Molti avranno notato che ho parlato a più riprese del caso Sgarbi, volutamente ignorando la vicenda processuale che lo riguarda e della quale ovviamente, non avendo letto le carte processuali, so relativamente poco. Tutto questo per dire che chi si aspetta chiarezza sull'aspetto giudiziario della cosa, rimarrà deluso.
Ma c'è una ragione ben chiara dietro questa mia impostazione di pensiero: trovo molto pericoloso quello che gli è successo - indipendentemente dalle sue responsabilità che non escludo a priori - e soprattutto sono profondamente preoccupato per la deriva che stanno, da un po' di tempo, percorrendo i media cosiddetti mainstream.
Quando sollevo questo problema, molti mi accusano di voler tappare la bocca al giornalismo di inchiesta. In realtà la questione è che, in un paese civile, non esiste solo il diritto della gente di sapere ma anche quello di una persona accusata di non vedersi riempita di insulti e di fango, che è esattamente ciò che sta accadendo a Sgarbi.

Naturalmente, le stranezze sulla vicenda ci sono, da tutti e due i lati. Difficile credere che Sgarbi possa aver comprato un rudere dove, guarda caso, c'era proprio una tela, copia del dipinto rubato, oggetto dello scandalo. Per giunta, è noto che il buon Vittorio sia inchiavicato di debiti col Fisco, e quindi, volendo, il movente ci sarebbe. Il punto è che le stranezze ci sono anche dalla parte di chi lo accusa. Non c'è bisogno di essere l'esperto della materia che non sono per sapere che se qualcuno ti propone - come è stato proposto al restauratore accusatore di Sgarbi da parte di quest'ultimo - una tela tagliata e arrotolata, la prima cosa da fare è avvisare le forze dell'ordine, perché probabilmente proviene da un furto. Notoriamente i ladri, quando devono rubare un quadro - parlo per esperienza personale (non di ladro, ma di vittima di furto in casa) - lo ritagliano dalla cornice, lo arrotolano e se lo portano, perché giustamente la cornice pesa. Non so se tra voi ci sia qualche antiquario o esperto d'arte che possa smentirmi, ma, fino a quel momento, la ricostruzione del restauratore accusatore di Sgarbi mi apparirà, sempre, fortemente dubbia. Ma è anche strano anche che lo stesso Sgarbi, una volta trovato il dipinto nella casa acquistata dalla madre, non abbia avvertito la sovrintendenza, facendo una foto del dipinto per mandarlo alle forze dell'ordine, come è da prassi tutte le volte che si rinviene un'opera d'arte di cui non si è a conoscenza. Perché non lo ha fatto? Un'omissione quantomeno sospetta - specialmente se consideriamo che Sgarbi è riconosciuto come il massimo esperto di arte in Italia e che quindi queste cose dovrebbe saperle - e che lo ha inevitabilmente messo nei guai. Tutto questo, tuttavia, premettendo che la tesi di Sgarbi che fa rubare un dipinto per poi taroccarlo per poter dire che non è il vero quadro ma una copia - ben sapendo che poi una qualsiasi perizia sarebbe perfettamente in grado di individuare la falsificazione - appare quantomeno bizzarra, soprattutto se consideriamo che non stiamo parlando di un profano come me ma appunto di Sgarbi.
Tutto questo, al netto di eventuali obiezioni e ribadendo che la mia è una visione sommaria della cosa.

La mia preoccupazione è un'altra: ormai il giornalismo di inchiesta è diventato una clava per colpire le persone.
Se una ristoratrice, per una leggerezza, per giunta non provata, dopo essersi ritrovata scatenata contro i cani arrabbiati dell'indignazionismo social, arriva a suicidarsi, è chiaro che siamo di fronte ad un grosso problema. Che naturalmente non riguarda Sgarbi nello specifico, che ha ben altra stazza. Ma ormai è considerata prassi consolidata che i processi si debbano fare sui social e in televisione, e non nelle aule dei tribunali. Come pure sta, legittimamente - e ci mancherebbe - già avvenendo. E riguardo a Sgarbi, non so se sia innocente, sospendo il giudizio. Quel che so è che voglio che in questo paese i processi si facciano in tribunale e basta.
Da giorni invece il popolare critico d'arte e sottosegretario è sottoposto non ad una legittima indagine della magistratura su eventuali stranezze bensì ad un autentico linciaggio nel quale non si cerca, con serenità, di far luce su una vicenda oggettivamente grave, ma di assassinare non soltanto l'operato di Sgarbi come sottosegretario, ma anche la vita privata e la sua storia professionale, inondandolo di bile, fiele, insulti sull'aspetto fisico dell'indagato, degni più di bulletti di mezzo alla strada che di giornalisti seri e coscienziosi, sfruttando la notoria incapacità di autocontrollo del destinatario di queste contumelie, che certamente non si sta difendendo nella maniera più adeguata, dando altre armi ai bulli.

Sgarbi, dimettendosi, asseconda il ricatto di chi, da trent'anni, tiene sotto scacco la classe politica. Difenderlo non è una questione giudiziaria ma politica e soprattutto di civiltà. Se ha commesso un reato, che venga processato e, se trovato colpevole, condannato. Ma da tribunali istituzionali, non da macchine del fango. Che non agiscono mai in nome del popolo italiano ma in nome di porci pronti a grufolare sulle miserie umane di un uomo che, in uno stato di diritto, anche se colpevole, non perde i propri diritti e che se anche si rivelasse un delinquente, rimarrebbe comunque un grandissimo intellettuale e critico d'arte, mentre i porci rimangono porci.
Tutto questo fino a che si vuole vivere in uno stato di diritto.



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Franco Marino
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