A proposito del filmetto di Paola Cortellesi "C'è ancora domani", vale la famosa critica: "Non l’ho visto e non mi piace”. E questo giudizio ispira in automatico un incalzamento sulla contraddizione in esso contenuta: "Come puoi dire che non ti piace se non l'hai visto?"
In realtà quella risposta ha una sua validità. Un'opera artistica può appartenere ad un genere che si ha pure il diritto di non gradire. Un uomo molto pudico può non digerire i filmetti porno, un credente può non tollerare opere dedite a dir tutto il male possibile della sua religione, una persona sensibile può non sopportare un film violento. In questi casi: "Non l’ho visto e non mi piace" corrisponde a dire: "Non gradisco questo tipo di arte".
Il genere cui appartiene la pellicola della Cortellesi è quello della denigrazione del maschio italiano. E non è necessario essere maschi e nemmeno avere storie di violenze praticate sulle donne per odiare questa propaganda. Basta avere rispetto per sé e per la propria famiglia, ricordare che tipo di padre o di nonno - per i più fortunati come me, persino un bisnonno - abbiamo avuto, vedere il riguardo con cui trattavano le compagne della loro vita e pensare a quanti torti, lungo il corso della propria vita, si possa aver subito dal sesso femminile, mai sufficienti per disprezzarle tutte a priori ma quantomeno tali per provare ribrezzo verso chi ritiene quello maschile colpevole di ogni nequizia. E soprattutto basta rimembrare le centinaia di milioni di maschi, morti indossando una divisa, perché la patria gliel'ha ordinato, mentre le donne stavano col sedere al caldo a casa.
Dopodiché noi uomini abbiamo dei difetti e delle colpe? Possibile, ma solo se si è disposti a parlare anche di quelli del gentil sesso. Forse che le femmine sono innocenti come neonati e pure come gigli? Noi potremmo peccare di mansplaining, di manspreading, di cat calling e in generale di tutte le diavolerie americaneggianti che le donne ci attribuiscono. Forse che l'altra metà del cielo non si distingua, talvolta per schifezze e sconcezze nei confronti dei maschi, come quando per esempio si avvicina a qualche pollo per insidiarne l'eredità paterna o i lauti guadagni ottenuti come brillante professionista per poi, con una causa di separazione, ambire ad un'ampia fetta della torta, scaricandolo in mezzo ad una strada?
Paola Cortellesi si illude che il successo di critica e di pubblico del suo film dipenda dal coraggio delle sue denunzie: in realtà la molla di base di quel "successo" è il favore che l'opera di conflittualizzazione del maschio e della femmina incontra ad oggi nei centri di potere dove si stabilisce cosa va promosso sui media e cosa va osteggiato.
Ecco perché l'altro giorno dicevo che questo paese avrebbe bisogno di una guerra. Perché queste scemenze attecchiscono soltanto quando ci si può permettere di poterle pronunciare senza che il pericolo giornaliero ci porti a trovarle ridicole.
In realtà quella risposta ha una sua validità. Un'opera artistica può appartenere ad un genere che si ha pure il diritto di non gradire. Un uomo molto pudico può non digerire i filmetti porno, un credente può non tollerare opere dedite a dir tutto il male possibile della sua religione, una persona sensibile può non sopportare un film violento. In questi casi: "Non l’ho visto e non mi piace" corrisponde a dire: "Non gradisco questo tipo di arte".
Il genere cui appartiene la pellicola della Cortellesi è quello della denigrazione del maschio italiano. E non è necessario essere maschi e nemmeno avere storie di violenze praticate sulle donne per odiare questa propaganda. Basta avere rispetto per sé e per la propria famiglia, ricordare che tipo di padre o di nonno - per i più fortunati come me, persino un bisnonno - abbiamo avuto, vedere il riguardo con cui trattavano le compagne della loro vita e pensare a quanti torti, lungo il corso della propria vita, si possa aver subito dal sesso femminile, mai sufficienti per disprezzarle tutte a priori ma quantomeno tali per provare ribrezzo verso chi ritiene quello maschile colpevole di ogni nequizia. E soprattutto basta rimembrare le centinaia di milioni di maschi, morti indossando una divisa, perché la patria gliel'ha ordinato, mentre le donne stavano col sedere al caldo a casa.
Dopodiché noi uomini abbiamo dei difetti e delle colpe? Possibile, ma solo se si è disposti a parlare anche di quelli del gentil sesso. Forse che le femmine sono innocenti come neonati e pure come gigli? Noi potremmo peccare di mansplaining, di manspreading, di cat calling e in generale di tutte le diavolerie americaneggianti che le donne ci attribuiscono. Forse che l'altra metà del cielo non si distingua, talvolta per schifezze e sconcezze nei confronti dei maschi, come quando per esempio si avvicina a qualche pollo per insidiarne l'eredità paterna o i lauti guadagni ottenuti come brillante professionista per poi, con una causa di separazione, ambire ad un'ampia fetta della torta, scaricandolo in mezzo ad una strada?
Paola Cortellesi si illude che il successo di critica e di pubblico del suo film dipenda dal coraggio delle sue denunzie: in realtà la molla di base di quel "successo" è il favore che l'opera di conflittualizzazione del maschio e della femmina incontra ad oggi nei centri di potere dove si stabilisce cosa va promosso sui media e cosa va osteggiato.
Ecco perché l'altro giorno dicevo che questo paese avrebbe bisogno di una guerra. Perché queste scemenze attecchiscono soltanto quando ci si può permettere di poterle pronunciare senza che il pericolo giornaliero ci porti a trovarle ridicole.
Chi invece le produce e chi invece va al cinema, al teatro a fruirne, dimentica che queste "opere" sono possibili solo in tempi - almeno qui in Italia - di pace perché, in tempi di guerra, una donna sarebbe costretta ad ammettere a se stessa che, senza un uomo accanto, sarebbe costretta a privazioni e compromessi ben peggiori di quelle causate dal cosiddetto patriarcato.