Da quando ho lasciato il precedente giornale per il quale scrivevo, il mio ex-direttore - che non l'ha mai digerita (anche se non lo ammetterà neanche sotto tortura) - non fa altro che contattarmi in privato ogni volta per spiegarmi per filo e per segno perché a lui i lettori fanno schifo. La sua tesi, sostanzialmente, è che il lettore medio sia cretino mentre io sostengo che in realtà il lettore vada guidato, senza essere insolentito. Sono punti di vista diversi. Ma la pensiamo così perché ci crediamo o perché ci conviene difenderli? A lui conviene difendere la sua tesi perché, con le mie dimissioni, il suo giornale ha perso un botto di visite, a me conviene difendere la mia perché viceversa dovrei riconoscere che il mio seguito, nettamente maggiore al suo, in realtà non sia qualitativo. Chissà. Certo, devo confessare che, quando leggo le polemiche su Facebook a pagamento, per giunta portate avanti da catene di Sant'Antonio, la tentazione di dare ragione al mio amico/rivale è forte.
La questione è molto semplice. Facebook ha inserito, per l'utente, un'opzione che gli consente di poter rinunciare a vedere la pubblicità, in cambio di una modestissima cifra mensile. E la cosa ha suscitato scandalo, manco avessero rubato grana dalle carte di credito degli utenti. Questa opzione c'è su Youtube da molti anni e francamente si rimane sbigottiti nel vedere la gente non solo fare casino manco Facebook fosse il primo spazio dove entra in vigore questa cosa - il che già sarebbe grave - ma soprattutto, non capire che i social network non sono istituti di beneficenza ma aziende che sostengono spese allucinanti di decine se non centinaia di milioni di euro e che, dunque, campano solo se riescono a sostenersi economicamente. Un qualsiasi progetto ha due fonti di finanziamento: o la pubblicità o i servizi a pagamento. Ed è normale che, nel momento in cui si fa di tutto per rendere difficile la raccolta dei dati al fine di inserire pubblicità contestuale, Facebook chieda un obolo per pagare il proprio diritto di tribuna da esprimere con post riflessivi o con la foto dell'estate a torso nudo, con tanto di aragosta spiaccicata in prima fila. La semplice convinzione che, dopo aver consacrato i propri diari allo spiattellamento dei segreti più profondi, all'improvviso ci si riscopra fanatici della privacy è semplicemente ridicola.
Chi poi non vuole che si sappia niente sul proprio conto, non deve far altro che fare le seguenti cose: a) Iscriversi (violando il regolamento che vieta espressamente ciò) con pseudonimo e senza foto come ha fatto il sottoscritto nel lontano 2010 b) Cancellarsi direttamente da Facebook.
In ambedue i casi, fine dei pericoli per la privacy. Perché, anche se molti non lo sanno, l'iscrizione ad un social non è obbligatoria. Non è obbligatorio iscriversi ad uno spazio di qualsiasi tipo e fare la cronaca "tutta la propria vita minuto per minuto". Ma nel momento che ci si registra, si accetta la banale regola che se vuoi ballare devi pagare l'orchestra e che, dunque, se vuoi questo servizio, o spendi i tuoi soldi oppure i tuoi dati, parabola significa che quando un prodotto ci viene dato gratis, vuol dire che noi siamo il prodotto.
Se non si capiscono queste elementari regolette, francamente si rischia di dare ragione a chi ritiene il lettore scemo.
E, a prescindere da tutto, i social non esistono perché vogliono spiarci ma perché l'uomo medio - compreso il sottoscritto, sia chiaro, anzi "compresi tutti" - è una persona bisognosa di attenzioni e di sentirsi stimato per ciò che fa, mettendo in mostra le proprie qualità, illudendosi che se si impegna un po' di più, potrà diventare Presidente del Consiglio oppure coniglietta di Playboy. I social nascono per questo e per nient'altro che questo: narcisismo, vanità, esibizione. Se non si vuole che i social brutti e cattivi sfruttino i nostri dati, non dobbiamo far altro che smettere di trovare interessante l'idea di regalarglieli, per giunta con la pretesa che siano gratis.
La questione è molto semplice. Facebook ha inserito, per l'utente, un'opzione che gli consente di poter rinunciare a vedere la pubblicità, in cambio di una modestissima cifra mensile. E la cosa ha suscitato scandalo, manco avessero rubato grana dalle carte di credito degli utenti. Questa opzione c'è su Youtube da molti anni e francamente si rimane sbigottiti nel vedere la gente non solo fare casino manco Facebook fosse il primo spazio dove entra in vigore questa cosa - il che già sarebbe grave - ma soprattutto, non capire che i social network non sono istituti di beneficenza ma aziende che sostengono spese allucinanti di decine se non centinaia di milioni di euro e che, dunque, campano solo se riescono a sostenersi economicamente. Un qualsiasi progetto ha due fonti di finanziamento: o la pubblicità o i servizi a pagamento. Ed è normale che, nel momento in cui si fa di tutto per rendere difficile la raccolta dei dati al fine di inserire pubblicità contestuale, Facebook chieda un obolo per pagare il proprio diritto di tribuna da esprimere con post riflessivi o con la foto dell'estate a torso nudo, con tanto di aragosta spiaccicata in prima fila. La semplice convinzione che, dopo aver consacrato i propri diari allo spiattellamento dei segreti più profondi, all'improvviso ci si riscopra fanatici della privacy è semplicemente ridicola.
Chi poi non vuole che si sappia niente sul proprio conto, non deve far altro che fare le seguenti cose: a) Iscriversi (violando il regolamento che vieta espressamente ciò) con pseudonimo e senza foto come ha fatto il sottoscritto nel lontano 2010 b) Cancellarsi direttamente da Facebook.
In ambedue i casi, fine dei pericoli per la privacy. Perché, anche se molti non lo sanno, l'iscrizione ad un social non è obbligatoria. Non è obbligatorio iscriversi ad uno spazio di qualsiasi tipo e fare la cronaca "tutta la propria vita minuto per minuto". Ma nel momento che ci si registra, si accetta la banale regola che se vuoi ballare devi pagare l'orchestra e che, dunque, se vuoi questo servizio, o spendi i tuoi soldi oppure i tuoi dati, parabola significa che quando un prodotto ci viene dato gratis, vuol dire che noi siamo il prodotto.
Se non si capiscono queste elementari regolette, francamente si rischia di dare ragione a chi ritiene il lettore scemo.
E, a prescindere da tutto, i social non esistono perché vogliono spiarci ma perché l'uomo medio - compreso il sottoscritto, sia chiaro, anzi "compresi tutti" - è una persona bisognosa di attenzioni e di sentirsi stimato per ciò che fa, mettendo in mostra le proprie qualità, illudendosi che se si impegna un po' di più, potrà diventare Presidente del Consiglio oppure coniglietta di Playboy. I social nascono per questo e per nient'altro che questo: narcisismo, vanità, esibizione. Se non si vuole che i social brutti e cattivi sfruttino i nostri dati, non dobbiamo far altro che smettere di trovare interessante l'idea di regalarglieli, per giunta con la pretesa che siano gratis.
Un social costa l'iradiddio, tra server, pubblicità, grane legali e chissà quant'altra roba che non sappiamo. Con quale spregio del ridicolo si può pensare che tutto questo possa essere gratis?