La vicenda Cecchettin, come scritto in altre circostanze, non è niente di diverso da tanti altri casi del tutto analoghi passati in cavalleria. Ma se ne stanno parlando in maniera così incessante, al punto che ormai non c'è post sui social che non sia dedicato a questa vicenda, è perché la posta in palio è enormemente più alta e si ha, tutti, la sensazione che si voglia usare questa faccenda come volano per cose ben peggiori.
Partiamo dal primo punto: Gino Cecchettin che fa querele.
Fin quando si tratta di asserire che la sorella possa essere complice del delitto o che addirittura non ci sia stato alcun delitto, siamo nell'ambito di una palese diffamazione. La verisimiglianza di un'ipotesi non corrisponde alla verità. Se qualcuno trova verosimile che, dopo tutte le cose estremiste e radicali che ho scritto in vent'anni, io fondi un partito di matrice terroristica, questo non significa che io abbia effettivamente fondato un partito di questo tipo: chi, sulla base di una verisimiglianza, mi attribuisse una cosa di questo genere, o è in grado di provarlo oppure si beccherebbe una querela.
Il problema è che senza arrivare a questo estremo, all'opinione pubblica molte cose suonano legittimamente strane. Suona strana la compostezza della nonna che, a pochi giorni dalla morte di una nipote, va a presentare un libro che parla - guarda caso - di patriarcato. Suona strana la compostezza di un padre che, dopo aver perso una figlia - e nel modo in cui l'ha persa - va in TV a fare comizi di natura politica. Suonano strani certi post e tweet di Gino Cecchettin che certamente non sono niente di così eclatante - sono piscionerie appunto, che ci dicono soltanto che al buon Gino piaccia la fessa, circostanza e contingenza che, fino a qualche lustro fa, non avrebbe scandalizzato nessuno - ma che certo cozzano un bel po' con l'immagine ripulita da difensore della sacralità della pucchiacca.
Suonano strane tantissime cose a tanta gente e non è minacciando querele che si risolve la cosa.
La questione che nessuno vuole capire è che ad essere nel mirino non è la famiglia Cecchettin ma l'uso che i media stanno facendo di questa vicenda, per perorare disegni e fini che col dolore di una ragazza morta ammazzata non hanno assolutamente nulla a che fare.
Perché il buon Gino Cecchettin e chiunque lo strumentalizzi, una volta o l'altra dovranno pure capire che se pretendono che l'intera popolazione maschile si debba scusare per un delitto - compreso chi dalle donne non è che sia stato trattato benissimo - è ridicolo che si stupiscano che la gente li mandi a quel paese, anche perché la "responsabilità collettiva" è incostituzionale, dato che la responsabilità penale è personale. Ergo, io non devo chiedere scusa manco per il cazzo.
Il secondo punto è ispirato ad una proposta che vedo fare a molti in tutte le circostanze dove qualcuno si lamenta degli hater e cioè la pretesa che i social chiedano la carta d'identità agli iscritti.
Ebbene, questa proposta può provenire soltanto da gente che non capisce niente di Internet e di come funzioni.
Facebook, già oggi, se vuole, può sapere tutto di voi, anche se dite di chiamarvi Pippo De Pippis e mettete un avatar. Io, in quanto utente storicamente sempre appeso ad uno pseudonimo, non mi sono mai illuso di essere anonimo a tutti. Certamente mi sono reso anonimo - anche violando le regole di Facebook, lo so benissimo - allo psicopatico che mi conosce nella vita reale e che, sulla base delle mie opinioni, magari potrebbe farmi qualche ritorsione. Ma sono, nel contempo, convintissimo che sul nome reale della mia peraltro insignificante persona, presso gli uffici della DIGOS, esistano dossier alti tre metri, il tutto senza aver mai postato niente col mio nome e cognome. Il provider a cui mi connetto per entrare su Internet sa benissimo il mio indirizzo IP e a che ora, ed è obbligato a tenere, per almeno tre anni, traccia della mia connessione. Dunque non siamo anonimi in rete. MAI.
Inoltre, supponiamo che, invece, si debba costringere la gente ad iscrivere solo previa carta d'identità. Intanto, moltissime azioni del tutto lecite sono socialmente deprecate. Significa che se si obbliga una persona a certificare la propria identità per scrivere cose che, anche se lecite, verrebbero sottoposte a riprovazione morale, di fatto si condiziona la sincerità della propria libertà di espressione alla paura del giudizio della gente. Io, sul mio profilo con i miei dati reali (e che ho disattivato) per aver scritto un ottavo delle cose che scrivo abitualmente sul mio profilo di Franco Marino, sono stato bannato da moltissime persone del mio gruppo di amici e persino della mia famiglia. Inoltre, anche schedando una persona, questo non garantirebbe la possibilità di querelare il diffamatore. Se soltanto mettessi i miei dati reali - e il mio nominativo reale non è particolarmente diffuso - scoprirei almeno una ventina di omonimi tra un avvocato, un ricercatore, un calciatore, un pallavolista, c'è persino un latitante della Sacra Corona Unita (deve essere per questo che mi fermano sempre ai posti di blocco) cosa che di fatto renderebbe difficilissimo querelarmi. Solo a Napoli, pur non essendo il mio cognome napoletano ma dell'hinterland barese, ci sono, o meglio c'erano, due miei omonimi: uno è mio cugino, un rispettato medico della mia città, e l'altro è un mio coetaneo che morì alcuni anni fa in un incidente, col risultato che, quando apparve la notizia sui necrologi del Mattino, fui inondato di telefonate da parte di gente che giustappunto, sapendo che il mio nome e cognome non è particolarmente comune a Napoli e che anche l'età coincideva, dava per scontato che la persona in questione fossi io. E se già con un nominativo non comune, è difficile risalire alla reale identità di una persona, non oso immaginare cosa accadrebbe se mi chiamassi Gennaro Esposito e vivessi, assieme a circa diecimila miei omonimi, a Napoli. Vogliamo obbligare la gente a mostrare i propri dati anche quelli di nascita? Correndo il rischio di vedersi attribuire matrimoni con persone di ogni parte del mondo? Vogliamo svendere i nostri dati ad un'azienda come Facebook sotto inchiesta in quasi tutto il mondo per l'uso eufemisticamente disinvolto che fa dei nostri dati?
Last but not least, c'è il problema che la decisione sul fatto di consegnare i dati alle autorità, spetta esclusivamente a Facebook che, caso per caso, valuta se la richiesta è compatibile con le leggi del proprio paese, che non è ovviamente - purtroppo - l'Italia. Cosa accadrebbe se la Federazione Russa, dove la propaganda gay è reato, chiedesse i dati personali di qualche iscritto russo che fa propaganda gay su un social americano? Che Zuckerberg risponderebbe picche, perché in America fare propaganda gay non è reato.
Abbiamo dunque chiaro il punto: schedare una persona non serve assolutamente a nulla ma soprattutto non ce n'è bisogno. Tutto ciò che bisogna fare è obbligare Facebook a fornire i log degli accessi con un determinato account.
Partiamo dal primo punto: Gino Cecchettin che fa querele.
Fin quando si tratta di asserire che la sorella possa essere complice del delitto o che addirittura non ci sia stato alcun delitto, siamo nell'ambito di una palese diffamazione. La verisimiglianza di un'ipotesi non corrisponde alla verità. Se qualcuno trova verosimile che, dopo tutte le cose estremiste e radicali che ho scritto in vent'anni, io fondi un partito di matrice terroristica, questo non significa che io abbia effettivamente fondato un partito di questo tipo: chi, sulla base di una verisimiglianza, mi attribuisse una cosa di questo genere, o è in grado di provarlo oppure si beccherebbe una querela.
Il problema è che senza arrivare a questo estremo, all'opinione pubblica molte cose suonano legittimamente strane. Suona strana la compostezza della nonna che, a pochi giorni dalla morte di una nipote, va a presentare un libro che parla - guarda caso - di patriarcato. Suona strana la compostezza di un padre che, dopo aver perso una figlia - e nel modo in cui l'ha persa - va in TV a fare comizi di natura politica. Suonano strani certi post e tweet di Gino Cecchettin che certamente non sono niente di così eclatante - sono piscionerie appunto, che ci dicono soltanto che al buon Gino piaccia la fessa, circostanza e contingenza che, fino a qualche lustro fa, non avrebbe scandalizzato nessuno - ma che certo cozzano un bel po' con l'immagine ripulita da difensore della sacralità della pucchiacca.
Suonano strane tantissime cose a tanta gente e non è minacciando querele che si risolve la cosa.
La questione che nessuno vuole capire è che ad essere nel mirino non è la famiglia Cecchettin ma l'uso che i media stanno facendo di questa vicenda, per perorare disegni e fini che col dolore di una ragazza morta ammazzata non hanno assolutamente nulla a che fare.
Perché il buon Gino Cecchettin e chiunque lo strumentalizzi, una volta o l'altra dovranno pure capire che se pretendono che l'intera popolazione maschile si debba scusare per un delitto - compreso chi dalle donne non è che sia stato trattato benissimo - è ridicolo che si stupiscano che la gente li mandi a quel paese, anche perché la "responsabilità collettiva" è incostituzionale, dato che la responsabilità penale è personale. Ergo, io non devo chiedere scusa manco per il cazzo.
Il secondo punto è ispirato ad una proposta che vedo fare a molti in tutte le circostanze dove qualcuno si lamenta degli hater e cioè la pretesa che i social chiedano la carta d'identità agli iscritti.
Ebbene, questa proposta può provenire soltanto da gente che non capisce niente di Internet e di come funzioni.
Facebook, già oggi, se vuole, può sapere tutto di voi, anche se dite di chiamarvi Pippo De Pippis e mettete un avatar. Io, in quanto utente storicamente sempre appeso ad uno pseudonimo, non mi sono mai illuso di essere anonimo a tutti. Certamente mi sono reso anonimo - anche violando le regole di Facebook, lo so benissimo - allo psicopatico che mi conosce nella vita reale e che, sulla base delle mie opinioni, magari potrebbe farmi qualche ritorsione. Ma sono, nel contempo, convintissimo che sul nome reale della mia peraltro insignificante persona, presso gli uffici della DIGOS, esistano dossier alti tre metri, il tutto senza aver mai postato niente col mio nome e cognome. Il provider a cui mi connetto per entrare su Internet sa benissimo il mio indirizzo IP e a che ora, ed è obbligato a tenere, per almeno tre anni, traccia della mia connessione. Dunque non siamo anonimi in rete. MAI.
Inoltre, supponiamo che, invece, si debba costringere la gente ad iscrivere solo previa carta d'identità. Intanto, moltissime azioni del tutto lecite sono socialmente deprecate. Significa che se si obbliga una persona a certificare la propria identità per scrivere cose che, anche se lecite, verrebbero sottoposte a riprovazione morale, di fatto si condiziona la sincerità della propria libertà di espressione alla paura del giudizio della gente. Io, sul mio profilo con i miei dati reali (e che ho disattivato) per aver scritto un ottavo delle cose che scrivo abitualmente sul mio profilo di Franco Marino, sono stato bannato da moltissime persone del mio gruppo di amici e persino della mia famiglia. Inoltre, anche schedando una persona, questo non garantirebbe la possibilità di querelare il diffamatore. Se soltanto mettessi i miei dati reali - e il mio nominativo reale non è particolarmente diffuso - scoprirei almeno una ventina di omonimi tra un avvocato, un ricercatore, un calciatore, un pallavolista, c'è persino un latitante della Sacra Corona Unita (deve essere per questo che mi fermano sempre ai posti di blocco) cosa che di fatto renderebbe difficilissimo querelarmi. Solo a Napoli, pur non essendo il mio cognome napoletano ma dell'hinterland barese, ci sono, o meglio c'erano, due miei omonimi: uno è mio cugino, un rispettato medico della mia città, e l'altro è un mio coetaneo che morì alcuni anni fa in un incidente, col risultato che, quando apparve la notizia sui necrologi del Mattino, fui inondato di telefonate da parte di gente che giustappunto, sapendo che il mio nome e cognome non è particolarmente comune a Napoli e che anche l'età coincideva, dava per scontato che la persona in questione fossi io. E se già con un nominativo non comune, è difficile risalire alla reale identità di una persona, non oso immaginare cosa accadrebbe se mi chiamassi Gennaro Esposito e vivessi, assieme a circa diecimila miei omonimi, a Napoli. Vogliamo obbligare la gente a mostrare i propri dati anche quelli di nascita? Correndo il rischio di vedersi attribuire matrimoni con persone di ogni parte del mondo? Vogliamo svendere i nostri dati ad un'azienda come Facebook sotto inchiesta in quasi tutto il mondo per l'uso eufemisticamente disinvolto che fa dei nostri dati?
Last but not least, c'è il problema che la decisione sul fatto di consegnare i dati alle autorità, spetta esclusivamente a Facebook che, caso per caso, valuta se la richiesta è compatibile con le leggi del proprio paese, che non è ovviamente - purtroppo - l'Italia. Cosa accadrebbe se la Federazione Russa, dove la propaganda gay è reato, chiedesse i dati personali di qualche iscritto russo che fa propaganda gay su un social americano? Che Zuckerberg risponderebbe picche, perché in America fare propaganda gay non è reato.
Abbiamo dunque chiaro il punto: schedare una persona non serve assolutamente a nulla ma soprattutto non ce n'è bisogno. Tutto ciò che bisogna fare è obbligare Facebook a fornire i log degli accessi con un determinato account.
Ma la proposta di obbligare la gente a mostrare la propria carta d'identità è tipica di chi non sa nulla di informatica. Quando poi chi la propone si spaccia per liberale - palesando tantissimi riflessi condizionati tipici dello statalista - allora alla triste consapevolezza che la gente spesso parla senza sapere le cose si può aggiungere una grassa ancorché amara risata.