Il secondo posto ottenuto dal rapper napoletano Geolier ha aperto una polemica circa il fatto che a Sanremo si debba cantare o meno in italiano ma soprattutto su un annoso tema ovvero se si possa considerare o meno il napoletano una lingua o un dialetto. Il che implica per forza di cose di dover stabilire la differenza tra le due cose. Come prima cosa, c'è da dire che Sanremo pullula di canzoni in dialetto - penso alla meravigliosa "Spunta la luna dal monte" di Pierangelo Bertoli con i Tazenda - e che non si capisce dunque lo scandalo per un rapper che canta in napoletano. Al limite si può dire che quella di Geolier non fosse una bella canzone. Ma se la meravigliosa Cu'mmè di Enzo Gragnaniello, Mia Martini e Roberto Murolo fosse stata portata a Sanremo e avesse vinto, nessun italiano si sarebbe scandalizzato, perché quella canzone ci viene invidiata da tutti gli italiani e, ho scoperto con una certa sorpresa, anche da molti stranieri.
La vera lingua degli italiani non è certo il "doppiaggese" che si sente nei film ma si adatta al vastissimo patrimonio dialettale che le plurime origini del nostro paese hanno generato e che non ha eguali al mondo.
Né la ricerca di una definizione attraverso i dizionari aiuta. Le lingue non seguono percorsi dottrinali ma il comune sentire della gente che poi evolve a struttura di potere. E se persino da brillanti professionisti con tanto di laurea sento fare usi transitivi di verbi intransitivi, un professore potrà bocciarli a qualche esame ma non potrà certo impedire loro di salutare l'amico con cui sono al telefono perché "devono scendere il cane giù". Sottintendendo, ovviamente, che debbano "pisciarlo".
I criteri con cui si distingue una lingua dal dialetto sono contraddittori e, paradossalmente, rafforzano la tesi opposta a quella che si vorrebbe confermare. Quando si afferma, ad esempio, come sostengono i teorici del napoletano come lingua, che "il napoletano è una lingua perché ha una grammatica propria", non ci si rende conto che in questo modo si nobilitano anche sottodialetti che altrettanto hanno una grammatica propria. Al tempo stesso, specularmente, anche sostenere, come fanno i teorici del napoletano come mero dialetto, che il napoletano non sia una lingua perché vive di prestiti, di fatto, rende anche l'italiano un dialetto, visto che anch'esso vive di prestiti e volgarizzazioni. L'italiano di oggi, del resto, non è che l'evoluzione del dialetto toscano che infatti è l'unico dialetto che risulta facilmente comprensibile anche a chi con la Toscana non ha mai avuto niente a che fare, a differenza del veneto o del sardo che per me sono lingue straniere e del napoletano che, quando lo parlo, i non napoletani mi chiedono la traduzione. Anche perché se si desse la stura al purismo, di lingue al mondo ne rimarrebbero soltanto una decina, invece delle diecimila stimate dagli specialisti. Questo perché la lingua non si fa nelle accademie delle crusche, ma in mezzo alla strada, nei vari gruppi sociali che le vicende umane creano: quando il più forte di questi gruppi riesce a costituirsi come fazione militare dominante, ecco che la parlata del gruppo diventa ufficiale, indipendentemente dai punti in comune che abbia con le parlate di altri gruppi. Questo è tutto ciò che fa sì che si crei una lingua. Né tantomeno appellarsi all'Unesco che definisce il napoletano come "patrimonio dell'umanità", contribuisce a porre la parola "fine" alla questione.
Alla fine, non resta che giungere alla conclusione del linguista Max Weinreich che "una lingua non è che un dialetto con un esercito e una marina". L'italiano si è indebolito e involgarito, riempendosi di neologismi anglofoni, perché l'Italia è, di fatto, una colonia americana.
La vera lingua degli italiani non è certo il "doppiaggese" che si sente nei film ma si adatta al vastissimo patrimonio dialettale che le plurime origini del nostro paese hanno generato e che non ha eguali al mondo.
Né la ricerca di una definizione attraverso i dizionari aiuta. Le lingue non seguono percorsi dottrinali ma il comune sentire della gente che poi evolve a struttura di potere. E se persino da brillanti professionisti con tanto di laurea sento fare usi transitivi di verbi intransitivi, un professore potrà bocciarli a qualche esame ma non potrà certo impedire loro di salutare l'amico con cui sono al telefono perché "devono scendere il cane giù". Sottintendendo, ovviamente, che debbano "pisciarlo".
I criteri con cui si distingue una lingua dal dialetto sono contraddittori e, paradossalmente, rafforzano la tesi opposta a quella che si vorrebbe confermare. Quando si afferma, ad esempio, come sostengono i teorici del napoletano come lingua, che "il napoletano è una lingua perché ha una grammatica propria", non ci si rende conto che in questo modo si nobilitano anche sottodialetti che altrettanto hanno una grammatica propria. Al tempo stesso, specularmente, anche sostenere, come fanno i teorici del napoletano come mero dialetto, che il napoletano non sia una lingua perché vive di prestiti, di fatto, rende anche l'italiano un dialetto, visto che anch'esso vive di prestiti e volgarizzazioni. L'italiano di oggi, del resto, non è che l'evoluzione del dialetto toscano che infatti è l'unico dialetto che risulta facilmente comprensibile anche a chi con la Toscana non ha mai avuto niente a che fare, a differenza del veneto o del sardo che per me sono lingue straniere e del napoletano che, quando lo parlo, i non napoletani mi chiedono la traduzione. Anche perché se si desse la stura al purismo, di lingue al mondo ne rimarrebbero soltanto una decina, invece delle diecimila stimate dagli specialisti. Questo perché la lingua non si fa nelle accademie delle crusche, ma in mezzo alla strada, nei vari gruppi sociali che le vicende umane creano: quando il più forte di questi gruppi riesce a costituirsi come fazione militare dominante, ecco che la parlata del gruppo diventa ufficiale, indipendentemente dai punti in comune che abbia con le parlate di altri gruppi. Questo è tutto ciò che fa sì che si crei una lingua. Né tantomeno appellarsi all'Unesco che definisce il napoletano come "patrimonio dell'umanità", contribuisce a porre la parola "fine" alla questione.
Alla fine, non resta che giungere alla conclusione del linguista Max Weinreich che "una lingua non è che un dialetto con un esercito e una marina". L'italiano si è indebolito e involgarito, riempendosi di neologismi anglofoni, perché l'Italia è, di fatto, una colonia americana.
Del resto, persino il glorioso latino non viene parlato e, a momenti, neanche più studiato nelle scuole, per il motivo più semplice e banale del mondo: non c'è più l'Impero Romano.
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