In questi giorni, come è inevitabile che sia, assistiamo ad una valanga di post sul Festival. Questo perché, come mi capita spesso di dire, non siamo noi che guardiamo Sanremo, è Sanremo che guarda noi. Le newsfeed dei social ricreano una situazione molto nannimorettiana/eccebombiana: mi si nota molto di più se non guardo il Festival o se lo guardo e dico di non guardarlo?
Così vorrei parlare di questa rassegna dal punto di vista, se non inesplorato e originale quantomeno minoritario, di chi del Festival è stato un grandissimo fan, al punto tale da raggiungere un livello di saturazione che, per gli stessi motivi, oggi mi porta a non guardarlo quasi più. Cosa che si estende a tutto ciò che riguarda la mia vita. Da quattro anni, cioè da quando mi sono trasferito dove sto ora, non ho la televisione e già la guardavo poco prima. Stavo per scrivere che non ce l'ho "per scelta", salvo poi rendermi conto che se la definissi scelta, darei all'oggetto della mia rinuncia una volontarietà che non ha, perché la questione è molto più semplice: non ho proprio più la spinta verso un televisore.
La mia è una vita "on demand". Quando mi serve qualcosa, la vedo online e se è gratuita bene, se invece la devo comprare e mi interessa, la compro. Ormai vedo solo le partite del Napoli (e più per abitudine che per passione) e quelle di tennis, l'altra mia grande passione. Per le informazioni, nessun giornale. Solo fonti dirette come gli account social dei protagonisti del dibattito pubblico e alcuni blogger di cui mi fido. Il resto, o lo trovo in differita su Youtube o niente.
In un contesto come questo, si può facilmente capire come il Festival, da anni, passi quasi inosservato nel senso dello spettacolo inteso come struttura unitaria. Mi spiegherò meglio. Se devo ascoltare qualche canzone sanremese che mi interessa, me la cerco su Youtube appena è disponibile. Del Festival mi interessavano pochissimi artisti: Angelina Mango, i Negramaro, Loredana Bertè, Diodato, i The Kolors e il Volo. Il resto, tra tutta la paccottiglia politicamente corretta e le solite polemicucce strumentali, è andato nel mio cestino mentale della spazzatura.
Tutto questo è nato nel 2020.
Chi mi legge in questi spazi o su Facebook sa che dico spesso che quell'anno è stato uno spartiacque nella mia vita. Non che prima non fossi nauseato da certe schifezze. Semplicemente dal 2020 in avanti ho smesso di considerare gli avversari come tali, iniziando a considerarli come nemici. Ho adorato Fiorello come showman, le risate che mi facevo con lui sin dai tempi di Radio Deejay non le ho mai fatte né prima né dopo con nessun altro. Ma quelle gag sul vaccino non gliele perdonerò mai. Ho parteggiato per cantanti politicamente schierati in senso avverso rispetto a me, ma oggi tutta la loro arte mi appare per quel che è: mera propaganda.
Ed è esattamente questo che è il Festival: propaganda del regime. Che non è che, del resto, spenda 50 milioni di euro per organizzare una kermesse iridata per non avere un ritorno in cambio. Il ritorno ce l'ha eccome. Ed è la frittura e rifrittura di tutti i luoghi comuni del conformismo dominante del momento.
In questo senso, il Festival corre sempre in soccorso del vincitore. Quando dominava la DC, avevamo le cantanti castigate e illibate. Nel momento in cui vince il progressismo liberal, ecco la futura moglie che abbandona lo sposo sull'altare per scapparsene con un'altra donna, la Egonu accusare di razzismo gli italiani, la Ferragni presentarsi come icona femminile, salvo poi essere, va da sé, buttata nel gabinetto alla prima litigata.
Il Festival di Sanremo è questo: puro conformismo, regime, correttezza politica. Dal 2020 non riesco a sopportare nulla di tutto questo. Il covid ha travolto tutto. Ma non soltanto Sanremo. Ha travolto il mio interesse per la politica partitica (dal 2018 non voto più) ha ucciso ogni mio interesse per tutto ciò che abbia una struttura organizzata, mediata, "palinsestata".
Oggi vivo "on demand". Quello che mi interessa, compro. E lo uso quando voglio. Al diavolo le messe cantate laiche dei pollai televisivi e dei cinegiornali travestiti da telegiornali. Al diavolo la stampa cartacea. Al diavolo il concorso di "bellezza" della politica. Ed è grazie a questo approccio che, finalmente, mi sento libero. Vivessimo tutti "on demand", questo mondo sarebbe completamente diverso.
C'è Sanremo? Si ascoltano le canzoni che ci interessano di quegli artisti che potremmo ritenere interessanti e il resto si butta via.
La vera libertà nasce quando le nostre scelte non le appiattiamo su un carro nel quale salire, ma trattandole come quando si va in un negozio: si entra, si prende quel po' che ci piace, si paga, si ringrazia e arrivederci.
Così vorrei parlare di questa rassegna dal punto di vista, se non inesplorato e originale quantomeno minoritario, di chi del Festival è stato un grandissimo fan, al punto tale da raggiungere un livello di saturazione che, per gli stessi motivi, oggi mi porta a non guardarlo quasi più. Cosa che si estende a tutto ciò che riguarda la mia vita. Da quattro anni, cioè da quando mi sono trasferito dove sto ora, non ho la televisione e già la guardavo poco prima. Stavo per scrivere che non ce l'ho "per scelta", salvo poi rendermi conto che se la definissi scelta, darei all'oggetto della mia rinuncia una volontarietà che non ha, perché la questione è molto più semplice: non ho proprio più la spinta verso un televisore.
La mia è una vita "on demand". Quando mi serve qualcosa, la vedo online e se è gratuita bene, se invece la devo comprare e mi interessa, la compro. Ormai vedo solo le partite del Napoli (e più per abitudine che per passione) e quelle di tennis, l'altra mia grande passione. Per le informazioni, nessun giornale. Solo fonti dirette come gli account social dei protagonisti del dibattito pubblico e alcuni blogger di cui mi fido. Il resto, o lo trovo in differita su Youtube o niente.
In un contesto come questo, si può facilmente capire come il Festival, da anni, passi quasi inosservato nel senso dello spettacolo inteso come struttura unitaria. Mi spiegherò meglio. Se devo ascoltare qualche canzone sanremese che mi interessa, me la cerco su Youtube appena è disponibile. Del Festival mi interessavano pochissimi artisti: Angelina Mango, i Negramaro, Loredana Bertè, Diodato, i The Kolors e il Volo. Il resto, tra tutta la paccottiglia politicamente corretta e le solite polemicucce strumentali, è andato nel mio cestino mentale della spazzatura.
Tutto questo è nato nel 2020.
Chi mi legge in questi spazi o su Facebook sa che dico spesso che quell'anno è stato uno spartiacque nella mia vita. Non che prima non fossi nauseato da certe schifezze. Semplicemente dal 2020 in avanti ho smesso di considerare gli avversari come tali, iniziando a considerarli come nemici. Ho adorato Fiorello come showman, le risate che mi facevo con lui sin dai tempi di Radio Deejay non le ho mai fatte né prima né dopo con nessun altro. Ma quelle gag sul vaccino non gliele perdonerò mai. Ho parteggiato per cantanti politicamente schierati in senso avverso rispetto a me, ma oggi tutta la loro arte mi appare per quel che è: mera propaganda.
Ed è esattamente questo che è il Festival: propaganda del regime. Che non è che, del resto, spenda 50 milioni di euro per organizzare una kermesse iridata per non avere un ritorno in cambio. Il ritorno ce l'ha eccome. Ed è la frittura e rifrittura di tutti i luoghi comuni del conformismo dominante del momento.
In questo senso, il Festival corre sempre in soccorso del vincitore. Quando dominava la DC, avevamo le cantanti castigate e illibate. Nel momento in cui vince il progressismo liberal, ecco la futura moglie che abbandona lo sposo sull'altare per scapparsene con un'altra donna, la Egonu accusare di razzismo gli italiani, la Ferragni presentarsi come icona femminile, salvo poi essere, va da sé, buttata nel gabinetto alla prima litigata.
Il Festival di Sanremo è questo: puro conformismo, regime, correttezza politica. Dal 2020 non riesco a sopportare nulla di tutto questo. Il covid ha travolto tutto. Ma non soltanto Sanremo. Ha travolto il mio interesse per la politica partitica (dal 2018 non voto più) ha ucciso ogni mio interesse per tutto ciò che abbia una struttura organizzata, mediata, "palinsestata".
Oggi vivo "on demand". Quello che mi interessa, compro. E lo uso quando voglio. Al diavolo le messe cantate laiche dei pollai televisivi e dei cinegiornali travestiti da telegiornali. Al diavolo la stampa cartacea. Al diavolo il concorso di "bellezza" della politica. Ed è grazie a questo approccio che, finalmente, mi sento libero. Vivessimo tutti "on demand", questo mondo sarebbe completamente diverso.
C'è Sanremo? Si ascoltano le canzoni che ci interessano di quegli artisti che potremmo ritenere interessanti e il resto si butta via.
La vera libertà nasce quando le nostre scelte non le appiattiamo su un carro nel quale salire, ma trattandole come quando si va in un negozio: si entra, si prende quel po' che ci piace, si paga, si ringrazia e arrivederci.
La tirannia di oggi non potrebbe mai esistere senza il consenso anche inconscio di gente che, pure rinnegando a parole il sistema, nei fatti lo alimenta facendosi trascinare dalla sua struttura palinsestale, ideale per alimentare i clan che oggi, dicendoci cosa mangiare, come curarci, che musica ascoltare, detengono il potere.
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