In questi giorni, una coppia del cosiddetto "showbiz" - lei (Alice Campello) influencer e lui (Alvaro Morata) calciatore - si è separata. Nulla di nuovo, almeno per chi è stato alluvionato dalle polemiche - con tanto di libro ad esse dedicate da parte di Lei - sulla separazione tra Totti e Ilary Blasi, se non fosse che molti si sono sorpresi del fatto che i due fino a quindici giorni prima si giurassero amore su Instagram. E questo significa sostanzialmente conoscere poco questi mezzi, perché sono nati e soprattutto perché hanno così tanto successo.
I vari Facebook, Twitter, Instagram, TikTok, nascono per una semplicissima ragione: ammazzare la noia di tanti signori nessuno - criminalmente convinti da mammà e papà di valere di più del due di briscola che valgono - illudendoli che basta dire la cosa giusta per diventare presidenti del consiglio, intellettuali, artisti. Sono una grande corrida dove la gente non comunica, non socializza come pure suggerirebbe l'etimo, ma vende un personaggio, per fini che non hanno niente a che fare con qualcosa di utile per l'altro ma solo con la vendita della propria parte esteriore, che si manifesti attraverso una foto o uno scritto.
La cosa ha un senso fin quando è orientata a concreti progetti politici, quando si è un personaggio pubblico con l'esigenza di comunicare con i propri fan - in maniera così inautentica che spesso in realtà sono i cosiddetti "social media manager" a comunicare al posto del VIP - o anche per chi, come Alice Campello o Chiara Ferragni, si è costruito un seguito vendendo prodotti e recensioni a pagamento.
In quel caso, pubblicare le foto dei propri figli, del proprio cane, anche del proprio lusso sfrenato - cosa che la persona di buonsenso, specie di questi tempi, è bene che non faccia - ha il senso di dire "Vedete come sono ricca? Vuol dire che la gente mi ha dato fiducia comprando i miei prodotti, quindi potete fidarvi di me". E allora si può capire il senso di investire frazioni preziose del proprio tempo nella salmodia di sé.
Viceversa, è soltanto vanità. E infatti, scendendo in ordine di importanza e venendo all'uomo comune, troviamo tanta gente che usa i social per appropriarsi di una quotidiana scarica di dopamina provocata dal like, la vera droga digitale in nome del quale spesso si rompono amicizie e amori anche reali, e dove il giudizio di una persona, come mi è capitato che mi venisse confidato, sale e scende in base allo stato di salute digitale di cui, in quel momento sta godendo.
Quando si capisce questo perverso meccanismo, ci si rende conto della sostanziale inutilità e finanche nocività di questi spazi. E qualsiasi cosa scritta che non sia mirata - come nel mio caso - ad un progetto esterno, perde valore.
Per esempio, per l'anniversario della morte di papà - in questi giorni sono quattro anni - avevo scritto un articolo. Ma ho immediatamente chiuso tutto quando mi sono reso conto che l'obiettivo, figlio di un momento di grande difficoltà che sto attraversando, non era parlare di qualcosa di utile per il prossimo ma, inconsapevolmente, celebrare me. E allora ho fatto vincere il mio pudore. Perché l'autobiografismo è, sempre e comunque, un bruttissimo difetto. Il che non significa che la fobia flaubertiana con i quali molti si autoricattano quando parlano di sé, non sia talvolta sciocca, anche perché se non si è autori famosi e si ha bisogno, per farsi leggere, di entrare in empatia col lettore, può aver un senso rivelare spizzichi e bocconi di sé perché è un utilissimo espediente letterario per introdurre argomenti, invece, di interesse pubblico e creare un'intimità col lettore. Di questo fu maestro Montaigne che usava la prima persona non per celebrare il mito di sé ma per introdurre temi molto più complessi - fu questo a fargli meritare il complimento di La Bruyère che del filosofo francese disse "si va da lui per leggere un libro e invece si incontra un uomo, un amico". Viceversa, una produzione letteraria, dal libro al semplice blog, finalizzata a celebrare se stessi con inutili vanterie, è semplicemente ridicola. Nessuno legge uno spazio per farsi alluvionare dai turbamenti esistenziali ed esibizionistici di un signor nessuno.
Molti, invece, il problema non se lo pongono, facendo diventare i social l'emblema dell'autoreferenzialità. Facebook deve averlo capito bene quando, i profili dei propri iscritti, li ha chiamati "diari". Con la differenza che essendo aperti al pubblico, non mostrano al mondo la persona per come è e neanche per come crede di essere, ma per come vorrebbe apparire, col risultato che chi in realtà la conosce bene, sa benissimo com'è e trova ridicoli sia i toni pomposi e autocelebrativi che quelli falsamente modesti.
Del resto, la magia perversa dei social questa è: la più egoista, glaciale e cattiva delle persone - perché la conosciamo e sappiamo com'è - può, pubblicando qualche fesseria di carattere spiritualistico, apparire una fervente religiosa, se in quel momento ha interesse a cattivarsi qualche simpatia - a scopo lavorativo o più semplicemente di "rimorchiaggio" - presso l'ambito di competenza nel quale vuol farsi apprezzare, così come al tempo stesso, emeriti incapaci, dopo aver saccheggiato qua e là da Google o dal sentito dire, sono capacissimi di vendersi come esperti di qualcosa, al fine di coltivare qualche carriera.
Di conseguenza, chi si stupisce che Alice Campello e Morata fino a pochi giorni prima sembrassero la coppia più bella del mondo, semplicemente non conosce e non capisce il funzionamento di questi mezzi, che sono questa roba qui, il tempio dell'esibizionismo.
Dice: "Ma allora anche tu Franco vendi qualcosa". Certo. Vendo quel po' di intelligenza che credo di avere, sfruttando una scrittura decente ma finalizzata ad un obiettivo che non è la celebrazione della mia persona ma la costruzione di un progetto che serve a qualcosa che va ben oltre me. Senza tutto questo non esisterebbe nemmeno Franco Marino con la sua discreta ma inutile notorietà digitale, alla quale io, Francesco, non ho mai permesso di invadere il mio privato.
I vari Facebook, Twitter, Instagram, TikTok, nascono per una semplicissima ragione: ammazzare la noia di tanti signori nessuno - criminalmente convinti da mammà e papà di valere di più del due di briscola che valgono - illudendoli che basta dire la cosa giusta per diventare presidenti del consiglio, intellettuali, artisti. Sono una grande corrida dove la gente non comunica, non socializza come pure suggerirebbe l'etimo, ma vende un personaggio, per fini che non hanno niente a che fare con qualcosa di utile per l'altro ma solo con la vendita della propria parte esteriore, che si manifesti attraverso una foto o uno scritto.
La cosa ha un senso fin quando è orientata a concreti progetti politici, quando si è un personaggio pubblico con l'esigenza di comunicare con i propri fan - in maniera così inautentica che spesso in realtà sono i cosiddetti "social media manager" a comunicare al posto del VIP - o anche per chi, come Alice Campello o Chiara Ferragni, si è costruito un seguito vendendo prodotti e recensioni a pagamento.
In quel caso, pubblicare le foto dei propri figli, del proprio cane, anche del proprio lusso sfrenato - cosa che la persona di buonsenso, specie di questi tempi, è bene che non faccia - ha il senso di dire "Vedete come sono ricca? Vuol dire che la gente mi ha dato fiducia comprando i miei prodotti, quindi potete fidarvi di me". E allora si può capire il senso di investire frazioni preziose del proprio tempo nella salmodia di sé.
Viceversa, è soltanto vanità. E infatti, scendendo in ordine di importanza e venendo all'uomo comune, troviamo tanta gente che usa i social per appropriarsi di una quotidiana scarica di dopamina provocata dal like, la vera droga digitale in nome del quale spesso si rompono amicizie e amori anche reali, e dove il giudizio di una persona, come mi è capitato che mi venisse confidato, sale e scende in base allo stato di salute digitale di cui, in quel momento sta godendo.
Quando si capisce questo perverso meccanismo, ci si rende conto della sostanziale inutilità e finanche nocività di questi spazi. E qualsiasi cosa scritta che non sia mirata - come nel mio caso - ad un progetto esterno, perde valore.
Per esempio, per l'anniversario della morte di papà - in questi giorni sono quattro anni - avevo scritto un articolo. Ma ho immediatamente chiuso tutto quando mi sono reso conto che l'obiettivo, figlio di un momento di grande difficoltà che sto attraversando, non era parlare di qualcosa di utile per il prossimo ma, inconsapevolmente, celebrare me. E allora ho fatto vincere il mio pudore. Perché l'autobiografismo è, sempre e comunque, un bruttissimo difetto. Il che non significa che la fobia flaubertiana con i quali molti si autoricattano quando parlano di sé, non sia talvolta sciocca, anche perché se non si è autori famosi e si ha bisogno, per farsi leggere, di entrare in empatia col lettore, può aver un senso rivelare spizzichi e bocconi di sé perché è un utilissimo espediente letterario per introdurre argomenti, invece, di interesse pubblico e creare un'intimità col lettore. Di questo fu maestro Montaigne che usava la prima persona non per celebrare il mito di sé ma per introdurre temi molto più complessi - fu questo a fargli meritare il complimento di La Bruyère che del filosofo francese disse "si va da lui per leggere un libro e invece si incontra un uomo, un amico". Viceversa, una produzione letteraria, dal libro al semplice blog, finalizzata a celebrare se stessi con inutili vanterie, è semplicemente ridicola. Nessuno legge uno spazio per farsi alluvionare dai turbamenti esistenziali ed esibizionistici di un signor nessuno.
Molti, invece, il problema non se lo pongono, facendo diventare i social l'emblema dell'autoreferenzialità. Facebook deve averlo capito bene quando, i profili dei propri iscritti, li ha chiamati "diari". Con la differenza che essendo aperti al pubblico, non mostrano al mondo la persona per come è e neanche per come crede di essere, ma per come vorrebbe apparire, col risultato che chi in realtà la conosce bene, sa benissimo com'è e trova ridicoli sia i toni pomposi e autocelebrativi che quelli falsamente modesti.
Del resto, la magia perversa dei social questa è: la più egoista, glaciale e cattiva delle persone - perché la conosciamo e sappiamo com'è - può, pubblicando qualche fesseria di carattere spiritualistico, apparire una fervente religiosa, se in quel momento ha interesse a cattivarsi qualche simpatia - a scopo lavorativo o più semplicemente di "rimorchiaggio" - presso l'ambito di competenza nel quale vuol farsi apprezzare, così come al tempo stesso, emeriti incapaci, dopo aver saccheggiato qua e là da Google o dal sentito dire, sono capacissimi di vendersi come esperti di qualcosa, al fine di coltivare qualche carriera.
Di conseguenza, chi si stupisce che Alice Campello e Morata fino a pochi giorni prima sembrassero la coppia più bella del mondo, semplicemente non conosce e non capisce il funzionamento di questi mezzi, che sono questa roba qui, il tempio dell'esibizionismo.
Dice: "Ma allora anche tu Franco vendi qualcosa". Certo. Vendo quel po' di intelligenza che credo di avere, sfruttando una scrittura decente ma finalizzata ad un obiettivo che non è la celebrazione della mia persona ma la costruzione di un progetto che serve a qualcosa che va ben oltre me. Senza tutto questo non esisterebbe nemmeno Franco Marino con la sua discreta ma inutile notorietà digitale, alla quale io, Francesco, non ho mai permesso di invadere il mio privato.
Perché è quando si confondono i due ambiti che iniziano i guai.
Franco Marino
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