Sapendomi napoletano, diverse persone mi hanno chiesto cosa ne pensi dell'arrivo a Napoli della cosiddetta "Pizza di Briatore".
Non avendola mai assaggiata - e non avendo neanche la curiosità di provarla - ovviamente non posso dissertare sulla sua bontà. Può darsi che un giorno possa cambiare idea, decidere di provarla e trovarla anche buona ma al momento, queste, sono polemiche inutili esattamente come quelle su Starbucks - anch'esso accolto con i medesimi scetticismi, puntualmente smentiti dal grande successo - che ignorano alcuni punti della questione che, invece, andrebbero considerati.
Quando alcuni anni fa, con un amico con cui condividevo la passione per la cucina giapponese, andammo in un ristorante a tema, dove la roba che si mangiava era buonissima, al momento delle considerazioni finali dissi "La migliore cucina giapponese che io abbia mai assaggiato. Ma, tempo sei mesi, e chiuderà", tra lo sconcerto del mio amico che aveva, anch'egli, apprezzato. Quando poi tornammo - Google ancora non lo diceva - scoprimmo che era definitivamente chiuso. Dopo tre mesi.
Ad ispirare il mio scetticismo sulle sorti di quell'attività era che il locale non aveva assolutamente niente non dico di neanche vagamente giapponese - spesso i ristoranti "giapponesi" sono gestiti da cinesi e vietnamiti - ma in generale di qualcosa che ricordasse l'orientalità del posto. Il titolare era napoletano, i camerieri napoletani, si mangiava su tavoli che non avevano niente delle atmosfere nipponiche o quantomeno orientaleggianti. E dal momento che di ristoranti etnici è stracolma Napoli come qualsiasi metropoli europea, e sono prevalentemente tutti buonissimi, emergono quelli che regalano un'emozione, una suggestione. In un ristorante etnico non si va soltanto per mangiare bene ma anche per vivere la suggestione che, una volta all'interno, ci si ritrovi proiettati a Tokyo, Osaka, Kagoshima o quel che vi pare. Dunque il personale deve essere etnico, il luogo etnico, l'ambiente e la musica etnica. Devo cioè convincermi, se vado in un ristorante che fa cucina indiana, di essere a Mumbai, se fa cucina spagnola, di essere a Barcellona, e così via.
Non si va in un posto per consumare un prodotto e basta, ma anche per regalarsi un'emozione.
Anche per questo, le polemiche sulla pizza di Briatore sono stucchevoli. Il nostro bilionario può stare sulle scatole quanto si vuole ma non è un fesso - viceversa non avrebbe avuto il successo che ha - e se ha deciso di aprire un'attività come questa, nella capitale per eccellenza della pizza, proponendola in questo modo, evidentemente si è fatto i suoi calcoli ed è giunto ad alcune conclusioni. Che non possono essere capite se non ci si disancora dall'idea che in un posto si vada solo per mangiare bene. Non funziona così.
Una pizza a 17 euro non verrà mai consumata in quanto pizza ma per ciò che rappresenta: è chiaro che se uno si aspetta di consumare un qualsiasi prodotto senza implicazioni ideologiche, non terrà conto del marchio di origine. Ma se, per molti, diventa una questione ideologica e politica, magari da esibire come patente di appartenenza ad un'élite che raccoglie istanze ecologistiche, mondialistiche - è fatta con un forno elettrico in ossequio alla religione ecologista e con un formato globalista più che internazionale - uno può anche inorridire di fronte a chi la paga 17 euro quando potrebbe pagarne 5-6 in un'altra pizzeria, ma l'idea rimane geniale. Chi l'ha inventata parte dal presupposto che i consumatori fedeli, che spendano cifre alte per roba che si può trovare, a qualità maggiore e prezzo inferiore, vanno radunati in una rete comunitaria fatta di gente che si sente parte di una consorteria, della serie "quello va nella pizzeria Briatore quindi è nu tipo bbuono" che è poi lo stesso meccanismo che porta la gente ad andare al Bilionaire per pagare una bottiglia d'acqua 300 euro, casomai perché ci trova Belén, per dire.
Mettici poi che lo stesso Briatore, che conosce bene i suoi polli, se ne esce con sparate tipo "la pizza tradizionale è gommosa", col risultato che i miei concittadini napoletani - tanto geniali in alcune cose ma sufficientemente fessi e permalosi da farsi trollare su molte altre - rilanciano l'indignazione sui social, regalandogli pubblicità, ed ecco il capolavoro di comunicazione.
Non avendola mai assaggiata - e non avendo neanche la curiosità di provarla - ovviamente non posso dissertare sulla sua bontà. Può darsi che un giorno possa cambiare idea, decidere di provarla e trovarla anche buona ma al momento, queste, sono polemiche inutili esattamente come quelle su Starbucks - anch'esso accolto con i medesimi scetticismi, puntualmente smentiti dal grande successo - che ignorano alcuni punti della questione che, invece, andrebbero considerati.
Quando alcuni anni fa, con un amico con cui condividevo la passione per la cucina giapponese, andammo in un ristorante a tema, dove la roba che si mangiava era buonissima, al momento delle considerazioni finali dissi "La migliore cucina giapponese che io abbia mai assaggiato. Ma, tempo sei mesi, e chiuderà", tra lo sconcerto del mio amico che aveva, anch'egli, apprezzato. Quando poi tornammo - Google ancora non lo diceva - scoprimmo che era definitivamente chiuso. Dopo tre mesi.
Ad ispirare il mio scetticismo sulle sorti di quell'attività era che il locale non aveva assolutamente niente non dico di neanche vagamente giapponese - spesso i ristoranti "giapponesi" sono gestiti da cinesi e vietnamiti - ma in generale di qualcosa che ricordasse l'orientalità del posto. Il titolare era napoletano, i camerieri napoletani, si mangiava su tavoli che non avevano niente delle atmosfere nipponiche o quantomeno orientaleggianti. E dal momento che di ristoranti etnici è stracolma Napoli come qualsiasi metropoli europea, e sono prevalentemente tutti buonissimi, emergono quelli che regalano un'emozione, una suggestione. In un ristorante etnico non si va soltanto per mangiare bene ma anche per vivere la suggestione che, una volta all'interno, ci si ritrovi proiettati a Tokyo, Osaka, Kagoshima o quel che vi pare. Dunque il personale deve essere etnico, il luogo etnico, l'ambiente e la musica etnica. Devo cioè convincermi, se vado in un ristorante che fa cucina indiana, di essere a Mumbai, se fa cucina spagnola, di essere a Barcellona, e così via.
Non si va in un posto per consumare un prodotto e basta, ma anche per regalarsi un'emozione.
Anche per questo, le polemiche sulla pizza di Briatore sono stucchevoli. Il nostro bilionario può stare sulle scatole quanto si vuole ma non è un fesso - viceversa non avrebbe avuto il successo che ha - e se ha deciso di aprire un'attività come questa, nella capitale per eccellenza della pizza, proponendola in questo modo, evidentemente si è fatto i suoi calcoli ed è giunto ad alcune conclusioni. Che non possono essere capite se non ci si disancora dall'idea che in un posto si vada solo per mangiare bene. Non funziona così.
Una pizza a 17 euro non verrà mai consumata in quanto pizza ma per ciò che rappresenta: è chiaro che se uno si aspetta di consumare un qualsiasi prodotto senza implicazioni ideologiche, non terrà conto del marchio di origine. Ma se, per molti, diventa una questione ideologica e politica, magari da esibire come patente di appartenenza ad un'élite che raccoglie istanze ecologistiche, mondialistiche - è fatta con un forno elettrico in ossequio alla religione ecologista e con un formato globalista più che internazionale - uno può anche inorridire di fronte a chi la paga 17 euro quando potrebbe pagarne 5-6 in un'altra pizzeria, ma l'idea rimane geniale. Chi l'ha inventata parte dal presupposto che i consumatori fedeli, che spendano cifre alte per roba che si può trovare, a qualità maggiore e prezzo inferiore, vanno radunati in una rete comunitaria fatta di gente che si sente parte di una consorteria, della serie "quello va nella pizzeria Briatore quindi è nu tipo bbuono" che è poi lo stesso meccanismo che porta la gente ad andare al Bilionaire per pagare una bottiglia d'acqua 300 euro, casomai perché ci trova Belén, per dire.
Mettici poi che lo stesso Briatore, che conosce bene i suoi polli, se ne esce con sparate tipo "la pizza tradizionale è gommosa", col risultato che i miei concittadini napoletani - tanto geniali in alcune cose ma sufficientemente fessi e permalosi da farsi trollare su molte altre - rilanciano l'indignazione sui social, regalandogli pubblicità, ed ecco il capolavoro di comunicazione.
Quindi, concludendo: non credo che andrò mai da Crazy Pizza - ed anche soltanto a vederla, francamente "mi passa il genio" come diciamo a Napoli - come non credo nemmeno che andrò al Bilionaire a farmi spennare da Briatore. Sono sufficientemente sicuro di me stesso per non far parte di onanistiche comunità che salmodiano il posto alla moda del momento. Ma l'idea, secondo me, resta geniale e Briatore un imprenditore scaltro e furbissimo al quale vanno soltanto fatti i complimenti per come ha trollato i tanti fessi che gli stanno regalando pubblicità gratuita.
Franco Marino
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