Un vecchio detto dice che se tutto ciò che possiedi è un martello, tutto ti sembrerà un chiodo. Questo meccanismo porta, non di rado, a pensare che tutto il mondo si possa vedere con la lente della propria formazione culturale e professionale.
Il magistrato, per esempio, è convinto che le vicende umane debbano adeguarsi alle leggi, alle quali piegare ogni altro ramo dello scibile e che la sua professione lo consacri come un oplita del Bene, impegnato in un'eterna palingenesi morale contro un Male non precisamente identificato. Il professore, anche inconsciamente, sostiene in cuor suo che padroneggiare la materia che insegna sia fondamentale per vivere. E il giornalista è sinceramente persuaso che il suo diritto di informare e far sapere non abbia limiti.
Tutto questo ha un nome: si chiama "missionarismo". Che è la pretesa di dare al proprio mestiere una valenza idealistica che non solo non possiede ma che anzi, se la si assumesse, otterrebbe come risultato quello di creare molti più guasti di quelli che si intenderebbe combattere.
Un magistrato missionario può mandare in galera un innocente, un professore missionario può trasformare i suoi alunni in tante pecore idealiste che una volta immersi nella realtà vengono sbranate dai tanti famelici lupi che incontreranno, un giornalista missionario può violare i diritti di una persona distruggendone la reputazione.
Quando qualcuno prova incautamente a ricordare che il magistrato non è che un burocrate che deve applicare la legge, che il professore di latino e greco deve far sì che i suoi alunni conoscano a menadito quelle lingue e basta e che il giornalista deve solo rivelare cose nuove che, prima e senza di lui, nessuno avrebbe potuto conoscere, e che fatto tutto questo è finito il loro lavoro, gli interessati e tutti coloro che li idealizzano, tendono a reagire indignati.
Così, quando ho saputo la storia di Cecilia Sala, ho provato il consueto misto di commiserazione e di fastidio che provo tutte le volte che un nostro connazionale va all'estero a ficcarsi nei guai, tutte le volte che, in generale, qualcuno che trasforma il proprio mestiere in una missione, poi finisce per pagarne le conseguenze. L'occidentale medio non si rende conto che quei valori che a lui sembrano le fondamenta del Bene, per altre culture lo sono del Male. Se l'Iran ama bardare da capo a piede le donne, la cosa può scandalizzarci quanto si vuole, ma o si organizza un colpo di stato che rovesci il regime che si vorrebbe abbattere o si parla del nulla. Le manfrine condotte con la spocchia dell'attivista che va in casa d'altri a dire come dovrebbero campare, suscitano nient'altro che sorrisi sarcastici nei capi del paese che, di solito, liberano il fesso di turno senza provocargli conseguenze. Questa è una delle ragioni per cui, per esempio, non ho mai creduto a Regeni ucciso dagli egiziani o alla Politkvoskaja uccisa da Putin. Questi due poveri giornalisti, agli occhi del sistema di potere che contestavano e a quelli di chi ne è sostenitore, valevano meno del due di briscola.
Così chi si reca in determinati posti con l'idea di volerli adeguare alla propria cultura, commette l'errore di intingere la propria visione delle cose in quell'universalismo morale che è il tratto distintivo di un imperialistico modo di vedere le cose, teso a trasformare il mondo in una perenne lotta tra il Bene, rappresentato dall'impero che se ne autonomina come tutore e il Male rappresentato da chi non vuole sottomettersi ai diktat del Bene.
Viceversa, la persona avveduta sa che la geopolitica non si riduce ad una lotta tra cowboy e indiani ma che è, ben più realisticamente, una faida tra cosche internazionali che differiscono da quelle mafiose soltanto per il vestiario e per la parlata. E che soprattutto, ognuno di questi clan ha una legittimazione popolare senza la quale non starebbe in piedi e che, dunque, spesso il nemico è impersonato da quello stesso popolo che la retorica antipotere blandisce come custode dell'onestà e non come parte se non addirittura causa del problema.
Sicché quando arriva l'Assange di turno oppure la Cecilia Sala nostrana, a gettarsi a corpo morto contro un sistema di potere su cui per giunta si fonda il benessere di decine se non centinaia di milioni di esseri umani, c'è da stupirsi che la reazione dei potenti sia violenta?
Il tutto, volendo evitare di approfondire il tema di come quelli che vengono presentati come eroi del giornalismo, spesso ricevano sottobanco imbeccate dai servizi segreti, i quali "li giocano" più o meno a loro insaputa, per poi farli fuori se il gioco prevede la necessità di qualche martire da poter aizzare contro qualche politico sgradito. Quando poi leggo che Regeni aveva studiato a Cambridge, nota fucina di spie e che quasi nessuno dice che era, da anni, un collaboratore de Il Manifesto, e dunque che fosse ben lontano dalla figura del ragazzotto semplice che andava a fare l'attivista in Egitto, diciamo che qualche dubbio sulla sua autenticità uno se lo può far venire.
La persona avveduta sa benissimo che il mondo non può essere cambiato e si limita a cercare di gestirlo, adottando un approccio riformistico.
Lo sprovveduto si mette a fare casini, si mette al rimorchio di una visione del mondo idealistica, crede di denunciare chissà quali misfatti, quando gli basterebbe, per dire, leggere qualcosa di Kissinger per capire quanto le logiche del potere siano uguali, in ogni spazio e tempo, e rendano dunque stucchevole oltreché logora e obsoleta la figura dell'idealista che dimentica la propria dimensione di mestierante per assumere la posa spocchiosa dell'eroe, salvo chiagnere perché lo perseguitano e fottere quando poi raccoglie gli onori.
Dopodiché, da italiano, ovviamente auspico che Cecilia Sala venga liberata e torni in patria, atterrando sana e salva in qualche aeroporto nostrano e che poi si provveda a farla scomparire nell'oblio, regalandole qualche concorso pubblico presso un anonimo ente burocratico.
Il magistrato, per esempio, è convinto che le vicende umane debbano adeguarsi alle leggi, alle quali piegare ogni altro ramo dello scibile e che la sua professione lo consacri come un oplita del Bene, impegnato in un'eterna palingenesi morale contro un Male non precisamente identificato. Il professore, anche inconsciamente, sostiene in cuor suo che padroneggiare la materia che insegna sia fondamentale per vivere. E il giornalista è sinceramente persuaso che il suo diritto di informare e far sapere non abbia limiti.
Tutto questo ha un nome: si chiama "missionarismo". Che è la pretesa di dare al proprio mestiere una valenza idealistica che non solo non possiede ma che anzi, se la si assumesse, otterrebbe come risultato quello di creare molti più guasti di quelli che si intenderebbe combattere.
Un magistrato missionario può mandare in galera un innocente, un professore missionario può trasformare i suoi alunni in tante pecore idealiste che una volta immersi nella realtà vengono sbranate dai tanti famelici lupi che incontreranno, un giornalista missionario può violare i diritti di una persona distruggendone la reputazione.
Quando qualcuno prova incautamente a ricordare che il magistrato non è che un burocrate che deve applicare la legge, che il professore di latino e greco deve far sì che i suoi alunni conoscano a menadito quelle lingue e basta e che il giornalista deve solo rivelare cose nuove che, prima e senza di lui, nessuno avrebbe potuto conoscere, e che fatto tutto questo è finito il loro lavoro, gli interessati e tutti coloro che li idealizzano, tendono a reagire indignati.
Così, quando ho saputo la storia di Cecilia Sala, ho provato il consueto misto di commiserazione e di fastidio che provo tutte le volte che un nostro connazionale va all'estero a ficcarsi nei guai, tutte le volte che, in generale, qualcuno che trasforma il proprio mestiere in una missione, poi finisce per pagarne le conseguenze. L'occidentale medio non si rende conto che quei valori che a lui sembrano le fondamenta del Bene, per altre culture lo sono del Male. Se l'Iran ama bardare da capo a piede le donne, la cosa può scandalizzarci quanto si vuole, ma o si organizza un colpo di stato che rovesci il regime che si vorrebbe abbattere o si parla del nulla. Le manfrine condotte con la spocchia dell'attivista che va in casa d'altri a dire come dovrebbero campare, suscitano nient'altro che sorrisi sarcastici nei capi del paese che, di solito, liberano il fesso di turno senza provocargli conseguenze. Questa è una delle ragioni per cui, per esempio, non ho mai creduto a Regeni ucciso dagli egiziani o alla Politkvoskaja uccisa da Putin. Questi due poveri giornalisti, agli occhi del sistema di potere che contestavano e a quelli di chi ne è sostenitore, valevano meno del due di briscola.
Così chi si reca in determinati posti con l'idea di volerli adeguare alla propria cultura, commette l'errore di intingere la propria visione delle cose in quell'universalismo morale che è il tratto distintivo di un imperialistico modo di vedere le cose, teso a trasformare il mondo in una perenne lotta tra il Bene, rappresentato dall'impero che se ne autonomina come tutore e il Male rappresentato da chi non vuole sottomettersi ai diktat del Bene.
Viceversa, la persona avveduta sa che la geopolitica non si riduce ad una lotta tra cowboy e indiani ma che è, ben più realisticamente, una faida tra cosche internazionali che differiscono da quelle mafiose soltanto per il vestiario e per la parlata. E che soprattutto, ognuno di questi clan ha una legittimazione popolare senza la quale non starebbe in piedi e che, dunque, spesso il nemico è impersonato da quello stesso popolo che la retorica antipotere blandisce come custode dell'onestà e non come parte se non addirittura causa del problema.
Sicché quando arriva l'Assange di turno oppure la Cecilia Sala nostrana, a gettarsi a corpo morto contro un sistema di potere su cui per giunta si fonda il benessere di decine se non centinaia di milioni di esseri umani, c'è da stupirsi che la reazione dei potenti sia violenta?
Il tutto, volendo evitare di approfondire il tema di come quelli che vengono presentati come eroi del giornalismo, spesso ricevano sottobanco imbeccate dai servizi segreti, i quali "li giocano" più o meno a loro insaputa, per poi farli fuori se il gioco prevede la necessità di qualche martire da poter aizzare contro qualche politico sgradito. Quando poi leggo che Regeni aveva studiato a Cambridge, nota fucina di spie e che quasi nessuno dice che era, da anni, un collaboratore de Il Manifesto, e dunque che fosse ben lontano dalla figura del ragazzotto semplice che andava a fare l'attivista in Egitto, diciamo che qualche dubbio sulla sua autenticità uno se lo può far venire.
La persona avveduta sa benissimo che il mondo non può essere cambiato e si limita a cercare di gestirlo, adottando un approccio riformistico.
Lo sprovveduto si mette a fare casini, si mette al rimorchio di una visione del mondo idealistica, crede di denunciare chissà quali misfatti, quando gli basterebbe, per dire, leggere qualcosa di Kissinger per capire quanto le logiche del potere siano uguali, in ogni spazio e tempo, e rendano dunque stucchevole oltreché logora e obsoleta la figura dell'idealista che dimentica la propria dimensione di mestierante per assumere la posa spocchiosa dell'eroe, salvo chiagnere perché lo perseguitano e fottere quando poi raccoglie gli onori.
Dopodiché, da italiano, ovviamente auspico che Cecilia Sala venga liberata e torni in patria, atterrando sana e salva in qualche aeroporto nostrano e che poi si provveda a farla scomparire nell'oblio, regalandole qualche concorso pubblico presso un anonimo ente burocratico.
Perché persone così, prima ancora che essere pericolose per l'umanità, lo sono per se stesse. Come lo sono tutti coloro che trasformano il proprio mestiere in una missione.
Franco Marino
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