Stamattina in molti, sapendomi napoletano, mi hanno chiesto cosa io pensi del rifacimento di Natale in Casa Cupiello trasmesso ieri sera su Rai1. Ho avuto modo di vederlo, incuriosito come sono da estimatore di Salemme e di Eduardo, ma non ci avrei scritto un articolo se il tutto non avesse stimolato una riflessione un po' più ampia che da diverse settimane covavo.
Tanto per cominciare, non sono un appassionato delle rivisitazioni e questo per la semplice ragione che sono un irriducibile ed ideologico avversario della nostalgia.
E poi, mancando i personaggi che hanno reso immortale l'originale, il "remake" - che può anche essere di buona qualità - non potrà mai somigliargli. Le commedie di Eduardo erano scritte sul suo fertilissimo tessuto caratteriale e culturale, sullo spirito del tempo e, per quanto attualissime e dunque "invecchiate bene", avendo ben oltre mezzo secolo, sono difficilmente riproponibili in una forma innovativa.
Premesso questo, Salemme è stato se stesso, non ha, meritoriamente, scimmiottato il suo maestro - errore che commise il pur bravissimo Massimo Ranieri - ma ha dato una rivisitazione "salemmiana", nella recitazione, di quell'opera e portato qualche suo fedelissimo nel cast, alla maniera di quell'allenatore che quando va in una nuova squadra non insegue il fuoriclasse che però non conosce personalmente ma cerca sempre di portarsi gli scudieri che lo hanno accompagnato nelle avventure precedenti, sapendo cosa può tirare fuori da ciascuno di essi. La versione di iersera patrocinata dalla RAI non mi ha entusiasmato ma non mi ha nemmeno nauseato, a differenza di altri. E qui il merito va a Salemme che, con i suoi quasi sessant'anni di esperienza teatrale ad altissimo livello, avviati proprio nel vivaio di Eduardo, sa di cosa parla.
Ma rimane sempre il fatto che la sovrabbondanza di rifacimenti non fa che confermare la stagnazione in cui siamo incastrati. Se in TV ripropongono la Corrida, non si può mai pensare che essa possa far rivivere Corrado e il direttore Pregadio, non fosse altro perché, pace all'anima loro, sono morti.
Ormai, tutto si fonda sulla scopiazzatura, senza che nessuno tenti nuove strade e differenti direzioni, anche se di temi di cui si potrebbe parlare ce ne sono tantissimi. Ma perché?
La prima cosa da dire che ogni arte richiede una tecnica. Quella del teatro, per esempio, è difficilissima e arzigogolatissima, necessita di infinito studio, anche perché, del resto, si sa che, per rimanere in tema eduardiano, "Gli esami non finiscono mai".
La convinzione che la genialità possa esprimersi anche senza un lavoro di cesello, è una delle tante scempiaggini di quest'epoca. Certamente, Giuseppe Verdi, grandissimo compositore, era un mediocre pianista, come ricordano i critici dell'Ottocento. Però il pianoforte lo sapeva suonare, altrimenti lo avrebbero definito "completamente negato". Dunque, ne conosceva le potenzialità, ne padroneggiava l'uso. Senza queste cose, non avrebbe potuto comporre le meravigliose opere che lo hanno consacrato.
Analogamente, Eduardo era un genio di quella cosa bellissima e spietata che sa essere il teatro, con i suoi tempi comici, con la spietatezza di un pubblico, capace di ovazioni ma anche di stroncature, che non sono le fastidiose ma fatue critiche social da parte di leoni da tastiera e "odioti" vari, ma proprio pomodori lanciati sul palco ai malcapitati di turno, rei di aver detto una battuta sbagliata.
E il problema è proprio questo: siamo tormentati da costanti notifiche push, digitali e analogiche, contrapposte tuttavia ad una totale mancanza di conoscenze tecniche e soprattutto di quella fame necessaria per produrre, perché il benessere e l'illimitata disponibilità di mezzi tecnologici ci hanno portati a mettere in soffitta quell'immaginazione che è, poi, alla base del progresso e dello sviluppo.
Viviamo in un perenne reality-show dove non è necessario saper fare bensì costruirsi un format originale e conquistarsi quel quantitativo di seguaci per quei pochi mesi oltre i quali c'è solo l'oblio. I vestiti sono diversi ma il contenuto è maledettamente uguale. Il nostro tiktoker, instagrammer, si limita a dire e fare cose già stradette e già strafatte, il cui il centro di gravità non è l'idea sagace ma il rivestimento.
In questo senso, mio nonno, nato nel 1917 e morto nel 2003, dunque anziano a sufficienza da ricordare le "prime" di Eduardo e longevo abbastanza da assistere alla nascita della prima Internet, diceva sempre che poter avere tutto a disposizione avrebbe impigrito le persone che non avrebbero più avuto il mordente di stimolare la propria intelligenza e dunque quelle produzioni artistiche che, in quanto tali, sono frutto dell'intelletto.
Il contesto in cui operava Eduardo si caratterizzava per un'indigenza ben lontana dalla sazietà artificiale odierna. I giganti del passato, non di rado, avevano una storia di povertà alle spalle che dava loro la voglia di emergere e il coraggio di accettare anche le sconfitte, tutte cose necessarie per fare strada.
Negli anni Trenta, i media erano quasi del tutto assenti e tutto si fondava su una profonda immaginazione ed osservazione della realtà, dalla quale Eduardo, accoppiandola ad un'ottima cultura personale, saccheggiava a piene mani, stimolando i propri neuroni e riuscendo a creare decine di commedie che rappresentano esattamente la sua lettura colta della società, immune dalla contaminazione dell'attualità e delle mode.
Se abbiamo avuto la generazione fertile di uomini di spettacolo che tutti rimpiangiamo, questo lo dobbiamo al fatto che quei protagonisti venivano dal teatro o dalla radio, due palestre spietatissime. I campioni di oggi, anche quando provvisti di un formidabile ed indiscutibile talento naturale - come Fiorello - si sono esercitati in quelle atmosfere untuose e appiccicose che sono i villaggi turistici, dove non puoi rompere le scatole al villeggiante con riflessioni sempiterne ma devi, semmai, compiacere l'impiegato o l'operaio che si fa quei quindici giorni di vacanza col precipuo scopo di divertirsi senza stare troppo ad interrogarsi su significati metafisici.
Non c'è da stupirsi, quindi, che in situazioni di questo tipo emergano una comicità e un intrattenimento da struttura ricettiva turistica che, basate sulla stimolazione dei cliché e degli istinti del turista, creano gag sul momento anche divertentissime ma che non sopravvivranno nel futuro remoto, quando nessuno riproporrà le battute fiorelliane, perché esse si imperniano unicamente nel qui ed ora. Mentre Eduardo, Totò, e aggiungerei anche Paolo Villaggio e Lino Banfi, resistono all'incedere dell'anagrafe perché, per quanto vestite di abiti grossolani, hanno comunque uno sfondo.
Nel 2024 - ma in verità, da molto prima - non si cerca più la sostanza ma l'apparenza. Manca l'istinto di darsi da fare perché tutto è a portata di mano ed anche la capacità e la volontà di lavorare su se stessi perché l'obiettivo non è lasciare cose che si ricordino ma approdare al quarto d'ora di celebrità tanto caro alla filosofia di vita di Andy Warhol, magari monetizzandolo quel tanto che basta per poi scappare con la cassa quando ci si accorge di aver stufato la gente.
In queste condizioni, aspettarsi nuovi capolavori artistici è del tutto illusorio e dunque non ci resta che affezionarci alle cover, fingendo di apprezzarle quando forse bisognerebbe chiedersi come mai la creatività sia morta e cosa l'abbia uccisa.
Tanto per cominciare, non sono un appassionato delle rivisitazioni e questo per la semplice ragione che sono un irriducibile ed ideologico avversario della nostalgia.
E poi, mancando i personaggi che hanno reso immortale l'originale, il "remake" - che può anche essere di buona qualità - non potrà mai somigliargli. Le commedie di Eduardo erano scritte sul suo fertilissimo tessuto caratteriale e culturale, sullo spirito del tempo e, per quanto attualissime e dunque "invecchiate bene", avendo ben oltre mezzo secolo, sono difficilmente riproponibili in una forma innovativa.
Premesso questo, Salemme è stato se stesso, non ha, meritoriamente, scimmiottato il suo maestro - errore che commise il pur bravissimo Massimo Ranieri - ma ha dato una rivisitazione "salemmiana", nella recitazione, di quell'opera e portato qualche suo fedelissimo nel cast, alla maniera di quell'allenatore che quando va in una nuova squadra non insegue il fuoriclasse che però non conosce personalmente ma cerca sempre di portarsi gli scudieri che lo hanno accompagnato nelle avventure precedenti, sapendo cosa può tirare fuori da ciascuno di essi. La versione di iersera patrocinata dalla RAI non mi ha entusiasmato ma non mi ha nemmeno nauseato, a differenza di altri. E qui il merito va a Salemme che, con i suoi quasi sessant'anni di esperienza teatrale ad altissimo livello, avviati proprio nel vivaio di Eduardo, sa di cosa parla.
Ma rimane sempre il fatto che la sovrabbondanza di rifacimenti non fa che confermare la stagnazione in cui siamo incastrati. Se in TV ripropongono la Corrida, non si può mai pensare che essa possa far rivivere Corrado e il direttore Pregadio, non fosse altro perché, pace all'anima loro, sono morti.
Ormai, tutto si fonda sulla scopiazzatura, senza che nessuno tenti nuove strade e differenti direzioni, anche se di temi di cui si potrebbe parlare ce ne sono tantissimi. Ma perché?
La prima cosa da dire che ogni arte richiede una tecnica. Quella del teatro, per esempio, è difficilissima e arzigogolatissima, necessita di infinito studio, anche perché, del resto, si sa che, per rimanere in tema eduardiano, "Gli esami non finiscono mai".
La convinzione che la genialità possa esprimersi anche senza un lavoro di cesello, è una delle tante scempiaggini di quest'epoca. Certamente, Giuseppe Verdi, grandissimo compositore, era un mediocre pianista, come ricordano i critici dell'Ottocento. Però il pianoforte lo sapeva suonare, altrimenti lo avrebbero definito "completamente negato". Dunque, ne conosceva le potenzialità, ne padroneggiava l'uso. Senza queste cose, non avrebbe potuto comporre le meravigliose opere che lo hanno consacrato.
Analogamente, Eduardo era un genio di quella cosa bellissima e spietata che sa essere il teatro, con i suoi tempi comici, con la spietatezza di un pubblico, capace di ovazioni ma anche di stroncature, che non sono le fastidiose ma fatue critiche social da parte di leoni da tastiera e "odioti" vari, ma proprio pomodori lanciati sul palco ai malcapitati di turno, rei di aver detto una battuta sbagliata.
E il problema è proprio questo: siamo tormentati da costanti notifiche push, digitali e analogiche, contrapposte tuttavia ad una totale mancanza di conoscenze tecniche e soprattutto di quella fame necessaria per produrre, perché il benessere e l'illimitata disponibilità di mezzi tecnologici ci hanno portati a mettere in soffitta quell'immaginazione che è, poi, alla base del progresso e dello sviluppo.
Viviamo in un perenne reality-show dove non è necessario saper fare bensì costruirsi un format originale e conquistarsi quel quantitativo di seguaci per quei pochi mesi oltre i quali c'è solo l'oblio. I vestiti sono diversi ma il contenuto è maledettamente uguale. Il nostro tiktoker, instagrammer, si limita a dire e fare cose già stradette e già strafatte, il cui il centro di gravità non è l'idea sagace ma il rivestimento.
In questo senso, mio nonno, nato nel 1917 e morto nel 2003, dunque anziano a sufficienza da ricordare le "prime" di Eduardo e longevo abbastanza da assistere alla nascita della prima Internet, diceva sempre che poter avere tutto a disposizione avrebbe impigrito le persone che non avrebbero più avuto il mordente di stimolare la propria intelligenza e dunque quelle produzioni artistiche che, in quanto tali, sono frutto dell'intelletto.
Il contesto in cui operava Eduardo si caratterizzava per un'indigenza ben lontana dalla sazietà artificiale odierna. I giganti del passato, non di rado, avevano una storia di povertà alle spalle che dava loro la voglia di emergere e il coraggio di accettare anche le sconfitte, tutte cose necessarie per fare strada.
Negli anni Trenta, i media erano quasi del tutto assenti e tutto si fondava su una profonda immaginazione ed osservazione della realtà, dalla quale Eduardo, accoppiandola ad un'ottima cultura personale, saccheggiava a piene mani, stimolando i propri neuroni e riuscendo a creare decine di commedie che rappresentano esattamente la sua lettura colta della società, immune dalla contaminazione dell'attualità e delle mode.
Se abbiamo avuto la generazione fertile di uomini di spettacolo che tutti rimpiangiamo, questo lo dobbiamo al fatto che quei protagonisti venivano dal teatro o dalla radio, due palestre spietatissime. I campioni di oggi, anche quando provvisti di un formidabile ed indiscutibile talento naturale - come Fiorello - si sono esercitati in quelle atmosfere untuose e appiccicose che sono i villaggi turistici, dove non puoi rompere le scatole al villeggiante con riflessioni sempiterne ma devi, semmai, compiacere l'impiegato o l'operaio che si fa quei quindici giorni di vacanza col precipuo scopo di divertirsi senza stare troppo ad interrogarsi su significati metafisici.
Non c'è da stupirsi, quindi, che in situazioni di questo tipo emergano una comicità e un intrattenimento da struttura ricettiva turistica che, basate sulla stimolazione dei cliché e degli istinti del turista, creano gag sul momento anche divertentissime ma che non sopravvivranno nel futuro remoto, quando nessuno riproporrà le battute fiorelliane, perché esse si imperniano unicamente nel qui ed ora. Mentre Eduardo, Totò, e aggiungerei anche Paolo Villaggio e Lino Banfi, resistono all'incedere dell'anagrafe perché, per quanto vestite di abiti grossolani, hanno comunque uno sfondo.
Nel 2024 - ma in verità, da molto prima - non si cerca più la sostanza ma l'apparenza. Manca l'istinto di darsi da fare perché tutto è a portata di mano ed anche la capacità e la volontà di lavorare su se stessi perché l'obiettivo non è lasciare cose che si ricordino ma approdare al quarto d'ora di celebrità tanto caro alla filosofia di vita di Andy Warhol, magari monetizzandolo quel tanto che basta per poi scappare con la cassa quando ci si accorge di aver stufato la gente.
In queste condizioni, aspettarsi nuovi capolavori artistici è del tutto illusorio e dunque non ci resta che affezionarci alle cover, fingendo di apprezzarle quando forse bisognerebbe chiedersi come mai la creatività sia morta e cosa l'abbia uccisa.
E come farla ripartire.
Franco Marino
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