Ad intervalli regolari ritornano in auge la storia di Filippo Turetta col suo bagaglio di polemiche sui delitti a sfondo passionale, di figure che debbono la propria essenza unicamente a quanto appaiano in video. E tutte le volte è difficilissimo non provare un senso di fastidio e di inutilità. Fosse per il sottoscritto, la questione si sarebbe chiusa, per sempre, con l'arresto e la confessione del ragazzo, magari vigilando che la pena se la sconti tutta, dal primo all'ultimo giorno, non che esca dopo sei o sette anni per mezzo di tutti i bizantinismi che l'ordinamento italiano predispone. Ma se ancora si continua a parlarne, è perché si va oltre la speranza che l'assassino "marcisca in carcere" come va di moda dire. Tra cui l'insopportabile propaganda dello pseudofenomeno del "femminicidio". Di cui si parla troppo e male. Intanto è sgrammaticata la parola in sé, perché, con "femmina", si identificano tutti gli esseri viventi di sesso femminile, comprese le decine di zanzare che giornalmente ammazzo e che presumo mi facciano assurgere al rango di "femminicida". In realtà, il termine esatto è "muliericidio" cioè l'omicidio di una donna e già la distinzione di genere è un'aberrazione ma quantomeno sarebbe lessicalmente corretto. Andiamo oltre sennò allunghiamo il brodo.
Dicevamo, di femminicidio si parla troppo e male perché non si considera mai il punto di vista del potenziale assassino. E questo è un errore.
Siamo assolutamente d'accordo - e ci mancherebbe - che un omicidio non sia mai giustificabile, che chi perde la vita, fosse anche la persona più schifosa del mondo tale da portare l'assassino all'esasperazione, sarà sempre una vittima.
Ma proviamo a metterci nei panni di chi arriva ad un punto di sofferenza così elevato da non riuscire ad accettare la fine di un amore o di un'amicizia. Non sempre c'è il viziato che non riesce ad accettare il rifiuto. Spesso c'è chi viene lasciato di punto in bianco, anche quando si è comportato bene, anche quando ha dato tutto se stesso. E se si investe davvero in un rapporto d'amore, la persona amata diventa qualcosa di simile al papà e alla mamma, specie quando accade che queste due figure non ci sono più. Del resto, in un amore felice, i due amati diventano a loro volta padri e madri di altri figli. Insomma, si crea una famiglia.
Se ci immaginassimo, per assurdo, che una madre e un padre abbandonassero un figlio e volessero prendersi cura di qualcun altro, se ci si immaginasse la prospettiva della nostra mamma che prepara i manicaretti che tanto amiamo e del nostro papà che ci protegge da ogni guaio e che tutto questo un giorno possa finire perché veniamo buttati via e ci viene preferito un nostro coetaneo, si proverebbe un misto tra sconforto e dolore. Ecco, quando si investe tutto di se stessi per amare una persona, essere abbandonati è come diventare orfani. E certamente, un rapporto genitoriale non è paragonabile a quello tra fidanzati o coniugi e la mia è un'iperbole. Ma il trauma è identico.
E allora, se così è, perché molti matrimoni e molti fidanzamenti finiscono? E come evitare di impazzire fino a fare scemenze contro gli altri e contro se stessi?
La risposta è una sola, razionale: contestualizzare il momento e perdonare. Perdonare e basta.
Perché il periodo storico non è affatto favorevole alle relazioni vere. Le persone, grazie anche ad un possente stato sociale che ci stalkerizza dalla culla alla tomba e alla dittatura dello scientismo come unica chiave di lettura della realtà, abbisognano sempre meno dei propri simili e sempre meno di Dio inteso come guida, come bussola valoriale. E consacrare la propria vita al sollazzo dell'ego e all'allungamento - e non casomai all'allargamento - del percorso, trasforma il prossimo in un semplice generatore di piacere psicofisico e caricabatteria dell'autostima, da buttare quando non serve più, quando le cose si fanno difficili, quando l'altro è in difficoltà.
Non è tempo di amore quello che vede nella vita terrena il proprio unico fine, e in cui l'esclusivo parametro di valutazione di se stessi e del prossimo è l'appetibilità biologica e il conto in banca.
E questo non è un problema soltanto di chi, non baciato da Madre Natura da un florido conto in banca o da un adorno ammanto, deve sudarsi la nascita e la conservazione di ogni rapporto. Se guardiamo le cronache rosa, ciò che distingue il grande VIP dal comune mortale è solo la quantità di carne umana a disposizione. Per il resto, il dramma di chi è desiderato soltanto per il suo status, per i suoi soldi, non vale la forsennata corsa per conquistarsi il proprio posto al sole. Questo è il mondo di oggi, in cui viviamo.
Prenderne serenamente atto serve a non soffrire quando il trascorrere degli anni, la perdita di attrattiva, il rifiuto, ci faranno scoprire soli, vecchi e pronti ad essere buttati via, quando il secondo tempo della vita inizierà e noi affronteremo la tempesta con sempre meno marinai, sempre meno provviste, sussultando di fronte a qualsiasi onda.
Chi rischia di diventare un potenziale Filippo Turetta e sta per perdere la testa, non lo faccia. Non si rovini la vita. E' inutile. Non ha senso rovinarsi l'esistenza in galera, stramaledetti da una stampa a caccia di capri espiatori e trasformare una piccola carnefice inconsapevole del prossimo in un'iconica vittima. Il vero segreto è considerarsi tutti, anche coloro che offendono i sentimenti altrui, vittime di un tempo brutto, ostile. E se proprio si vuol sapere cosa fa chi lo ha abbandonato o magari indagare sulle ossa degli scheletri disseminati al passaggio, che l'indagine sia silenziosa e non si dia sfogo alla tentazione di giudicare e vendicarsi. E se si scoprirà che il male ricevuto è stato reso da un altro, non si gioisca. Siamo tutti fratelli di quello stesso sangue avvelenato che sfoghiamo sul prossimo, picchiando sulla testa del cagnolino che si era avvicinato scodinzolante a noi per poi abbracciare il lupo che ci morderà a morte.
Sapere tutto questo aiuterà il nostro potenziale Turetta a perdonare perché, in quel momento, scoprirà che la persona che lo ha abbandonato a sua volta non è felice. Non è un "mal comune mezzo gaudio" ma l'unico modo per sopravvivere a quell'inferno dei viventi di cui parlava Italo Calvino di cui alcuni scelgono di diventarne parte e dunque complici del Male mentre altri cercano di scorgere, nell'inferno, chi inferno non è, per farlo durare. Magari il risultato finale non sarà il paradiso, ma ci si può contentare del fresco venticello che, a sera, con una carezza, soffia via l'afa di una brutta giornata e, talvolta, di un vissuto che, dentro e fuori, ci ha bruciati vivi.
Dicevamo, di femminicidio si parla troppo e male perché non si considera mai il punto di vista del potenziale assassino. E questo è un errore.
Siamo assolutamente d'accordo - e ci mancherebbe - che un omicidio non sia mai giustificabile, che chi perde la vita, fosse anche la persona più schifosa del mondo tale da portare l'assassino all'esasperazione, sarà sempre una vittima.
Ma proviamo a metterci nei panni di chi arriva ad un punto di sofferenza così elevato da non riuscire ad accettare la fine di un amore o di un'amicizia. Non sempre c'è il viziato che non riesce ad accettare il rifiuto. Spesso c'è chi viene lasciato di punto in bianco, anche quando si è comportato bene, anche quando ha dato tutto se stesso. E se si investe davvero in un rapporto d'amore, la persona amata diventa qualcosa di simile al papà e alla mamma, specie quando accade che queste due figure non ci sono più. Del resto, in un amore felice, i due amati diventano a loro volta padri e madri di altri figli. Insomma, si crea una famiglia.
Se ci immaginassimo, per assurdo, che una madre e un padre abbandonassero un figlio e volessero prendersi cura di qualcun altro, se ci si immaginasse la prospettiva della nostra mamma che prepara i manicaretti che tanto amiamo e del nostro papà che ci protegge da ogni guaio e che tutto questo un giorno possa finire perché veniamo buttati via e ci viene preferito un nostro coetaneo, si proverebbe un misto tra sconforto e dolore. Ecco, quando si investe tutto di se stessi per amare una persona, essere abbandonati è come diventare orfani. E certamente, un rapporto genitoriale non è paragonabile a quello tra fidanzati o coniugi e la mia è un'iperbole. Ma il trauma è identico.
E allora, se così è, perché molti matrimoni e molti fidanzamenti finiscono? E come evitare di impazzire fino a fare scemenze contro gli altri e contro se stessi?
La risposta è una sola, razionale: contestualizzare il momento e perdonare. Perdonare e basta.
Perché il periodo storico non è affatto favorevole alle relazioni vere. Le persone, grazie anche ad un possente stato sociale che ci stalkerizza dalla culla alla tomba e alla dittatura dello scientismo come unica chiave di lettura della realtà, abbisognano sempre meno dei propri simili e sempre meno di Dio inteso come guida, come bussola valoriale. E consacrare la propria vita al sollazzo dell'ego e all'allungamento - e non casomai all'allargamento - del percorso, trasforma il prossimo in un semplice generatore di piacere psicofisico e caricabatteria dell'autostima, da buttare quando non serve più, quando le cose si fanno difficili, quando l'altro è in difficoltà.
Non è tempo di amore quello che vede nella vita terrena il proprio unico fine, e in cui l'esclusivo parametro di valutazione di se stessi e del prossimo è l'appetibilità biologica e il conto in banca.
E questo non è un problema soltanto di chi, non baciato da Madre Natura da un florido conto in banca o da un adorno ammanto, deve sudarsi la nascita e la conservazione di ogni rapporto. Se guardiamo le cronache rosa, ciò che distingue il grande VIP dal comune mortale è solo la quantità di carne umana a disposizione. Per il resto, il dramma di chi è desiderato soltanto per il suo status, per i suoi soldi, non vale la forsennata corsa per conquistarsi il proprio posto al sole. Questo è il mondo di oggi, in cui viviamo.
Prenderne serenamente atto serve a non soffrire quando il trascorrere degli anni, la perdita di attrattiva, il rifiuto, ci faranno scoprire soli, vecchi e pronti ad essere buttati via, quando il secondo tempo della vita inizierà e noi affronteremo la tempesta con sempre meno marinai, sempre meno provviste, sussultando di fronte a qualsiasi onda.
Chi rischia di diventare un potenziale Filippo Turetta e sta per perdere la testa, non lo faccia. Non si rovini la vita. E' inutile. Non ha senso rovinarsi l'esistenza in galera, stramaledetti da una stampa a caccia di capri espiatori e trasformare una piccola carnefice inconsapevole del prossimo in un'iconica vittima. Il vero segreto è considerarsi tutti, anche coloro che offendono i sentimenti altrui, vittime di un tempo brutto, ostile. E se proprio si vuol sapere cosa fa chi lo ha abbandonato o magari indagare sulle ossa degli scheletri disseminati al passaggio, che l'indagine sia silenziosa e non si dia sfogo alla tentazione di giudicare e vendicarsi. E se si scoprirà che il male ricevuto è stato reso da un altro, non si gioisca. Siamo tutti fratelli di quello stesso sangue avvelenato che sfoghiamo sul prossimo, picchiando sulla testa del cagnolino che si era avvicinato scodinzolante a noi per poi abbracciare il lupo che ci morderà a morte.
Sapere tutto questo aiuterà il nostro potenziale Turetta a perdonare perché, in quel momento, scoprirà che la persona che lo ha abbandonato a sua volta non è felice. Non è un "mal comune mezzo gaudio" ma l'unico modo per sopravvivere a quell'inferno dei viventi di cui parlava Italo Calvino di cui alcuni scelgono di diventarne parte e dunque complici del Male mentre altri cercano di scorgere, nell'inferno, chi inferno non è, per farlo durare. Magari il risultato finale non sarà il paradiso, ma ci si può contentare del fresco venticello che, a sera, con una carezza, soffia via l'afa di una brutta giornata e, talvolta, di un vissuto che, dentro e fuori, ci ha bruciati vivi.
E se il dolore per essere stati abbandonati è troppo difficile da sopportare, si chieda aiuto a Dio senza vergognarsi. Non c'è nulla di cui vergognarsi, se si è credenti, nel confessarsi piccoli e deboli.
Franco Marino
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