Le date più brutte della vita di una persona coincidono con quelle in cui le persone care ci lasciano. O perché ci abbandonano per qualcuno di migliore o perché muoiono.
E così, chiunque abbia molti cari da piangere, dovrebbe essere un ospite fisso del cimitero, posto dove invece sarò andato sì e no 3-4 volte e soltanto per ragioni legate all'oscena e orrenda burocrazia che ruota attorno a sepolture, cremazioni, esumazioni e via dicendo.
Da non credente, facevo sempre fatica a capire il motivo per cui molti vogliano commemorare i propri cari in un posto dove, al massimo, sono rimaste ossa e ceneri, per giunta opportunamente coperte. Ma faccio fatica a capirlo a maggior ragione se mi metto nei panni del credente. Per quale motivo, uno dovrebbe vivere la morte come un momento di tristezza quando è, invece, il momento in cui una persona che abbiamo amato va ad incontrare Dio?
Per quanto riguarda me, poi, non c'è giorno che io non senta mio padre, mia madre, mia nonna, mio nonno, la mia amica Mara - che è stata, per me, una seconda madre - vicini a me, dentro me. L'altro giorno, la portiera di casa dei miei mi diceva che da quando mio padre è morto, io gli somiglio molto di più di prima, anche nelle espressioni, nelle battute. Come mi sono sorpreso, l'altro giorno, quando il mio capo, nell'ufficio dove lavoro - e dove fortunatamente ho legato con tutti, sin dal primo momento - mi ha detto "come faremmo senza di te?" e io gli ho risposto scherzosamente: "Comme facette Scioscia" "E chi è Scioscia?" "Uno che pigliava la scioscia e si sciusciava". Era il modo di rispondere di mia nonna. Lo stesso quando parlo con mia figlia, scherzo, gioco, mi accorgo che lo faccio nello stesso modo di mio padre e mia madre quando ero bambino io. Non c'è niente di studiato, non è che mi sono detto "Devo essere come loro", mi viene proprio spontaneo. Quelle persone sono dentro di me, non ci sarebbe bisogno di andare al cimitero.
Poi qualcosa è cambiato in me andandoci. Perché?
Perché anche a non volergli dare un significato spirituale, il cimitero resta un posto formativo, che ci ricorda tante cose che, presi dalla frenesia dei nostri tempi, sistematicamente dimentichiamo.
In quella fila di bare - dove le celebrità giacciono assieme ad emeriti sconosciuti, accomunate da una data di nascita ed una di morte, ognuna la foto di chi un tempo era in salute e scoprendo che moltissime persone muoiono giovani, per un banale incidente o per una malattia - c'è tutto il senso della vita. Molte di quelle persone, per noi, sono niente. Non sappiamo chi fossero. Ma hanno avuto delle persone per le quali erano tutto. Un cimitero ci ricorda il senso del tempo che passa e che si può essere ricchi sfondati, famosi, di successo, ma conta solo ciò che lasciamo nelle persone che amiamo e che ci amano.
Personalmente, andarci mi ricorda che, fatta eccezione che per i miei cari, io non sono nessuno. E, per quanto strano possa sembrare, è soltanto questo che ci fa riappacificare col dolore e la sofferenza perché in mezzo a quelle file di lapidi capiamo - e Dio solo sa quanto sia utile - che del dolore non dobbiamo chiederci "perché a me?", ma "perché NON a me?". E' questo che ci fa perdonare le nostre fragilità.
Totò su questo ci fece una poesia meravigliosa, 'a livella. Alla fine tutti andremo lì. Dove, invece, resteremo sarà nelle persone che abbiamo amato.
E così, chiunque abbia molti cari da piangere, dovrebbe essere un ospite fisso del cimitero, posto dove invece sarò andato sì e no 3-4 volte e soltanto per ragioni legate all'oscena e orrenda burocrazia che ruota attorno a sepolture, cremazioni, esumazioni e via dicendo.
Da non credente, facevo sempre fatica a capire il motivo per cui molti vogliano commemorare i propri cari in un posto dove, al massimo, sono rimaste ossa e ceneri, per giunta opportunamente coperte. Ma faccio fatica a capirlo a maggior ragione se mi metto nei panni del credente. Per quale motivo, uno dovrebbe vivere la morte come un momento di tristezza quando è, invece, il momento in cui una persona che abbiamo amato va ad incontrare Dio?
Per quanto riguarda me, poi, non c'è giorno che io non senta mio padre, mia madre, mia nonna, mio nonno, la mia amica Mara - che è stata, per me, una seconda madre - vicini a me, dentro me. L'altro giorno, la portiera di casa dei miei mi diceva che da quando mio padre è morto, io gli somiglio molto di più di prima, anche nelle espressioni, nelle battute. Come mi sono sorpreso, l'altro giorno, quando il mio capo, nell'ufficio dove lavoro - e dove fortunatamente ho legato con tutti, sin dal primo momento - mi ha detto "come faremmo senza di te?" e io gli ho risposto scherzosamente: "Comme facette Scioscia" "E chi è Scioscia?" "Uno che pigliava la scioscia e si sciusciava". Era il modo di rispondere di mia nonna. Lo stesso quando parlo con mia figlia, scherzo, gioco, mi accorgo che lo faccio nello stesso modo di mio padre e mia madre quando ero bambino io. Non c'è niente di studiato, non è che mi sono detto "Devo essere come loro", mi viene proprio spontaneo. Quelle persone sono dentro di me, non ci sarebbe bisogno di andare al cimitero.
Poi qualcosa è cambiato in me andandoci. Perché?
Perché anche a non volergli dare un significato spirituale, il cimitero resta un posto formativo, che ci ricorda tante cose che, presi dalla frenesia dei nostri tempi, sistematicamente dimentichiamo.
In quella fila di bare - dove le celebrità giacciono assieme ad emeriti sconosciuti, accomunate da una data di nascita ed una di morte, ognuna la foto di chi un tempo era in salute e scoprendo che moltissime persone muoiono giovani, per un banale incidente o per una malattia - c'è tutto il senso della vita. Molte di quelle persone, per noi, sono niente. Non sappiamo chi fossero. Ma hanno avuto delle persone per le quali erano tutto. Un cimitero ci ricorda il senso del tempo che passa e che si può essere ricchi sfondati, famosi, di successo, ma conta solo ciò che lasciamo nelle persone che amiamo e che ci amano.
Personalmente, andarci mi ricorda che, fatta eccezione che per i miei cari, io non sono nessuno. E, per quanto strano possa sembrare, è soltanto questo che ci fa riappacificare col dolore e la sofferenza perché in mezzo a quelle file di lapidi capiamo - e Dio solo sa quanto sia utile - che del dolore non dobbiamo chiederci "perché a me?", ma "perché NON a me?". E' questo che ci fa perdonare le nostre fragilità.
Totò su questo ci fece una poesia meravigliosa, 'a livella. Alla fine tutti andremo lì. Dove, invece, resteremo sarà nelle persone che abbiamo amato.
Andarvi ci aiuta a ricordarci che noi siamo la misura del niente che siamo, fin quando non decidiamo di donarci agli altri, diventando la misura del tutto che possiamo essere.
Franco Marino
Se ti è piaciuto questo articolo, sostienici con un like o un commento all'articolo all'interno di questo spazio e condividendolo sui social.