Quando ho definito aberrante ciò che sta accadendo alla piccola Indi Gregory, molti mi hanno dato del bigotto. C'è solo un piccolo particolare: io non sono credente. A questa premessa, si può rispondere con un gigantesco "chissenefrega", giacché il lettore non si collega certo a questo blog per leggere l'identità spirituale di un signor nessuno, ma per ragionare su qualcosa. E tuttavia, questa premessa è essenziale, per rassicurare chi crede di essere nella casa di un cattolico integralista, che non sono né credente né integralista. Non è che se ci si batte per una battaglia condivisa anche dalla Chiesa, questo significhi essere prossimi a farsi prete. Semplicemente, ho nei confronti di questa istituzione il rispetto che si deve ad una cultura e ad un'organizzazione che ha ispirato a tal punto la società in cui vivo che persino gli anticlericali e gli anticristiani, quando si lamentano della povertà nel mondo, non sanno minimamente che il primo a "porre il problema" è stato proprio Cristo. Tanto che Benedetto Croce affrescò mirabilmente questo paradosso col suo famoso "Non possiamo non dirci cristiani".
E non c'è nemmeno bisogno di essere cristiani per trovare aberrante quello che è accaduto a Indi Gregory. A tal riguardo, non bisogna farsi soverchie illusioni: per il tipo di patologia che ha, è spacciata. E non c'è dubbio che non tutti coloro che auspicano che le sofferenze di questa bambina abbiano definitivamente termine, siano in malafede. Peraltro, razionalmente parlando, il mio pensiero è che quando una vita è esposta al dramma della perdita di dignità, in qualche modo si debba consentire ai familiari, messi a dura prova dalla sofferenza dei loro congiunti, la facoltà di dire basta. E tuttavia, quando mi ci sono trovato io - che ho perduto entrambi i genitori dopo lunghissime e invalidanti malattie - proprio io che mi atteggio a persona cartesiana e razionale, non ne sono stato capace. Quando diciassette giorni prima di morire, dissero a me e a mio padre che il tumore che aveva colpito mamma aveva preso il cervello - e quindi ormai era razionalmente finita - noi due fino al giorno prima avevamo sperato in un miracolo. Così come, tre anni fa, quando mio padre entrò in agonia a fine agosto per poi morire i primi di Settembre, quando il medico mi chiese se fosse il caso di togliergli l'ossigeno, io dissi no, sebbene ormai malato terminale di Parkinson, ormai non ci fosse più nulla da fare. Ma niente, non volevo dire basta, volevo crederci fino all'ultimo, forse anche egoisticamente. E' sempre stato così. E se tutto è vero quando si perdono i genitori, figurarsi per un povero padre che sta per perdere la propria figlia, che se anche razionalmente non ci fosse nulla da fare, si appiglierebbe a qualsiasi follia, pur di salvarla. Se mia figlia fosse gravemente malata - e mi viene il terrore solo a pensarci - io come padre, anche di fronte ad una sentenza di incurabilità, devo avere non solo il diritto ma finanche il dovere, irrazionale quanto si vuole, di tentare l'impossibile pur di salvarla, e mai deve essere la greve, inumana e pitagorica autorità di uno Stato a spegnere quella fiammella di speranza, che per un congiunto è, spesso, il fuoco vivo che lo tiene in vita.
Questo non si capisce della vicenda di Indi Gregory, che uno stato può dire ad un padre "dobbiamo dare la precedenza a chi ha prospettive migliori", ma non deve mai togliere ad un congiunto il diritto/dovere di credere all'impossibile, al miracolo e dunque consentirgli di portare la persona cara in posti dove non si fa il conto della serva sulla pelle dei bambini.
Se l'Italia si offre di fare qualcosa, accogliendo una bambina, un tribunale che si metta di traverso è quanto di più inumano si possa concepire. Non esiste valutazione di tipo economico che debba permettere ad uno Stato di impedire ad un padre di portare i propri figli a curarsi altrove. Perché l'incurabilità di un malato potrebbe fare da apripista, un giorno, alla soppressione sistematizzata tipica di quando si azzoppa un cavallo o un cane. Dall'eutanasia all'eugenetica il passo è brevissimo, è un piano inclinato che finisce con l'essere umano ridotto a strumento.
E' la negazione stessa della cultura dell'Occidente, dove l'individuo dovrebbe valere, almeno programmaticamente, più di qualsiasi calcolo matematico.
C'è ben oltre, in sintesi, della questione morale o religiosa. C'è il diritto di decidere, di fronte ad una situazione FORSE ormai irreversibile, se dire "basta è finita" oppure credere a quel miracolo, più improbabile di una vincita al Super Enalotto, ma che spesso è l'unica cosa che rimane ad un povero padre disperato. Perché quando il cuore della propria carne cessa per sempre di battere, un genitore si ritrova sprofondato nell'inutilità del proprio essere, in anni di vita vissuti invano, in un futuro irrimediabilmente spezzato, in un dolore sordo che porta all'impazzimento o alla morte per crepacuore. Perché un uomo può resistere a tutto, ma proprio a tutto. Ma non alla morte del proprio figlio.
E non c'è nemmeno bisogno di essere cristiani per trovare aberrante quello che è accaduto a Indi Gregory. A tal riguardo, non bisogna farsi soverchie illusioni: per il tipo di patologia che ha, è spacciata. E non c'è dubbio che non tutti coloro che auspicano che le sofferenze di questa bambina abbiano definitivamente termine, siano in malafede. Peraltro, razionalmente parlando, il mio pensiero è che quando una vita è esposta al dramma della perdita di dignità, in qualche modo si debba consentire ai familiari, messi a dura prova dalla sofferenza dei loro congiunti, la facoltà di dire basta. E tuttavia, quando mi ci sono trovato io - che ho perduto entrambi i genitori dopo lunghissime e invalidanti malattie - proprio io che mi atteggio a persona cartesiana e razionale, non ne sono stato capace. Quando diciassette giorni prima di morire, dissero a me e a mio padre che il tumore che aveva colpito mamma aveva preso il cervello - e quindi ormai era razionalmente finita - noi due fino al giorno prima avevamo sperato in un miracolo. Così come, tre anni fa, quando mio padre entrò in agonia a fine agosto per poi morire i primi di Settembre, quando il medico mi chiese se fosse il caso di togliergli l'ossigeno, io dissi no, sebbene ormai malato terminale di Parkinson, ormai non ci fosse più nulla da fare. Ma niente, non volevo dire basta, volevo crederci fino all'ultimo, forse anche egoisticamente. E' sempre stato così. E se tutto è vero quando si perdono i genitori, figurarsi per un povero padre che sta per perdere la propria figlia, che se anche razionalmente non ci fosse nulla da fare, si appiglierebbe a qualsiasi follia, pur di salvarla. Se mia figlia fosse gravemente malata - e mi viene il terrore solo a pensarci - io come padre, anche di fronte ad una sentenza di incurabilità, devo avere non solo il diritto ma finanche il dovere, irrazionale quanto si vuole, di tentare l'impossibile pur di salvarla, e mai deve essere la greve, inumana e pitagorica autorità di uno Stato a spegnere quella fiammella di speranza, che per un congiunto è, spesso, il fuoco vivo che lo tiene in vita.
Questo non si capisce della vicenda di Indi Gregory, che uno stato può dire ad un padre "dobbiamo dare la precedenza a chi ha prospettive migliori", ma non deve mai togliere ad un congiunto il diritto/dovere di credere all'impossibile, al miracolo e dunque consentirgli di portare la persona cara in posti dove non si fa il conto della serva sulla pelle dei bambini.
Se l'Italia si offre di fare qualcosa, accogliendo una bambina, un tribunale che si metta di traverso è quanto di più inumano si possa concepire. Non esiste valutazione di tipo economico che debba permettere ad uno Stato di impedire ad un padre di portare i propri figli a curarsi altrove. Perché l'incurabilità di un malato potrebbe fare da apripista, un giorno, alla soppressione sistematizzata tipica di quando si azzoppa un cavallo o un cane. Dall'eutanasia all'eugenetica il passo è brevissimo, è un piano inclinato che finisce con l'essere umano ridotto a strumento.
E' la negazione stessa della cultura dell'Occidente, dove l'individuo dovrebbe valere, almeno programmaticamente, più di qualsiasi calcolo matematico.
C'è ben oltre, in sintesi, della questione morale o religiosa. C'è il diritto di decidere, di fronte ad una situazione FORSE ormai irreversibile, se dire "basta è finita" oppure credere a quel miracolo, più improbabile di una vincita al Super Enalotto, ma che spesso è l'unica cosa che rimane ad un povero padre disperato. Perché quando il cuore della propria carne cessa per sempre di battere, un genitore si ritrova sprofondato nell'inutilità del proprio essere, in anni di vita vissuti invano, in un futuro irrimediabilmente spezzato, in un dolore sordo che porta all'impazzimento o alla morte per crepacuore. Perché un uomo può resistere a tutto, ma proprio a tutto. Ma non alla morte del proprio figlio.
A consolarmi, molto magramente, del triste epilogo di questa vicenda, c'è il fatto che abbiamo mostrato al mondo intero che, almeno su queste cose, sia molto meglio essere italiani che inglesi. E' quando accadono cose di questo tipo che mi sento fiero di aver fondato questo progetto e di averlo intitolato, pur a fronte di mille dubbi su questo nome, "La Grande Italia".