Come tutti, ho i miei pregiudizi. Tra questi vi rientra che quando il potere inizia a tuonare contro un determinato fenomeno, sventolando cause in teoria nobili, controluce vi sia un interesse più profondo. Non ho simpatia per Chiara Ferragni come in generale non ne ho per molti youtuber diventati famosi, semplicemente sono solo argomenti fantoccio di un tema molto più profondo, non etichettabile in maniera precisa. Più o meno la stessa cosa di quando tutti quanti parlavano di Grillo come blogger emergente e di democrazia, mentre in realtà, lui era già famosissimo di suo (e i media mainstream pompavano ogni sua uscita, fingendo di censurarlo) e usava il suo blog come canale televisivo, attraverso il quale faceva broadcast puro e semplice, senza mai interagire con nessuno. Per tutti, era il blogger per eccellenza. Ma andiamo con ordine.
L'influencer altro non è che l'evoluzione di quel che un tempo erano (e per la verità, sarebbero ancora) i blogger, a loro volta estrinsecazione digitale di un tizio qualsiasi che dà sfogo all'istinto, alla spinta di esprimere un'opinione, senza impegno, senza pretese e senza una formazione professionale, in un contesto del tutto analogo, se gratis, alla discussione da bar, oppure - se retribuito - alla rappresentanza per qualche ditta o alle pubbliche relazioni. L'unica differenza tra i due ambiti è che l'influencer, che si faccia pagare o meno, esprime la sua attività in spazi teoricamente aperti all'intero globo terracqueo e raggiungibili in pochi secondi.
Le motivazioni che animano questa spinta, che si esprima su Facebook o su un blog privato, possono essere numerose: guadagnare soldi (attraverso pubblicità o pubbliche relazioni per qualche azienda), e/o costruirsi una notorietà che lo renda ammirato dagli altri, e/o gettare le basi per un futuro impegno politico. Tutte cose, piacciano o meno, perfettamente consentite dalla Costituzione che, all'articolo 21, tutela (o quantomeno dovrebbe farlo) la libertà di parola. Di conseguenza, l'influencer ha gli stessi diritti di un editorialista di un grosso giornale o dell'uomo della strada che esprime un'opinione al bar, ma non gli stessi doveri - salvo quelli previsti dalla legge per il comune diritto di parola - per la semplice ragione che Internet non è un canale televisivo, e che forum, blog e social media non sono TV e radio, diversamente da quanto molti credano.
L'equivoco sotteso a questo fraintendimento, oltre a lanciare qualche talento (la Lucarelli e Scanzi hanno iniziato come blogger) ha indubbiamente generato una pletora di "Wannabe Montanelli", che di quel portentoso giornalista hanno i difetti ma non i pregi, ma ha anche infastidito moltissimi professionisti della parola che avrebbero preteso l'esclusiva della trasmissione di informazioni, e si trovano oggi invece a presidiare una professione che nelle forme in cui pretenderebbero che ritorni, aveva un senso quando nacque, ossia i mezzi di comunicazione erano molto meno numerosi e meno pervasivi, e che viceversa, oggi si trovano a competere con un uomo qualunque che senz'altro a volte può anche essere un idiota senza né arte né parte, con una sua platea di poveretti più idioti di lui che pendono dalle sue labbra (ma lì il problema non è dell'idiota ma di chi pende dalle sue labbra) ma altre volte è una persona con qualità pari se non superiori a quelle di tantissimi giornalisti che non sanno scrivere ma che, o per insufficiente tollerabilità di certi compromessi, oppure per pigrizia esistenziale che non gli fa trovare avvincente l'idea di fare gavetta andando a celebrare le gesta degli eroi del Torneo Intersociale, (soprattutto se nel frattempo viene superato da gente con cognomi importanti, senza i quali sarebbero disoccupati) decide di fare da solo.
In sintesi, il principale equivoco, tipico di chi viene dai media tradizionali, consiste nel confondere i due ambiti: giornalismo e blogging. Tutto questo deriva dall'assenza di una sana cultura liberale che ha diffuso nella gente l'idea che per esprimere le proprie opinioni in forma scritta si debba per forza avere un ruolo, cosa che mi ha portato in quasi vent'anni, innumerevoli volte, a sentirmi fare la stessa sgradevole domanda: "Sei un giornalista? Sei un politico? Sei questo? Sei quell'altro?" senza che nessuno immagini che dire la propria opinione - gratis o a pagamento - non è una professione ma un diritto costituzionale. Il tutto agganciato a quel misto tra statalismo e clericalismo che porta l'italiano medio a vivere in una profonda sudditanza nei confronti di chiunque esprima un'opinione, pretendendo di catalogarlo in qualche modo.
Chiariamo e ribadiamo dunque il punto. Un opinionista, un commentatore, un blogger, un influencer, un raffredorer, un tracheiter, un bronchiter, un polmoniter, 𝗻𝗼𝗻 𝘀𝗼𝗻𝗼 𝗴𝗶𝗼𝗿𝗻𝗮𝗹𝗶𝘀𝘁𝗶. 𝗜𝗻𝘁𝗲𝗿𝗻𝗲𝘁 𝗻𝗼𝗻 è 𝘂𝗻 𝗴𝗶𝗼𝗿𝗻𝗮𝗹𝗲. 𝗜 𝘀𝗼𝗰𝗶𝗮𝗹, 𝗱𝗮 𝗾𝘂𝗲𝗹𝗹𝗶 𝗺𝗮𝗶𝗻𝘀𝘁𝗿𝗲𝗮𝗺 𝗰𝗵𝗲 𝘁𝘂𝘁𝘁𝗶 𝗰𝗼𝗻𝗼𝘀𝗰𝗶𝗮𝗺𝗼, 𝗻𝗼𝗻 𝘀𝗼𝗻𝗼 𝗲𝗱𝗶𝘁𝗼𝗿𝗶 (𝗳𝗮𝘁𝗲 𝗮𝘁𝘁𝗲𝗻𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗮 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗼 𝗶𝗺𝗽𝗼𝗿𝘁𝗮𝗻𝘁𝗶𝘀𝘀𝗶𝗺𝗼 𝗽𝘂𝗻𝘁𝗼, 𝗺𝗼𝗹𝘁𝗶 𝘀𝗼𝗰𝗶𝗮𝗹 𝗻𝗲𝗴𝗹𝗶 𝗨𝗦𝗔 𝘀𝗼𝗻𝗼 𝘀𝗼𝘁𝘁𝗼 𝗶𝗻𝗰𝗵𝗶𝗲𝘀𝘁𝗮 𝗽𝗲𝗿 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗼) 𝗺𝗮 𝗽𝗶𝗮𝘁𝘁𝗮𝗳𝗼𝗿𝗺𝗲, 𝗰𝗵𝗲 𝗻𝗼𝗻 𝗽𝗼𝘀𝘀𝗼𝗻𝗼, 𝗽𝗲𝗿 𝗻𝗲𝘀𝘀𝘂𝗻𝗮 𝗿𝗮𝗴𝗶𝗼𝗻𝗲, 𝗳𝗼𝘀𝘀𝗲 𝗮𝗻𝗰𝗵𝗲 𝗱𝗶 𝗼𝗿𝗱𝗶𝗻𝗲 𝗽𝘂𝗯𝗯𝗹𝗶𝗰𝗼, 𝗰𝗲𝗻𝘀𝘂𝗿𝗮𝗿𝗲 𝗹𝗲 𝗼𝗽𝗶𝗻𝗶𝗼𝗻𝗶. Se una sentenza riconoscesse il ruolo di editori dei social, gli utenti potrebbero richiedere di essere pagati per i loro contributi. In sostanza, io - e tutti quelli che ogni giorno scrivono sui social network - non sono un giornalista, non ho né i diritti né i doveri di un giornalista. E il fatto che io diffonda i miei pensieri sotto forma di articoli (più o meno apprezzabili, questo lo stabilite voi) non muta la sostanza del fatto. Io rimango un signor nessuno qualsiasi che esercita un diritto di critica garantito dalla Costituzione.
Ora voi capirete benissimo che quando una persona conquista un suo seguito senza superare questi step, la cosa faccia rosicare chi invece deve fare un percorso ben più accidentato. E se a questo si aggiunge che spesso e volentieri un blogger si sente dire (è capitato a chiunque abbia raggiunto un suo discreto seguito) "tu sei l'unico giornale che leggo, la TV e i giornali non li leggo più", si individua immediatamente il punto: noi blogger/influencer/quelchevipare stiamo più o meno inconsapevolmente togliendo lettori ai giornali mainstream. Che ovviamente non ne sono felici.
Naturalmente, molti intellettuali si scagliano contro questo cambiamento di paradigma, sostenendo che "Su Internet ci sono le fake news". Altri sostengono che gli influencer facciano pubblicità occulta, altre volte che gli Youtuber, come nel caso di Casal Palocco, fanno cose che provocano grossi guai. Accuse che avrebbero senso se non provenissero da giornali che, giornalmente e pedissequamente, diffondono caterve di sesquipedali puttanate, per non parlare delle marchette di molti giornalisti in favore di altri professionisti dell'arte e della cultura. E in ogni caso, niente che avverrebbe senza il consenso del lettore. Se esiste una pila di idioti che compra ad otto euro l'acqua della Ferragni, il problema è della pila di idioti, non della Ferragni. Questa è la "nobile motivazione" dietro la campagna contro gli influencer: tutelare il lettore. Quella in controluce è la censura del libero pensiero, che i grandi gruppi editoriali possono fermare solo violando i diritti individuali fondamentali di una democrazia. Peraltro sarebbe anche sbagliato farne soltanto una questione di informazione. Perché il tentativo di "ricalibrare la libertà" - come si sta meditando di fare - non è solo riferito a quella di parola, ma anche alla distruzione di qualsiasi forma di comunicazione e di scambio di beni o servizi che salti la mediazione di qualche ente istituzionale o delle oligarchie finanziarie. Si pensi ai continui tentativi di censurare Blablacar per esempio. Che nasce per far sì che due sconosciuti si dividano le spese di viaggio, cosa utile specie in epoca di rincaro energetico. Ma che ovviamente toglie quote di mercato ai tanti vettori della mobilità su base nazionale (Trenitalia, Italo, aerei vari etc.)
Se ci sono dei coglioni che diventano famosi perché fanno un video dove scommettono di guidare per cinquanta ore di fila, potete censurarli quanto volete, ma non riuscirete mai a spiegarvi perché milioni di persone li seguano, legittimando il loro successo. E se commettono reati, è giusto che vengano perseguiti. Ma che vengano perseguiti soltanto loro, non anche chi invece i social li usa per produrre contenuti di qualità.
L'influencer altro non è che l'evoluzione di quel che un tempo erano (e per la verità, sarebbero ancora) i blogger, a loro volta estrinsecazione digitale di un tizio qualsiasi che dà sfogo all'istinto, alla spinta di esprimere un'opinione, senza impegno, senza pretese e senza una formazione professionale, in un contesto del tutto analogo, se gratis, alla discussione da bar, oppure - se retribuito - alla rappresentanza per qualche ditta o alle pubbliche relazioni. L'unica differenza tra i due ambiti è che l'influencer, che si faccia pagare o meno, esprime la sua attività in spazi teoricamente aperti all'intero globo terracqueo e raggiungibili in pochi secondi.
Le motivazioni che animano questa spinta, che si esprima su Facebook o su un blog privato, possono essere numerose: guadagnare soldi (attraverso pubblicità o pubbliche relazioni per qualche azienda), e/o costruirsi una notorietà che lo renda ammirato dagli altri, e/o gettare le basi per un futuro impegno politico. Tutte cose, piacciano o meno, perfettamente consentite dalla Costituzione che, all'articolo 21, tutela (o quantomeno dovrebbe farlo) la libertà di parola. Di conseguenza, l'influencer ha gli stessi diritti di un editorialista di un grosso giornale o dell'uomo della strada che esprime un'opinione al bar, ma non gli stessi doveri - salvo quelli previsti dalla legge per il comune diritto di parola - per la semplice ragione che Internet non è un canale televisivo, e che forum, blog e social media non sono TV e radio, diversamente da quanto molti credano.
L'equivoco sotteso a questo fraintendimento, oltre a lanciare qualche talento (la Lucarelli e Scanzi hanno iniziato come blogger) ha indubbiamente generato una pletora di "Wannabe Montanelli", che di quel portentoso giornalista hanno i difetti ma non i pregi, ma ha anche infastidito moltissimi professionisti della parola che avrebbero preteso l'esclusiva della trasmissione di informazioni, e si trovano oggi invece a presidiare una professione che nelle forme in cui pretenderebbero che ritorni, aveva un senso quando nacque, ossia i mezzi di comunicazione erano molto meno numerosi e meno pervasivi, e che viceversa, oggi si trovano a competere con un uomo qualunque che senz'altro a volte può anche essere un idiota senza né arte né parte, con una sua platea di poveretti più idioti di lui che pendono dalle sue labbra (ma lì il problema non è dell'idiota ma di chi pende dalle sue labbra) ma altre volte è una persona con qualità pari se non superiori a quelle di tantissimi giornalisti che non sanno scrivere ma che, o per insufficiente tollerabilità di certi compromessi, oppure per pigrizia esistenziale che non gli fa trovare avvincente l'idea di fare gavetta andando a celebrare le gesta degli eroi del Torneo Intersociale, (soprattutto se nel frattempo viene superato da gente con cognomi importanti, senza i quali sarebbero disoccupati) decide di fare da solo.
In sintesi, il principale equivoco, tipico di chi viene dai media tradizionali, consiste nel confondere i due ambiti: giornalismo e blogging. Tutto questo deriva dall'assenza di una sana cultura liberale che ha diffuso nella gente l'idea che per esprimere le proprie opinioni in forma scritta si debba per forza avere un ruolo, cosa che mi ha portato in quasi vent'anni, innumerevoli volte, a sentirmi fare la stessa sgradevole domanda: "Sei un giornalista? Sei un politico? Sei questo? Sei quell'altro?" senza che nessuno immagini che dire la propria opinione - gratis o a pagamento - non è una professione ma un diritto costituzionale. Il tutto agganciato a quel misto tra statalismo e clericalismo che porta l'italiano medio a vivere in una profonda sudditanza nei confronti di chiunque esprima un'opinione, pretendendo di catalogarlo in qualche modo.
Chiariamo e ribadiamo dunque il punto. Un opinionista, un commentatore, un blogger, un influencer, un raffredorer, un tracheiter, un bronchiter, un polmoniter, 𝗻𝗼𝗻 𝘀𝗼𝗻𝗼 𝗴𝗶𝗼𝗿𝗻𝗮𝗹𝗶𝘀𝘁𝗶. 𝗜𝗻𝘁𝗲𝗿𝗻𝗲𝘁 𝗻𝗼𝗻 è 𝘂𝗻 𝗴𝗶𝗼𝗿𝗻𝗮𝗹𝗲. 𝗜 𝘀𝗼𝗰𝗶𝗮𝗹, 𝗱𝗮 𝗾𝘂𝗲𝗹𝗹𝗶 𝗺𝗮𝗶𝗻𝘀𝘁𝗿𝗲𝗮𝗺 𝗰𝗵𝗲 𝘁𝘂𝘁𝘁𝗶 𝗰𝗼𝗻𝗼𝘀𝗰𝗶𝗮𝗺𝗼, 𝗻𝗼𝗻 𝘀𝗼𝗻𝗼 𝗲𝗱𝗶𝘁𝗼𝗿𝗶 (𝗳𝗮𝘁𝗲 𝗮𝘁𝘁𝗲𝗻𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗮 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗼 𝗶𝗺𝗽𝗼𝗿𝘁𝗮𝗻𝘁𝗶𝘀𝘀𝗶𝗺𝗼 𝗽𝘂𝗻𝘁𝗼, 𝗺𝗼𝗹𝘁𝗶 𝘀𝗼𝗰𝗶𝗮𝗹 𝗻𝗲𝗴𝗹𝗶 𝗨𝗦𝗔 𝘀𝗼𝗻𝗼 𝘀𝗼𝘁𝘁𝗼 𝗶𝗻𝗰𝗵𝗶𝗲𝘀𝘁𝗮 𝗽𝗲𝗿 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗼) 𝗺𝗮 𝗽𝗶𝗮𝘁𝘁𝗮𝗳𝗼𝗿𝗺𝗲, 𝗰𝗵𝗲 𝗻𝗼𝗻 𝗽𝗼𝘀𝘀𝗼𝗻𝗼, 𝗽𝗲𝗿 𝗻𝗲𝘀𝘀𝘂𝗻𝗮 𝗿𝗮𝗴𝗶𝗼𝗻𝗲, 𝗳𝗼𝘀𝘀𝗲 𝗮𝗻𝗰𝗵𝗲 𝗱𝗶 𝗼𝗿𝗱𝗶𝗻𝗲 𝗽𝘂𝗯𝗯𝗹𝗶𝗰𝗼, 𝗰𝗲𝗻𝘀𝘂𝗿𝗮𝗿𝗲 𝗹𝗲 𝗼𝗽𝗶𝗻𝗶𝗼𝗻𝗶. Se una sentenza riconoscesse il ruolo di editori dei social, gli utenti potrebbero richiedere di essere pagati per i loro contributi. In sostanza, io - e tutti quelli che ogni giorno scrivono sui social network - non sono un giornalista, non ho né i diritti né i doveri di un giornalista. E il fatto che io diffonda i miei pensieri sotto forma di articoli (più o meno apprezzabili, questo lo stabilite voi) non muta la sostanza del fatto. Io rimango un signor nessuno qualsiasi che esercita un diritto di critica garantito dalla Costituzione.
Ora voi capirete benissimo che quando una persona conquista un suo seguito senza superare questi step, la cosa faccia rosicare chi invece deve fare un percorso ben più accidentato. E se a questo si aggiunge che spesso e volentieri un blogger si sente dire (è capitato a chiunque abbia raggiunto un suo discreto seguito) "tu sei l'unico giornale che leggo, la TV e i giornali non li leggo più", si individua immediatamente il punto: noi blogger/influencer/quelchevipare stiamo più o meno inconsapevolmente togliendo lettori ai giornali mainstream. Che ovviamente non ne sono felici.
Naturalmente, molti intellettuali si scagliano contro questo cambiamento di paradigma, sostenendo che "Su Internet ci sono le fake news". Altri sostengono che gli influencer facciano pubblicità occulta, altre volte che gli Youtuber, come nel caso di Casal Palocco, fanno cose che provocano grossi guai. Accuse che avrebbero senso se non provenissero da giornali che, giornalmente e pedissequamente, diffondono caterve di sesquipedali puttanate, per non parlare delle marchette di molti giornalisti in favore di altri professionisti dell'arte e della cultura. E in ogni caso, niente che avverrebbe senza il consenso del lettore. Se esiste una pila di idioti che compra ad otto euro l'acqua della Ferragni, il problema è della pila di idioti, non della Ferragni. Questa è la "nobile motivazione" dietro la campagna contro gli influencer: tutelare il lettore. Quella in controluce è la censura del libero pensiero, che i grandi gruppi editoriali possono fermare solo violando i diritti individuali fondamentali di una democrazia. Peraltro sarebbe anche sbagliato farne soltanto una questione di informazione. Perché il tentativo di "ricalibrare la libertà" - come si sta meditando di fare - non è solo riferito a quella di parola, ma anche alla distruzione di qualsiasi forma di comunicazione e di scambio di beni o servizi che salti la mediazione di qualche ente istituzionale o delle oligarchie finanziarie. Si pensi ai continui tentativi di censurare Blablacar per esempio. Che nasce per far sì che due sconosciuti si dividano le spese di viaggio, cosa utile specie in epoca di rincaro energetico. Ma che ovviamente toglie quote di mercato ai tanti vettori della mobilità su base nazionale (Trenitalia, Italo, aerei vari etc.)
Se ci sono dei coglioni che diventano famosi perché fanno un video dove scommettono di guidare per cinquanta ore di fila, potete censurarli quanto volete, ma non riuscirete mai a spiegarvi perché milioni di persone li seguano, legittimando il loro successo. E se commettono reati, è giusto che vengano perseguiti. Ma che vengano perseguiti soltanto loro, non anche chi invece i social li usa per produrre contenuti di qualità.
Tenendo sempre presente una battuta che gira da anni sui social: gli influencer non esisterebbero senza i deficienter.