Sul suo profilo, lo scrittore e giornalista Andrea Sartori, nonché mio amico di Facebook, sulla scia del successo di Vannacci, lancia un tema molto interessante che ripropone una diatriba famosa almeno quanto quella dell'uovo e della gallina: quando si scrive qualcosa (libri, articoli) bisogna dare "qualcosa che piace a tutti" oppure "scrivere cose di qualità"?
Se si è animati da una visione liberale del mondo, non c'è nulla di più soggettivo della qualità, anche se la convinzione che tutto sia demandato al rapporto tra autore e lettore parte dal presupposto che il successo di un prodotto artistico sia esclusivamente figlio di un rapporto diretto tra chi scrive e chi legge, mentre sappiamo benissimo che un successo letterario - né più né meno di un ciclopico flop - spesso sono influenzati da una miriade di fattori, a partire da come viene pubblicizzata se non addirittura scientificamente stroncata un'opera. E tuttavia, dal momento che gli editori non sono fessi, una produzione artistica deve quantomeno avere un aggancio con la realtà. E questo implica che chi produce un'opera e chi ne fruisce creino una sorta di rapporto virtuale.
In tal senso, la tesi di Andrea Sartori che, esattamente come il sottoscritto, ha stroncato il libro del generale, è che "non bisogna assecondare il lettore dandogli roba di scarsa qualità pur di ottenere la sua attenzione" e che "l'importante non è leggere ma leggere bene". Sono tutte considerazioni in linea di principio condivisibili ma che non tengono conto di un particolare. Quale?

Al di fuori della scuola dell'obbligo o di corsi universitari e in generale professionali, leggere un libro richiede inevitabilmente e banalmente la nostra volontà nel volerlo comprare, il che, a sua volta, richiede che si apprezzi l'autore. E nemmeno questi due aspetti sono sufficienti. Per esempio può capitare, e mi è capitato con Luciano De Crescenzo, che ad un certo momento mi stanchi di leggere autori che in un primo momento adoro. Il De Crescenzo di Bellavista, ma anche della sua divertentissima autobiografia, ha meritato tutto il planetario successo che ha ancora oggi. Quello di poi, diciamo da Croce e Delizia in avanti, francamente mi aveva stufato, perché diceva sempre le stesse cose che io avevo già letto in libri precedenti, oltretutto con toni sempre meno leggeri. Stesso discorso Jerome K. Jerome, di cui ho apprezzato tutto ciò che scriveva fino a "Loro ed io", che mi ha deluso per la piega moralistica che ad un certo punto - ma capita in generale a moltissimi umoristi - aveva preso.
Lettore e autore sviluppano un rapporto personale che nessuno dei due è obbligato a tenere in piedi, salvo che non sia un testo scolastico il cui apprendimento è necessario per essere promossi. La convinzione che non si debba assecondare il pubblico e che si debba forzarlo, col ricatto morale che deve sorbirsi anche roba che non gli piace purché sia colta, presuppone una mentalità involontariamente da Minculpop.
Il lettore ascolta chi si pone dolcezza, lo coccola ed entra in empatia con lui. Quindi bisogna *sempre* assecondarlo. E se qualche volta l'autore vede che il lettore, come il cavallo imbizzarrito, si rifiuta di saltare un ostacolo, bisogna sempre rivolgersi a lui col sorriso benevolo di Orazio che "castigava ridendo i malcostumi" e tener conto che "alla natura si comanda obbedendole".
In tal senso, un punto di riferimento, per me, è sempre stato Montanelli. Anche quando capitava che fossi in disaccordo con lui e d'accordo col suo rivale per eccellenza, Eugenio Scalfari, non riuscivo mai, quando leggevo quest'ultimo, a schiodarmi dalla testa l'immagine di un barbuto docente liceale o universitario, pronto a promuovermi o bocciarmi a seconda di quanto mi adeguassi alle sue sentenze. Viceversa, Montanelli mi ricorda molto quel nonno che ho molto amato e che quando ci raccontava le sue esperienze passate, ci teneva legati a lui da quell'incantatore di serpenti che era. Scorrevolezza, semplicità e la giusta spruzzata di umorismo erano il tratto distintivo del vecchio Indro che, quando finalmente si decise a scrivere la storia d'Italia, vendette una valanga di copie, mentre i libri di Scalfari non se li è mai filati nessuno. Al momento di fare una scelta, i toni cattedratici e professorali fanno dire al lettore "Ma che per caso sono tornato a scuola e nessuno me l'ha detto?" mentre quelli tenui, acquarellati e sorridenti, senza la pretesa di aver scoperto la Verità, vincono sempre. Qualcosa che cerco sempre, ahimè senza successo, di far capire al mio amico, anch'egli scrittore, Matteo Fais.

Il successo di Vannacci ha una derivazione molto agevole da capire. Il generale ha dato sfogo - e qui Sartori ha ragione - ad una frustrazione effettivamente esistente in molti suoi lettori che ogni giorno sui social palesano la propria insofferenza nei confronti di un sistema e che avevano semplicemente bisogno di una figura autorevole, quale quella di un generale, che desse valore alle proprie convinzioni. Ma il punto è: quale legge stabilisce che dovesse comportarsi diversamente? Chi l'ha detto che un libro debba essere per forza un'opera da inserire in qualche antologia scolastica perché rientrante in criteri qualitativi oltretutto non universalmente riconosciuti? Vannacci, a suo modo, è riuscito a conquistarsi un seguito e anche a farci dei soldi, fondamentalmente autopromuovendosi.
Che il suo scritto sia pessimo, se lo pensiamo, possiamo scriverlo e anche dirlo. Ma la convinzione di un universale concetto di qualità ci riporta alla Megaditta dove lavorava Fantozzi, dove, per la verità, a far scattare i novantadue minuti di applausi a seguito dell'esternazione colorita di Fantozzi non era certo la qualità intrinseca - tutt'altro che malvagia - del film "La Corazzata Potemkin", ma la ribellione a qualcosa di imposto dall'alto.

Quando si scrive qualsiasi cosa, la prima regola è tagliarsi la barba bianca e l'occhiale del professore, specialmente se nella vita non si è combinato niente che ci faccia meritare questo titolo, ed essere semmai un amico che non si pone al prossimo con l'aria di rivelargli verità immortali ma, semplicemente, la sua semplice visione del mondo, distillata dinnanzi ad un buon caffè. Che è peraltro il requisito che mi porta ad apprezzare lo stesso Sartori.
Nessuno, specialmente tra coloro che si sono almeno diplomati, leggerebbe con piacere qualcuno che gli ricordasse il professore stronzo del liceo.

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