavolate. E, in particolare, riguardo alla decisione da parte di Zuckerberg, patron di Facebook, a fronte di poco grano, di togliere i team di fact-checking e di ripristinare la libertà di espressione, si vede tantissimo loglio: sia nel fatto in sé che nei commenti delle due parti in causa, ossia censori e censurati.
La notizia, di per sé, non dice niente di nuovo. Che FB censurasse, più o meno apertamente, i contenuti scomodi era già stato ammesso a più riprese da Zuckerberg così come quest'ultimo aveva già chiamato in causa il governo americano in merito alle pressioni. Semmai, è agghiacciante che nessuno, né all'epoca né adesso, abbia mai messo in chiaro che quando uno spazio pubblico, fisico o digitale, censura o interviene sulla classifica dei feed considerati più attraenti - abbassando la voce a quelli scomodi - *COMMETTE UN REATO*. Se, in questi anni, i social hanno censurato agendo come piattaforma, hanno agito contro la legge. E dunque vanno puniti. E se hanno agito come editori, circostanza che avrebbe reso legittime le censure, non avendo pagato chi gli ha regalato i propri contenuti, vanno puniti. E se i governi hanno non soltanto incentivato ma addirittura obbligato i gestori dei social a censurare, la situazione è molto chiara: i governi hanno commesso un reato contro i cittadini. Di qui non si scappa. Chi tenta di giustificare ciò che è stato fatto non tanto da Zuckerberg ma dai governi, è ignorante o in malafede.
Tanto loglio c'è anche nel valore geopolitico che, secondo alcuni, avrebbe questa notizia. Qualche buontempone ritiene che questa sarebbe la conferma che Trump è eterodiretto dai social. Forse la verità è molto più banale: gli Stati Uniti ormai vanno a destra - il che significa che presto ci andrà anche l'Europa - e i magnati della comunicazione digitale semplicemente, fiutato il vento, si adeguano, portando la pantofola al potere, vizio che ritenevamo esclusivo della cultura italiana e che invece, ridicolizzando quel nostro proverbiale provincialismo che ci porta ad addossarci l'esclusiva anche di difetti non solo nostri, evidentemente caratterizza anche gli americani.
Questa notizia che, ripeto, di per sé non cambia le cose e semmai si limita a descrivere l'aria che tira, non sarebbe stata sufficiente a spingermi a scriverci un articolo, se non fosse per il fatto che secondo alcuni, il via libera di Meta legittimerebbe il "diritto di dire cose false" e di "diffondere odio" in rete. Che è una sesquipedale sciocchezza.
Il primo errore su cui cadono molti "liberali all'amatriciana" che in realtà, gratta gratta, ragionano con le medesime logiche della sinistra è di pensare che la libertà consista nel credere di poter dire e fare quel che si vuole, senza assumersi responsabilità mentre è esattamente il contrario: io sono libero di dire ciò che voglio ma questo nulla toglie al mio dovere di rispondere penalmente e civilmente del fatto che io abbia danneggiato qualcuno. Se domani scrivo che ho visto - e non è vero - un personaggio pubblico mentre spacciava droga, quest'ultimo può inoltrare una querela alla Procura della Repubblica che, dopo aver espletato le indagini del caso, mi chiamerà a rispondere della natura della mia accusa. Se non riuscissi a provare la mia accusa, con ogni probabilità verrei condannato e dovrei risarcirlo di tutti i danni morali e materiali che dovessi avergli causato. Perché la libertà di parola non ha alcuna connessione col dovere di dire la verità o quantomeno di non dire falsità e, soprattutto, non ci immunizza dall'essere chiamati a risponderne in un tribunale laddove qualcuno si sentisse leso. I tribunali sono oberati di cause di diffamazione indette da cittadini privati contro altri cittadini privati o da VIP contro persone comuni e viceversa, nati da liti su Facebook o Twitter o Youtube. E nella quasi totalità dei casi, chi querela qualcuno che gli/le ha dato dello stronzo o della battona, vince. Lo può testimoniare Scanzi che si vanta di comprarsi moto e vacanze dopo aver vinto una causa contro l'idiota di turno che lo insulta. Magari vantarsene non è il massimo dello stile e ti può stare quanto ti pare sulle palle Scanzi ma se lo insulti e poi devi sborsargli migliaia di euro, il cretino sei tu, non lui.
Il problema, in merito alle censure digitali, è un altro. In questi anni, il governo americano, attraverso Zuckerberg e colleghi vari, ha fatto passare il pericolosissimo principio che se la verità turba l'ordine pubblico, non si può dire nulla anche se è vero, oltretutto partendo dal presupposto che una cosa può essere sostenuta solo se "provata" e che dunque qualcuno possa convincersi di qualcosa soltanto se dispone delle cosiddette "prove". Chi pensa una baggianata del genere non soltanto non è mai entrato in un'aula di tribunale ma non sa nemmeno le basi di come funziona il diritto.
Un qualsiasi avvocato di provincia vi dirà che la distinzione tra indizio e prova è una pura e semplice fesseria tipica di chi è cresciuto guardando Perry Mason, Law & Order o, peggio ancora, Forum su Mediaset. I processi sono tutti, per definizione, indiziari e un indizio che per me può essere irrilevante, per il giudice può essere decisivo. Per questo, esistono ben tre gradi di giudizio oltre che un'arzigogolata fase preliminare.
Quando si condanna un imputato che in realtà è innocente, non è che la vita di quest'ultimo funziona come una videocassetta che metti rewind, poi fai rec&play e alteri il fatto, facendolo diventare colpevole, se questi è innocente. La storia del diritto è stracolma di condannati in via definitiva che, come si è scoperto poi, erano innocenti. Una sentenza non è l'oracolo di una divinità ma, unicamente, il parere vincolante di un gruppo di esseri umani uguali in tutto e per tutto a noi, che, sulla base di una valutazione soggettiva di fatti che si pretenderebbero oggettivi - e che non è detto che lo siano - può mandarti in galera o farti pagare una salatissima multa. Questo è il diritto, nient'altro.
In politica, e anche nella formazione delle opinioni, le cose funzionano allo stesso modo. Il meccanismo di formazione dei pareri è uguale, sia per i processi che per le circostanze in cui siamo chiamati a giudicare un determinato fatto. Se per molta gente, le tesi cosiddette alternative sono più convincenti di quelle ufficiali, la cosa potrà anche disturbare chi è convinto del contrario, ma ogni tentativo di tappare la bocca a chi cavalca questa opinione ha un solo nome: censura, dittatura. Non si discute su questo. Se sempre più persone si convincono della veridicità di cose che potrebbero essere false e si vuole impedire loro di sostenerle, l'unico rimedio è querelarle in massa, per poi accorgersi che quando più della metà del paese è d'accordo con esse, processarle in massa non soltanto serve a nulla ma rischia anche di formare gruppi di persone che si armano e vengono a riempirti di mazzate. Perché lo Stato non è un'entità divina calatasi dall'alto per indottrinare il popolo bue, ma è espressione stessa della volontà della gente. E se la gente decide che i vaccini sono il male, i vaccini diventano il male. E' la democrazia, bellezza.
Vivendo, nell'ultimo mese, l'incubo di un processo, capisco benissimo la frustrazione di chi si sa innocente ma tuttavia viene accusato di cose che non ha fatto e sa che potrebbe pagarla cara, anche se innocente. Se le case farmaceutiche si sentono chiamate in causa dalla casalinga di Voghera che dice che i vaccini sono un complotto per ammazzarci tutti, e invece i CEO, in cuor proprio, sono coscienti di aver operato per il meglio, che facciano causa all'incauto calunniatore, togliendogli tutto quello che ha. Ma se una tesi comincia ad essere patrimonio diffuso di tanti e la politica cerca di tapparle la bocca, l'unico modo di impedirne la diffusione è revocare la libertà di parola, che ha a che fare molto più con l'URSS che con l'Occidente liberale e libertario che molti dicono di voler difendere.
Vietare di mettere in discussione una verità ottiene come unico risultato quello che sempre più persone la mettano in discussione.
La notizia, di per sé, non dice niente di nuovo. Che FB censurasse, più o meno apertamente, i contenuti scomodi era già stato ammesso a più riprese da Zuckerberg così come quest'ultimo aveva già chiamato in causa il governo americano in merito alle pressioni. Semmai, è agghiacciante che nessuno, né all'epoca né adesso, abbia mai messo in chiaro che quando uno spazio pubblico, fisico o digitale, censura o interviene sulla classifica dei feed considerati più attraenti - abbassando la voce a quelli scomodi - *COMMETTE UN REATO*. Se, in questi anni, i social hanno censurato agendo come piattaforma, hanno agito contro la legge. E dunque vanno puniti. E se hanno agito come editori, circostanza che avrebbe reso legittime le censure, non avendo pagato chi gli ha regalato i propri contenuti, vanno puniti. E se i governi hanno non soltanto incentivato ma addirittura obbligato i gestori dei social a censurare, la situazione è molto chiara: i governi hanno commesso un reato contro i cittadini. Di qui non si scappa. Chi tenta di giustificare ciò che è stato fatto non tanto da Zuckerberg ma dai governi, è ignorante o in malafede.
Tanto loglio c'è anche nel valore geopolitico che, secondo alcuni, avrebbe questa notizia. Qualche buontempone ritiene che questa sarebbe la conferma che Trump è eterodiretto dai social. Forse la verità è molto più banale: gli Stati Uniti ormai vanno a destra - il che significa che presto ci andrà anche l'Europa - e i magnati della comunicazione digitale semplicemente, fiutato il vento, si adeguano, portando la pantofola al potere, vizio che ritenevamo esclusivo della cultura italiana e che invece, ridicolizzando quel nostro proverbiale provincialismo che ci porta ad addossarci l'esclusiva anche di difetti non solo nostri, evidentemente caratterizza anche gli americani.
Questa notizia che, ripeto, di per sé non cambia le cose e semmai si limita a descrivere l'aria che tira, non sarebbe stata sufficiente a spingermi a scriverci un articolo, se non fosse per il fatto che secondo alcuni, il via libera di Meta legittimerebbe il "diritto di dire cose false" e di "diffondere odio" in rete. Che è una sesquipedale sciocchezza.
Il primo errore su cui cadono molti "liberali all'amatriciana" che in realtà, gratta gratta, ragionano con le medesime logiche della sinistra è di pensare che la libertà consista nel credere di poter dire e fare quel che si vuole, senza assumersi responsabilità mentre è esattamente il contrario: io sono libero di dire ciò che voglio ma questo nulla toglie al mio dovere di rispondere penalmente e civilmente del fatto che io abbia danneggiato qualcuno. Se domani scrivo che ho visto - e non è vero - un personaggio pubblico mentre spacciava droga, quest'ultimo può inoltrare una querela alla Procura della Repubblica che, dopo aver espletato le indagini del caso, mi chiamerà a rispondere della natura della mia accusa. Se non riuscissi a provare la mia accusa, con ogni probabilità verrei condannato e dovrei risarcirlo di tutti i danni morali e materiali che dovessi avergli causato. Perché la libertà di parola non ha alcuna connessione col dovere di dire la verità o quantomeno di non dire falsità e, soprattutto, non ci immunizza dall'essere chiamati a risponderne in un tribunale laddove qualcuno si sentisse leso. I tribunali sono oberati di cause di diffamazione indette da cittadini privati contro altri cittadini privati o da VIP contro persone comuni e viceversa, nati da liti su Facebook o Twitter o Youtube. E nella quasi totalità dei casi, chi querela qualcuno che gli/le ha dato dello stronzo o della battona, vince. Lo può testimoniare Scanzi che si vanta di comprarsi moto e vacanze dopo aver vinto una causa contro l'idiota di turno che lo insulta. Magari vantarsene non è il massimo dello stile e ti può stare quanto ti pare sulle palle Scanzi ma se lo insulti e poi devi sborsargli migliaia di euro, il cretino sei tu, non lui.
Il problema, in merito alle censure digitali, è un altro. In questi anni, il governo americano, attraverso Zuckerberg e colleghi vari, ha fatto passare il pericolosissimo principio che se la verità turba l'ordine pubblico, non si può dire nulla anche se è vero, oltretutto partendo dal presupposto che una cosa può essere sostenuta solo se "provata" e che dunque qualcuno possa convincersi di qualcosa soltanto se dispone delle cosiddette "prove". Chi pensa una baggianata del genere non soltanto non è mai entrato in un'aula di tribunale ma non sa nemmeno le basi di come funziona il diritto.
Un qualsiasi avvocato di provincia vi dirà che la distinzione tra indizio e prova è una pura e semplice fesseria tipica di chi è cresciuto guardando Perry Mason, Law & Order o, peggio ancora, Forum su Mediaset. I processi sono tutti, per definizione, indiziari e un indizio che per me può essere irrilevante, per il giudice può essere decisivo. Per questo, esistono ben tre gradi di giudizio oltre che un'arzigogolata fase preliminare.
Quando si condanna un imputato che in realtà è innocente, non è che la vita di quest'ultimo funziona come una videocassetta che metti rewind, poi fai rec&play e alteri il fatto, facendolo diventare colpevole, se questi è innocente. La storia del diritto è stracolma di condannati in via definitiva che, come si è scoperto poi, erano innocenti. Una sentenza non è l'oracolo di una divinità ma, unicamente, il parere vincolante di un gruppo di esseri umani uguali in tutto e per tutto a noi, che, sulla base di una valutazione soggettiva di fatti che si pretenderebbero oggettivi - e che non è detto che lo siano - può mandarti in galera o farti pagare una salatissima multa. Questo è il diritto, nient'altro.
In politica, e anche nella formazione delle opinioni, le cose funzionano allo stesso modo. Il meccanismo di formazione dei pareri è uguale, sia per i processi che per le circostanze in cui siamo chiamati a giudicare un determinato fatto. Se per molta gente, le tesi cosiddette alternative sono più convincenti di quelle ufficiali, la cosa potrà anche disturbare chi è convinto del contrario, ma ogni tentativo di tappare la bocca a chi cavalca questa opinione ha un solo nome: censura, dittatura. Non si discute su questo. Se sempre più persone si convincono della veridicità di cose che potrebbero essere false e si vuole impedire loro di sostenerle, l'unico rimedio è querelarle in massa, per poi accorgersi che quando più della metà del paese è d'accordo con esse, processarle in massa non soltanto serve a nulla ma rischia anche di formare gruppi di persone che si armano e vengono a riempirti di mazzate. Perché lo Stato non è un'entità divina calatasi dall'alto per indottrinare il popolo bue, ma è espressione stessa della volontà della gente. E se la gente decide che i vaccini sono il male, i vaccini diventano il male. E' la democrazia, bellezza.
Vivendo, nell'ultimo mese, l'incubo di un processo, capisco benissimo la frustrazione di chi si sa innocente ma tuttavia viene accusato di cose che non ha fatto e sa che potrebbe pagarla cara, anche se innocente. Se le case farmaceutiche si sentono chiamate in causa dalla casalinga di Voghera che dice che i vaccini sono un complotto per ammazzarci tutti, e invece i CEO, in cuor proprio, sono coscienti di aver operato per il meglio, che facciano causa all'incauto calunniatore, togliendogli tutto quello che ha. Ma se una tesi comincia ad essere patrimonio diffuso di tanti e la politica cerca di tapparle la bocca, l'unico modo di impedirne la diffusione è revocare la libertà di parola, che ha a che fare molto più con l'URSS che con l'Occidente liberale e libertario che molti dicono di voler difendere.
Vietare di mettere in discussione una verità ottiene come unico risultato quello che sempre più persone la mettano in discussione.
Questo è ciò che i sostenitori del politicamente corretto non hanno mai capito e non capiranno mai.
Franco Marino
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