Da diverso tempo si evoca lo scenario di una guerra civile in America e, se ciò avviene, vuol dire che questa ipotesi è tutt'altro che peregrina. Del resto, i problemi americani sono noti - almeno a chiunque voglia scoprirli (perché i media tentano di seppellirli sotto il tappeto il più possibile) - e quindi chi, sotto forma di romanzo o di saggio, denunzi questo rischio, non dice in sé un'eresia. L'America siede su una polveriera.
Civil War non è, dunque, certo il primo prodotto artistico che affronta il tema. Del film in sé, sul piano tecnico, c'è poco da dire. Non avendo le competenze per dire se sia fatto bene ma essendo semplicemente un appassionato non competente di film di questo tipo, posso solo apprezzare il fatto che, per essere una roba americana, sia violenta ma relativamente sobria e che gli attori che lo interpretano sono tutti relativamente poco conosciuti ma, nondimeno, molto bravi. La più famosa, Kirsten Dunst, la protagonista (peraltro bravissima) sfiorò qualche anno fa un Oscar e me la ricordo in E.R. Medici in Prima Linea dove fece qualche puntata e soprattutto nel buon Wimbledon, ispirato alla clamorosa e inaspettata vittoria di Ivanisevic nello Slam londinese. Ma per il resto, poco di significativo. Poi c'è Wagner Moura, protagonista di Narcos nel ruolo di Pablo Escobar, un ottimo attore che oltretutto interpretando nel film il giornalista protagonista, gioca in casa, essendo egli stesso un giornalista oltre che un attore.
In generale si ha - parlo da profano, beninteso - la sensazione di un ottimo prodotto artigianale, realizzato con costi relativamente ridotti (50 milioni non sono tantissimi se confrontati con altri prodotti) ma con un'eccellente potenziale resa. Ma questa è giustappunto una sensazione. Sul giudizio finale passo la palla ai veri esperti di cinema, perché io non lo sono.
La nota dolente è, a mio avviso, la trama che, in ogni produzione letteraria o cinematografica, è la spina dorsale che conduce ciò che l'autore voleva dire al destinatario. E che, in questo caso, ha il difetto di trattare il tema di una potenziale guerra civile con schemi piuttosto obsoleti.
La trama la riassumo in breve: un gruppo di giornalisti parte per Washington dove le forze dell'Ovest stanno per assediare la Casa Bianca e l'obiettivo principale è di intervistare il Presidente ormai prossimo ad essere ammazzato. Nel corso del viaggio, affronteranno moltissime insidie come da prassi in un thriller di azione, specialmente di guerra, fino ad arrivare alla Casa Bianca dove troveranno un Presidente ormai alla deriva sul piano psichico. I militari sopraggiungono, lo uccidono e si fanno una foto sorridenti col cadavere del presidente. Francamente, tutto molto debole, a dispetto dell'apparente truculenza.
Civil War, intendiamoci bene, non è certo il primo film che paventa possibili futuri casini negli USA. In tal senso, uno dei più iconici fu Joker, di qualche anno fa, che però se si esce dal giudizio sulle interpretazioni attoriali, semplicemente strabilianti, di Phoenix e di De Niro, può essere considerato, mi si perdoni il termine licenzioso, un classico esempio di coito interrotto, nel senso che l'impressione - condivisa anche da altri recensori diciamo non allineati - è che, ad un certo punto, qualche dirigente di Hollywood, dopo aver letto la trama, abbia imposto agli autori di psichiatrizzare il protagonista, trasformandolo in un malato di mente che si mette ad ammazzare gente ad minchiam, per frustrazione. Sottinteso, secondo i censori, "se succedono i casini, sarà solo per colpa di qualche matto fuori di testa, non della società americana in quanto tale". E che in realtà chi ha creato la trama, volesse dire molto di più ma gli sia stata tappata la bocca.
Analogamente, in Civil War si sostiene semplicemente la tesi poco realistica che un'eventuale guerra civile in America - che dal modesto punto di vista di chi scrive, è altamente probabile - segua criteri territoriali e cioè gli Stati A-B-C-D-E-F che dichiarano guerra agli Stati G-H-I-L-M-N, dimenticando che negli USA si sta semplicemente verificando qualcosa di ben più banale ma al tempo stesso assai più rischioso e pericoloso: una sorta di lotta di classe, un conflitto sociale che va oltre gli schemi classici. Il che si vede anche dal fatto che il film si chiuda con la morte del Presidente degli USA, con tanto di ingresso del nemico nella Casa Bianca. Molto moralismo - l'atrocità della guerra, la voglia di fama nell'essere spettatori in prima fila di fronte al triste spettacolo - e dunque poco realistico.
In realtà, chiunque conosca davvero il sistema americano, sa che le istituzioni politiche sono la parte meno importante del paese. Sa che il vero potere è detenuto dalla finanza e dalle sue protesi mediatiche, alle quali la politica inevitabilmente si piega, e che deve misurarsi con un paese sempre più insicuro, in cui il ceto medio sta venendo progressivamente distrutto. E sa che un vero film realistico non si concluderebbe con la morte del Presidente ma con la distruzione dei capisaldi del potere americano, che sono tutti esterni alle istituzioni ufficiali. Il conflitto è trasversale e transtatale perché investe le due anime dell'America, quella ancora legata ad una visione western della vita, della società, dei rapporti interpersonali, per certi versi rustica e che ambirebbe a starsene per i fatti propri, e l'America patinata, radical chic, ispiratrice di un socialismo internazionale che ha preso pieghe psichiatricamente totalitarie, fino al punto di depenalizzare in California i furti nei negozi al di sotto dei 900 dollari e fino a consentire che un giudice si permetta di minacciare l'arresto a Trump se questi osasse commentare la sua vicenda processuale, per non parlare dei ban che gran parte degli esponenti del GOP hanno dovuto subire dai social, fino al punto di doversene costruire uno proprio.
In sintesi, Civil War affronta il rischio di una guerra civile come se si trattasse di una partita a Risiko o di una guerra di secessione 2.0, quando il vero pericolo, in America e in generale in tutti quei paesi sottoposti all'influenza americana, è di arrivare ad una guerra fratricida non di tipo territoriale ma sociale, del tutto analoga a quelle che scoppiavano nell'era tardorepubblicana dell'Impero Romano.
In altre parole, non c'è da temere lo scoppio di una guerra tra stati del Nord e stati del Sud, ma tra correnti antropologiche americane e in generale occidentali. E dal momento che l'Italia è sottoposta all'influenza geopolitica ed economica degli Stati Uniti, questa merda rischia seriamente di arrivare - e se ne sente già l'olezzo - anche qui da noi. In sostanza, non credo ad una guerra civile tra Texas e California, tra Lombardia e Campania o tra Catalogna e Andalusia, ma tra novax e provax, tra putiniani e filoucraini, tra sostenitori del Green Deal e avversari, tra Repubblicani e Democratici. E dunque il rischio è che chi ha subito i danni del vaccino, vedendosi abbandonato dallo Stato, decida di prendere le armi ed ammazzare, casa per casa, chi ha sostenuto i deliri pandemici. Oppure che chi è costretto a tirare fuori 50.000 euro per rifare casa propria, se non li ha, si senta autorizzato a rapinare le case di chi ha sostenuto il Green Deal.
Finirà così? Abbiamo premuto troppo il piede sull'acceleratore? Chissà. Ma ragionare sul futuro del nostro mondo vedendo gli Stati come alveari, è forse il modo migliore per allontanarsi dalla comprensione di ciò che sta accadendo.
Civil War non è, dunque, certo il primo prodotto artistico che affronta il tema. Del film in sé, sul piano tecnico, c'è poco da dire. Non avendo le competenze per dire se sia fatto bene ma essendo semplicemente un appassionato non competente di film di questo tipo, posso solo apprezzare il fatto che, per essere una roba americana, sia violenta ma relativamente sobria e che gli attori che lo interpretano sono tutti relativamente poco conosciuti ma, nondimeno, molto bravi. La più famosa, Kirsten Dunst, la protagonista (peraltro bravissima) sfiorò qualche anno fa un Oscar e me la ricordo in E.R. Medici in Prima Linea dove fece qualche puntata e soprattutto nel buon Wimbledon, ispirato alla clamorosa e inaspettata vittoria di Ivanisevic nello Slam londinese. Ma per il resto, poco di significativo. Poi c'è Wagner Moura, protagonista di Narcos nel ruolo di Pablo Escobar, un ottimo attore che oltretutto interpretando nel film il giornalista protagonista, gioca in casa, essendo egli stesso un giornalista oltre che un attore.
In generale si ha - parlo da profano, beninteso - la sensazione di un ottimo prodotto artigianale, realizzato con costi relativamente ridotti (50 milioni non sono tantissimi se confrontati con altri prodotti) ma con un'eccellente potenziale resa. Ma questa è giustappunto una sensazione. Sul giudizio finale passo la palla ai veri esperti di cinema, perché io non lo sono.
La nota dolente è, a mio avviso, la trama che, in ogni produzione letteraria o cinematografica, è la spina dorsale che conduce ciò che l'autore voleva dire al destinatario. E che, in questo caso, ha il difetto di trattare il tema di una potenziale guerra civile con schemi piuttosto obsoleti.
La trama la riassumo in breve: un gruppo di giornalisti parte per Washington dove le forze dell'Ovest stanno per assediare la Casa Bianca e l'obiettivo principale è di intervistare il Presidente ormai prossimo ad essere ammazzato. Nel corso del viaggio, affronteranno moltissime insidie come da prassi in un thriller di azione, specialmente di guerra, fino ad arrivare alla Casa Bianca dove troveranno un Presidente ormai alla deriva sul piano psichico. I militari sopraggiungono, lo uccidono e si fanno una foto sorridenti col cadavere del presidente. Francamente, tutto molto debole, a dispetto dell'apparente truculenza.
Civil War, intendiamoci bene, non è certo il primo film che paventa possibili futuri casini negli USA. In tal senso, uno dei più iconici fu Joker, di qualche anno fa, che però se si esce dal giudizio sulle interpretazioni attoriali, semplicemente strabilianti, di Phoenix e di De Niro, può essere considerato, mi si perdoni il termine licenzioso, un classico esempio di coito interrotto, nel senso che l'impressione - condivisa anche da altri recensori diciamo non allineati - è che, ad un certo punto, qualche dirigente di Hollywood, dopo aver letto la trama, abbia imposto agli autori di psichiatrizzare il protagonista, trasformandolo in un malato di mente che si mette ad ammazzare gente ad minchiam, per frustrazione. Sottinteso, secondo i censori, "se succedono i casini, sarà solo per colpa di qualche matto fuori di testa, non della società americana in quanto tale". E che in realtà chi ha creato la trama, volesse dire molto di più ma gli sia stata tappata la bocca.
Analogamente, in Civil War si sostiene semplicemente la tesi poco realistica che un'eventuale guerra civile in America - che dal modesto punto di vista di chi scrive, è altamente probabile - segua criteri territoriali e cioè gli Stati A-B-C-D-E-F che dichiarano guerra agli Stati G-H-I-L-M-N, dimenticando che negli USA si sta semplicemente verificando qualcosa di ben più banale ma al tempo stesso assai più rischioso e pericoloso: una sorta di lotta di classe, un conflitto sociale che va oltre gli schemi classici. Il che si vede anche dal fatto che il film si chiuda con la morte del Presidente degli USA, con tanto di ingresso del nemico nella Casa Bianca. Molto moralismo - l'atrocità della guerra, la voglia di fama nell'essere spettatori in prima fila di fronte al triste spettacolo - e dunque poco realistico.
In realtà, chiunque conosca davvero il sistema americano, sa che le istituzioni politiche sono la parte meno importante del paese. Sa che il vero potere è detenuto dalla finanza e dalle sue protesi mediatiche, alle quali la politica inevitabilmente si piega, e che deve misurarsi con un paese sempre più insicuro, in cui il ceto medio sta venendo progressivamente distrutto. E sa che un vero film realistico non si concluderebbe con la morte del Presidente ma con la distruzione dei capisaldi del potere americano, che sono tutti esterni alle istituzioni ufficiali. Il conflitto è trasversale e transtatale perché investe le due anime dell'America, quella ancora legata ad una visione western della vita, della società, dei rapporti interpersonali, per certi versi rustica e che ambirebbe a starsene per i fatti propri, e l'America patinata, radical chic, ispiratrice di un socialismo internazionale che ha preso pieghe psichiatricamente totalitarie, fino al punto di depenalizzare in California i furti nei negozi al di sotto dei 900 dollari e fino a consentire che un giudice si permetta di minacciare l'arresto a Trump se questi osasse commentare la sua vicenda processuale, per non parlare dei ban che gran parte degli esponenti del GOP hanno dovuto subire dai social, fino al punto di doversene costruire uno proprio.
In sintesi, Civil War affronta il rischio di una guerra civile come se si trattasse di una partita a Risiko o di una guerra di secessione 2.0, quando il vero pericolo, in America e in generale in tutti quei paesi sottoposti all'influenza americana, è di arrivare ad una guerra fratricida non di tipo territoriale ma sociale, del tutto analoga a quelle che scoppiavano nell'era tardorepubblicana dell'Impero Romano.
In altre parole, non c'è da temere lo scoppio di una guerra tra stati del Nord e stati del Sud, ma tra correnti antropologiche americane e in generale occidentali. E dal momento che l'Italia è sottoposta all'influenza geopolitica ed economica degli Stati Uniti, questa merda rischia seriamente di arrivare - e se ne sente già l'olezzo - anche qui da noi. In sostanza, non credo ad una guerra civile tra Texas e California, tra Lombardia e Campania o tra Catalogna e Andalusia, ma tra novax e provax, tra putiniani e filoucraini, tra sostenitori del Green Deal e avversari, tra Repubblicani e Democratici. E dunque il rischio è che chi ha subito i danni del vaccino, vedendosi abbandonato dallo Stato, decida di prendere le armi ed ammazzare, casa per casa, chi ha sostenuto i deliri pandemici. Oppure che chi è costretto a tirare fuori 50.000 euro per rifare casa propria, se non li ha, si senta autorizzato a rapinare le case di chi ha sostenuto il Green Deal.
Finirà così? Abbiamo premuto troppo il piede sull'acceleratore? Chissà. Ma ragionare sul futuro del nostro mondo vedendo gli Stati come alveari, è forse il modo migliore per allontanarsi dalla comprensione di ciò che sta accadendo.
Franco Marino
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