In questi giorni, Roberto Saviano è tornato di nuovo sul proscenio. Fondamentalmente è successo che il nostro, dopo anni di insulti al centrodestra, si stupisce di essere stato querelato da Salvini e dalla Meloni e del fatto che questa, una volta al potere, gliel'abbia fatta pagare, bannando il suo programma, circostanza che lo sta portando a lamentarsene con la consueta vocazione al martirio. E come sempre accade da quando, nel lontano 2006, pubblicò Gomorra, capita che molti, sapendomi napoletano, mi chiedano cosa io ne pensi del personaggio e del libro che ha scritto, cosa io ne pensi della camorra, come se Napoli fosse la capitale della criminalità organizzata e non semplicemente uno dei tanti luoghi del mondo dove questa esista.
Non ho intenzione di coltivare la bava alla bocca di chi si aspetta un articolo contro le nefandezze di Saviano, ed anzi, trovo che le principali critiche che gli rivolgono - su tutte, quelle di "aver diffamato Napoli" (che si diffama benissimo da sola senza bisogno di aiuti) o di aver "lucrato sui mali della città" (come se guadagnare sul prodotto della propria intelligenza sia un delitto), siano fondamentalmente stronzate. Come tale è anche la critica su Gomorra la serie, di produrre un effetto emulazione, che anzi proprio il problema di quella fiction è che il messaggio è chiarissimo, ossia "chi fa quella vita, muore sempre e comunque": chiarissimo ed altamente moralistico. Ma falso.
Il vero problema, infatti, di quando si approccia la figura di questo scrittore, è di essere criticato sempre nel modo più sbagliato. Esistono infatti due tipologie di critici: quelli che attaccano un fenomeno oggettivamente deleterio ma nella maniera più sbracata e sbagliata, dunque funzionale alla narrazione dell'ente da criticare - che quindi le fa rimbalzare al mittente in modalità specchio ustorio - e quei pochissimi che ne comprendono l'essenza e che quindi sono sgraditi sia dal nemico che da quelli che teoricamente dovrebbero stare dalla sua parte.
Saviano non è né un diffamatore di Napoli né uno speculatore, ma è semplicemente l'ennesimo prodotto della narrazione dell'antimafia, il ripetitore, in una forma innovativa, di un logoro ed abusato stereotipo molto caro a quell'antimafia che da diciotto anni lo porta sul proscenio: il "camorrista/mafioso/ndranghetista che vessa un popolo innocente".

In questo grande equivoco cadrei anche io se da ragazzino non avessi assistito ad un episodio, avvenuto nel paesino del Centro-Nord dove ho vissuto i primi anni della mia vita, che, non soltanto per la sua essenza ma anche per come reagirono le istituzioni - che noi siamo stati educati a ritenere in buonafede - mi vaccinò per sempre contro la narrazione dell'antimafia e tutta la sua insopportabile retorica.
A quei tempi, andava molto di moda mandare camorristi e mafiosi al confino in alcuni comuni del Nord col risultato che questi signori, invece di starsene con due piedi in una scarpa, riproponevano in alta Italia le stesse logiche che utilizzavano a casa propria: racket, aggressioni, i figli dei boss che infastidivano le ragazze del posto, i negozi bruciati se qualcuno si ribellava e quant'altro. Fin quando, un bel giorno, un commando di qualche migliaio di persone andò nelle case di questi delinquenti e gliele devastarono, sfasciandogli le macchine e quant'altro. Non solo. Quando le autorità del posto tentarono timidamente di minacciare questa truppa di cittadini - con la solita scusante che "non bisogna farsi giustizia da soli" mentre loro non facevano minimamente giustizia - per tutta risposta si sentirono dire che se anche un solo abitante del posto avesse ricevuto conseguenze da quei raid, lo stesso trattamento sarebbe stato riservato anche alle abitazioni di poliziotti e carabinieri che avessero anche solo pensato ad arresti o cose di questo tipo. Risultato: non fu mandato più nessun delinquente al Nord.
E non è finita qui: la cosa sconcertante è che di questa vicenda, che in fondo rappresenta un trionfo di quella stessa società civile che spesso invochiamo "ad minchiam", non si fece minimamente menzione, zero. Non andò sulle TV nazionali, non andò sui giornali, nessuno celebrò il coraggio della cittadinanza.
Per cui, se arriva un giornalista che mi racconta la guerra alla mafia come una lotta tra il Bene, teoricamente rappresentato dallo Stato, e il Male, teoricamente rappresentato dal mafioso, chi la mafia l'ha vista cacciare a pedate - come del resto si dovrebbe fare - vede questa narrazione, che è quella di Saviano, ma anche di di PIF e di tutti quei signori che hanno tratto dei dividendi personali dall'antimafia, per la buffonata che è.

Se prendiamo "Il camorrista" di Joe Marrazzo - da cui poi fu tratto l'omonimo e celeberrimo lungometraggio - già abbiamo una rappresentazione più realistica, con tutti i difetti di un libro apertamente politicizzato (Marrazzo era comunista) ma che quantomeno analizza in maniera realistica la figura de 'o Professore 'e vesuviano, un capo certamente sanguinario quando occorre ma che, nel frattempo, risolve anche problemi contingenti. Che è poi la vera criminalità organizzata nella sua essenza. Perché i mafiosi vivono del consenso sociale, che effettivamente hanno e che consente loro di spadroneggiare.
Ebbene, con Saviano tutto questo viene meno e Gomorra, libro, film e serie, non sono niente di diverso da Dallas o da Dynasty, lotte di potere, senza che il popolo venga minimamente chiamato in causa. La ripetitività dell'autore napoletano, in questo senso, è di inserirsi in un filone narrativo logoro e abusato, che ha sempre espresso un'acritica demonizzazione della figura del mafioso, senza mai indagare a sufficienza la complicità di una cittadinanza che, se si associasse per cacciare a pedate la mafia, la butterebbe fuori in una giornata.
Fiction come la Piovra, Pizza Connection, Gomorra, il Capo dei Capi, più i tanti polpettoni agiografici su magistrati, poliziotti, giornalisti caduti in agguati mafiosi, si fondano sull'evidente falso storico che vede la mafia come un gruppo di trogloditi che passa il tempo a dire "minchia" o "che sfaccimma" e non persone che creano posti di lavoro, risolvono problemi sul territorio, e via dicendo, cosa che certamente non fanno nell'interesse della collettività ma dei loro associati, ci mancherebbe. Ma forse che le classi politiche tradizionali non si caratterizzino per giochi di potere?
Se, invece, qualcuno seguisse l'esempio del paese di cui parlavo, si darebbe il pericolosissimo messaggio - che lo Stato non vuole che arrivi - che per sconfiggere la mafia, basterebbe dare ai cittadini il diritto di difendersi concretamente e di andare a prendere i mafiosi nelle loro case, distruggendo tutto ciò che hanno. Questo no, lo Stato non può proprio tollerarlo:
hai visto mai che la cosa si possa ripetere contro i politici?

Chi ha avuto modo di vedere "Così parlò Bellavista" di De Crescenzo, sicuramente ricorderà la scena del cavalluccio rosso. Un signore medio borghese subisce uno scippo da un ragazzino e, ad un capannello di curiosi che si infoltisce sempre più, racconta l'accaduto e descrive con dovizia di particolari cosa farebbe allo scugnizzo in questione se lo rincontrasse, fino a quando quest'ultimo ritorna accompagnato da un camorrista che gli dice di andare a riprendere la collanina che, durante lo scippo, si era dimenticato nella macchina della vittima, lasciando ammutolita e impaurita tutta la folla, compreso il signore scippato.
Domanda: è credibile che trenta-quaranta persone si facciano intimorire da un camorrista per quanto ben armato e nerboruto? Ovviamente no. Ma c'era da mandare un segnale ben preciso: la camorra è imbattibile, davanti al camorrista devi abbassare la testa. Se invece la scena avesse visto il camorrista preso a calci e pedate dalla folla, magari pure ammazzato, il messaggio lanciato sarebbe stato di una potenza devastante:
"Lo vedete che se vi mettete insieme, la camorra si può sconfiggere?".

Quello che, sostanzialmente, non si vuol capire della mafia è che la mafia siamo noi cittadini. Noi che cerchiamo di vincere un concorso con le raccomandazioni, che cerchiamo di ottenere in anticipo una visita in ospedale che invece ci spetterebbe tra qualche mese, che chiediamo troppe cose allo Stato che non può soddisfare e, vedendo delusa la nostra aspettativa, le chiediamo al mafioso che, ovviamente, per potercele garantire, deve utilizzare metodi che uno Stato normale, almeno formalmente, non potrebbe mai permettersi. Ma dal momento che tutto questo non si può e non si deve dire, lo Stato periodicamente sforna figure come Saviano il cui compito sostanziale è vendere indulgenze, assolvere il popolo dalle colpe circa la presenza di un fenomeno che, invece, sarebbe perfettamente battibile, se soltanto il popolo si associasse e decidesse di espellerlo.
Ma lo Stato non si può permettere cittadini coraggiosi. Altrimenti non potrebbe far loro accettare i lockdown, i green pass, i green deal, le bollette alle stelle, in sintesi i tanti soprusi che quotidianamente accettano. E le classi dirigenti non potrebbero vivere nella convinzione che il proprio potere non abbia limiti.
Perché non esiste alcuna tirannia che, sia essa sotto forma di Stato, di clan mafioso, di gruppo finanziario, di satanisti, di rettiliani, quel che volete, possa prosperare senza il consenso della sua gente.

Franco Marino

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Comments

L'Italia non potrà mai cambiare, perché non c'è la " volontà" di cambiare il sistema. Lo stato e il popolo fanno tanti bla-bla, ma tutto rimane uguale.
Molto triste......
 
Invece la volontà di cambiare c’è, si sono raggiunte delle consapevolezze che prima solo alcuni avevano capito
Tutti gli altri devono sbrigarsi ad aprire gli occhi
 
Il boss però non è da solo contro il resto della popolazione. Sotto il boss ci sono i picciotti, gli esattori, i ras del quartiere. Una ribellione di massa, dal basso contro la mafia, in queste condizioni, dovrebbe assumere connotati di vera e propria guerra civile, che ovviamente l'uomo medio non è così disposto ad accettare se non quando si trovi già con le spalle al muro. La rivolta contro il boss nel paesino del Nord ha funzionato perché probabilmente quel pregiudicato era ancora l'unico mafioso del paese, senza un'organizzazione ramificata. Prova a fare lo stesso in qualcuno dei paesini dell'entroterra lombardo, dove ormai da tempo sembra abbia preso piede la 'ndrangheta.
 

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