Passeggiando per la via dove abitavo con i miei e dove ho ancora casa, ad un certo punto mi ritrovo davanti una donna che mi saluta con voce calorosa: "Ciao Francesco!". Io non la riconosco perchè è coperta da un velo e con tutta la perplessità del caso che, unita alla lieve forma di prosopagnosia di cui soffro, mi espone a colossali figuracce quando si tratta di riconoscere i volti, le chiedo timidamente "Aspè tu sei?" "Ma come? Non mi riconosci?". E dalla voce in effetti la riconosco. Decisamente sorpreso dal suo abbigliamento, faccio per darle il classico bacetto smuack smuack che noi meridionali ci diamo sulle guance quando incontriamo una persona amica quando lei mi ferma e mi fa "Scusami ma la mia religione non mi permette il contatto fisico con un maschio". Scopro così che Irina, una ragazza ucraina ma da ormai vent'anni in Italia, che abita poco più avanti casa - e che saltuariamente veniva a fare le pulizie da alcuni vicini - ma che non vedevo da tipo 4-5 anni, si è sposata con un marocchino ed è diventata musulmana. Ha anche cambiato nome, dandosene uno islamico, anche se devo confessare che me lo sono già dimenticato.
Così, parlando del più e del meno, ci raccontiamo cosa è successo e il perché di questa scelta. Azzardo la domanda se le pesi o meno indossare il velo con questo caldo e la sua risposta è che lei sta benissimo così e che sta con un marito che non le fa mancare nulla. E così, come in un flash, ho ripensato agli ultimi accadimenti di cui si è parlato molto come il divieto, in Afghanistan, per le donne di far sentire la propria voce in pubblico, sia nel parlare che nel recitare e sullo stupore da parte degli occidentali di "come in Afghanistan una cosa del genere sia possibile".
Chiarisco subito una cosa. Non sono un appassionato di storia afghana, non ho contatti a Kabul e dintorni e quindi la notizia potrebbe tanto essere vera, tanto essere falsa, tanto essere presumibilmente una notizia vera a metà, manipolata il tanto che basta per imbesuire l'occidentale medio come anche per altre vicende. Quindi l'attendibilità di questo articolo naturalmente si sottopone al cosiddetto "beneficio del dubbio". Ma certamente non ho mai creduto al tiranno che sottomette un intero popolo soltanto col terrore e senza il consenso. Un popolo obbedisce al capo esattamente come i lupi si affidano al capobranco e, quando il capo non soddisfa più le loro richieste, lo fanno fuori.
Così tutte le polemiche su quei paesi che, a dire dei giornali, non rispetterebbero i diritti delle donne mi lasciano normalmente indifferente. In posti dove le donne sono molte di più degli uomini - e questo spiega il perché della poligamia - esse sono il vero punto di forza della società. Se si ribellassero, non ci potrebbe essere alcuna possibilità per i regimi di resistere.
Bisognerebbe, dunque, cominciare a pensare che forse, semplicemente, alla stragrande maggioranza delle donne afghane la propria situazione vada bene così e forse non sia neanche così disagevole. E questa ipotesi mi fu confermata quando, studente universitario, conobbi una donna iraniana con cui ebbi una breve relazione, sufficiente a farmi capire molte cose del mondo musulmano. E ricordo che lei, pur essendo fortemente critica nei confronti sia dell'Islam quanto delle classi dirigenti del suo paese, era al tempo stesso infastidita dalle storie che si raccontano sull'oppressione dei paesi mediorientali, ritenendole buffonate, e su come non si contestualizzasse il perché degli ayatollah in Iran.
La prima cosa che, nella mia ignoranza, mi ha di molto sorpreso è che l'Islam ha una visione del sesso molto più emancipata di quanto sembri. Laddove per il cattolico, almeno quello che pratica coerentemente la dottrina - un'esigua minoranza - il sesso fatto per il piacere fine a se stesso è peccato, nell'Islam non soltanto il piacere non è condannato ma è, anzi, dovere del marito garantire alle proprie donne eguale dignità non soltanto in termini di mantenimento ma anche di piacere sessuale.
La seconda cosa è che le donne musulmane sono molto più contente di vivere lo stato di donne sottomesse all'uomo di quanto l'Occidente ami pensare. Peraltro, salvo rari casi, le donne dei paesi musulmani moderati possono lavorare, andare all'università, vivere una vita del tutto decorosa, con l'unico neo di non poter scoprirsi nei luoghi pubblici ma soltanto col marito e in casa. Quindi non stiamo parlando di lager dove le donne vengono torturate vive, schiavizzate e costrette a servire il marito a colpi di mazzate ma di una condizione di cui moltissime donne islamiche, piaccia o meno - e al sottoscritto, non piace - sono fierissime.
Naturalmente, da occidentale, uno può criticare un tipo di società che preveda per una donna di mettersi un velo o, in qualche caso, persino il burqa. Ma il punto è esattamente questo: la libertà ha un costo e prevede una responsabilità e alla fine, molte donne musulmane, di fronte alla possibilità di fare costantemente lavori precari o di finire a battere in mezzo ad una strada, scelgono di sistemarsi, rinunciando a qualche libertà.
Di fronte ad una situazione come questa, non c'è da stupirsi più di tanto se la rivoluzione americana in Afghanistan sia fallita. Sì, c'è stato un tempo in cui le donne afghane addirittura giravano in minigonna, in cui l'Iran non si chiamava così ma si chiamava Persia, in cui le donne giravano a volto scoperto. Ma erano anche tempi in cui c'era una forte disoccupazione e continue crisi economiche, perché non è che un popolo rinuncia alla libertà per noia ma perché ad essa si accompagnano, spesso, molte responsabilità per le quali non sono attrezzati. E allora gli afghani e gli iraniani, davanti ai modelli proposti dall'Occidente, si sono fatti quindi due conti e si sono chiesti "Ci conviene essere totalmente liberi ma avere paura di non arrivare a fine mese e vivere nell'ansia?". Si sono dati la risposta e hanno scelto di rinunciare a qualche libertà.
Il succo del discorso è che la gente ama essere libera molto meno di quanto ci raccontiamo. E si è visto anche, per esempio, durante la pandemia. Le persone, messe alle strette di fronte al ricatto pandemico, tra la libertà e la sicurezza economica ma anche sanitaria - o meglio, l'illusione di sicurezza - hanno scelto quest'ultima, consegnandosi mani e piedi alla tecnocrazia sanitaria.
Perché ogni discorso sulla libertà ci affascina fin quando non scopriamo che ad essa si accompagna la responsabilità. Non fare i concorsi per entrare nella Pubblica Amministrazione ci permette di poter diventare teoricamente anche miliardari. Ma da quando non si ha più nessuno dietro le spalle, inevitabilmente si vive nell'ansia che una spesa improvvisa possa perigliarci, che all'improvviso ciò che offriamo col nostro lavoro di professionisti passi di moda. E' la cosiddetta responsabilità. Qualcuno non si è premurato di ricordare agli afghani che la libertà - questa parola che rimanda ad atmosfere ariose, come fare il bagno nudi a mare, come volare nel cielo - in realtà ha un costo, sempre e comunque.
E così come Irina ha preferito la sicurezza di essere mantenuta e di essere fondamentalmente sottoposta ad una potestà maritale, alla libertà, così la stragrande maggioranza delle donne afghane e in generale musulmane sono ben felici di non far sentire la propria voce in pubblico, di subire certe restrizioni, per poi spassarsela a casa così. Se gli afghani sono felici così, nessuno deve avere il potere di disturbarli.
Così, parlando del più e del meno, ci raccontiamo cosa è successo e il perché di questa scelta. Azzardo la domanda se le pesi o meno indossare il velo con questo caldo e la sua risposta è che lei sta benissimo così e che sta con un marito che non le fa mancare nulla. E così, come in un flash, ho ripensato agli ultimi accadimenti di cui si è parlato molto come il divieto, in Afghanistan, per le donne di far sentire la propria voce in pubblico, sia nel parlare che nel recitare e sullo stupore da parte degli occidentali di "come in Afghanistan una cosa del genere sia possibile".
Chiarisco subito una cosa. Non sono un appassionato di storia afghana, non ho contatti a Kabul e dintorni e quindi la notizia potrebbe tanto essere vera, tanto essere falsa, tanto essere presumibilmente una notizia vera a metà, manipolata il tanto che basta per imbesuire l'occidentale medio come anche per altre vicende. Quindi l'attendibilità di questo articolo naturalmente si sottopone al cosiddetto "beneficio del dubbio". Ma certamente non ho mai creduto al tiranno che sottomette un intero popolo soltanto col terrore e senza il consenso. Un popolo obbedisce al capo esattamente come i lupi si affidano al capobranco e, quando il capo non soddisfa più le loro richieste, lo fanno fuori.
Così tutte le polemiche su quei paesi che, a dire dei giornali, non rispetterebbero i diritti delle donne mi lasciano normalmente indifferente. In posti dove le donne sono molte di più degli uomini - e questo spiega il perché della poligamia - esse sono il vero punto di forza della società. Se si ribellassero, non ci potrebbe essere alcuna possibilità per i regimi di resistere.
Bisognerebbe, dunque, cominciare a pensare che forse, semplicemente, alla stragrande maggioranza delle donne afghane la propria situazione vada bene così e forse non sia neanche così disagevole. E questa ipotesi mi fu confermata quando, studente universitario, conobbi una donna iraniana con cui ebbi una breve relazione, sufficiente a farmi capire molte cose del mondo musulmano. E ricordo che lei, pur essendo fortemente critica nei confronti sia dell'Islam quanto delle classi dirigenti del suo paese, era al tempo stesso infastidita dalle storie che si raccontano sull'oppressione dei paesi mediorientali, ritenendole buffonate, e su come non si contestualizzasse il perché degli ayatollah in Iran.
La prima cosa che, nella mia ignoranza, mi ha di molto sorpreso è che l'Islam ha una visione del sesso molto più emancipata di quanto sembri. Laddove per il cattolico, almeno quello che pratica coerentemente la dottrina - un'esigua minoranza - il sesso fatto per il piacere fine a se stesso è peccato, nell'Islam non soltanto il piacere non è condannato ma è, anzi, dovere del marito garantire alle proprie donne eguale dignità non soltanto in termini di mantenimento ma anche di piacere sessuale.
La seconda cosa è che le donne musulmane sono molto più contente di vivere lo stato di donne sottomesse all'uomo di quanto l'Occidente ami pensare. Peraltro, salvo rari casi, le donne dei paesi musulmani moderati possono lavorare, andare all'università, vivere una vita del tutto decorosa, con l'unico neo di non poter scoprirsi nei luoghi pubblici ma soltanto col marito e in casa. Quindi non stiamo parlando di lager dove le donne vengono torturate vive, schiavizzate e costrette a servire il marito a colpi di mazzate ma di una condizione di cui moltissime donne islamiche, piaccia o meno - e al sottoscritto, non piace - sono fierissime.
Naturalmente, da occidentale, uno può criticare un tipo di società che preveda per una donna di mettersi un velo o, in qualche caso, persino il burqa. Ma il punto è esattamente questo: la libertà ha un costo e prevede una responsabilità e alla fine, molte donne musulmane, di fronte alla possibilità di fare costantemente lavori precari o di finire a battere in mezzo ad una strada, scelgono di sistemarsi, rinunciando a qualche libertà.
Di fronte ad una situazione come questa, non c'è da stupirsi più di tanto se la rivoluzione americana in Afghanistan sia fallita. Sì, c'è stato un tempo in cui le donne afghane addirittura giravano in minigonna, in cui l'Iran non si chiamava così ma si chiamava Persia, in cui le donne giravano a volto scoperto. Ma erano anche tempi in cui c'era una forte disoccupazione e continue crisi economiche, perché non è che un popolo rinuncia alla libertà per noia ma perché ad essa si accompagnano, spesso, molte responsabilità per le quali non sono attrezzati. E allora gli afghani e gli iraniani, davanti ai modelli proposti dall'Occidente, si sono fatti quindi due conti e si sono chiesti "Ci conviene essere totalmente liberi ma avere paura di non arrivare a fine mese e vivere nell'ansia?". Si sono dati la risposta e hanno scelto di rinunciare a qualche libertà.
Il succo del discorso è che la gente ama essere libera molto meno di quanto ci raccontiamo. E si è visto anche, per esempio, durante la pandemia. Le persone, messe alle strette di fronte al ricatto pandemico, tra la libertà e la sicurezza economica ma anche sanitaria - o meglio, l'illusione di sicurezza - hanno scelto quest'ultima, consegnandosi mani e piedi alla tecnocrazia sanitaria.
Perché ogni discorso sulla libertà ci affascina fin quando non scopriamo che ad essa si accompagna la responsabilità. Non fare i concorsi per entrare nella Pubblica Amministrazione ci permette di poter diventare teoricamente anche miliardari. Ma da quando non si ha più nessuno dietro le spalle, inevitabilmente si vive nell'ansia che una spesa improvvisa possa perigliarci, che all'improvviso ciò che offriamo col nostro lavoro di professionisti passi di moda. E' la cosiddetta responsabilità. Qualcuno non si è premurato di ricordare agli afghani che la libertà - questa parola che rimanda ad atmosfere ariose, come fare il bagno nudi a mare, come volare nel cielo - in realtà ha un costo, sempre e comunque.
E così come Irina ha preferito la sicurezza di essere mantenuta e di essere fondamentalmente sottoposta ad una potestà maritale, alla libertà, così la stragrande maggioranza delle donne afghane e in generale musulmane sono ben felici di non far sentire la propria voce in pubblico, di subire certe restrizioni, per poi spassarsela a casa così. Se gli afghani sono felici così, nessuno deve avere il potere di disturbarli.
E' stato quello che ho detto ad Irina: se sei contenta, buona fortuna e sii felice.
Franco Marino
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