Inizio questo articolo premettendo che disprezzo Di Maio anzitutto sul piano umano prima ancora che su quello politico, ma per ragioni che purtroppo non posso scrivere qui. Questo per premettere che questo non è un articolo di "simpatia" nei suoi confronti. E tuttavia, non mi sono mai accanito contro di lui perché un conto è disistimare la persona, altro conto è accettare intellettualmente che per la gente simboleggi qualcosa - il tradimento dei valori fondanti del partito - di in realtà "genetico" nella storia del Movimento 5 Stelle, e dunque di ampiamente previsto.
Quando il "partito di Beppe Grillo e Casaleggio" ha cominciato ad avere successo, molti se ne sono meravigliati. Perché esso era tutto ciò che un partito non deve essere: utopico, protestatario, volgare, moralista, confuso, digiuno di economia, privo di un’ideologia e di una classe dirigente, poco democratico, estremista, forcaiolo, arrogante e solipsista. L'osservatore, che fosse professionale come può essere un editorialista da grosso giornale o amatoriale come può esserlo un oscuro blogger come me, non finiva di enumerarne i difetti, e tuttavia ha visto crescere i suoi consensi fino al 32,5% del Marzo del 2018. A quel punto, ritenendosi forte al punto di poter imporre la propria ideologia rivoluzionaria, il grillismo ha lanciato un'OPA sul sistema politico italiano, cosa che cinque anni prima, con un buonissimo ancorché più contenuto 25%, non aveva fatto, rimanendo all'opposizione. Il punto è che fin quando il Movimento faceva dell'opposizione al sistema il proprio "core business", ha potuto promettere l'impossibile, quando viceversa ha deciso di misurarsi con i melmosi meccanismi della democrazia italiana - a partire dalla scelta di un alleato con cui far evolvere quel 32,5% elettorale in un 50%+1 parlamentare - si è reso conto che le cose sono molto più complesse di quanto sembrino. Fin quando, nel 2013, il problema per i grillini era di vedere i parlamentari passare al Nemico (l'ho messo al singolare, perché per loro PD e PDL erano la stessa cosa) i capibastone del partito potevano tranquillamente affrontare la cosa senza scossoni: lo stesso Grillo aveva previsto il tutto, dando per scontato che molti avrebbero tradito il Movimento. E del resto, proprio l'assenza delle preferenze dava al comico genovese e al suo foltocrinito ideologo la possibilità di poter rifare, nel 2018, le liste, senza preoccuparsi del consenso territoriale acquisito. Ma quando nel 2018 sono andati al governo, si sono resi conto che le cose cambiavano. Che toccava prendere decisioni che avrebbero snaturato, sia nella forma che nella sostanza, i dogmi del Movimento. Che occorrevano competenze, relazioni, numeri di cui in realtà non disponevano. E che a meno di non tornare all'opposizione, ci si sarebbe dovuti "sporcare le mani".
Per cui immaginiamo il nostro Di Maio, il quale scopre che la politica è una cosa ben diversa dalla retorica dell'uno che vale uno, dell'Euro dal quale si può uscire anche con un referendum, che spesso i tanto esaltati magistrati sono una lobby tale e quale a quelle che il Movimento storicamente condannava, e che in politica estera non ci sono né buoni né cattivi ma solo criminali. Ad un certo punto si è trovato di fronte ad un bivio: faccio come Di Battista che mi tiro fuori (magari per tenersi puro e integro di fronte a futuri scenari per poi dimaiozzarsi?) oppure mi tiro dentro? Ha scelto di tirarsi dentro. Ha rinnegato tutto quello in cui ha creduto, ha scelto la facile strada del superstipendio politico, della superpensione, si è tolto l'aria scamiciata del contestatore di provincia e si è messo la giacca e la cravatta del più consumato dei professionisti della politica, fino a consacrare il suo passaggio da giovanotto di provincia senza né arte né parte a uomo di sistema, con una sua comparizione, da aeroplanino umano, in una bettola partenopea, con lo sguardo tronfio, tipico del trionfo, di chi è passato da un'avvenire incerto ad un presente assicurato fino ad un futuro che, a meno di palingenesi geopolitiche e guai di salute - che nessuno gli augura, sia chiaro - di fatto è blindato e gli permetterà una Terza Età serena, con un incarico lautamente retribuito di consigliere nunsesadeché nel Golfo, qualcosa che scandalizza tutti meno che quelli che la politica la conoscono davvero e che, soprattutto, conoscono la natura umana. Chi di voi si sarebbe dimesso, se non in vista di un calcolo ben più lungimirante come quello fatto da Di Battista che, ad oggi, ha la purezza per potersi riproporre come leader di un futuro progetto politico?
E se Di Maio mi rimane insopportabile, insopportabili sono anche quelli che lo insultano ma che al posto suo avrebbero fatto lo stesso. Giggino, se può simboleggiare qualcosa, non può che assurgere ad emblema della dittatura odierna, di cui, per dirla alla Montanelli, non dobbiamo temere le punizioni ma i premi. Ma soprattutto di cui dobbiamo temere la mirabile capacità di apparire competente senza esserlo, di dare l'idea di un ordine nascondendo la polvere del disordine sotto il tappeto e di consegnare ai posteri l'idea che in fondo Di Maio simboleggi la natura umana tutta e non semplicemente un paese che non sente più suo l'onere di dimostrare di avere un onore.
Quando il "partito di Beppe Grillo e Casaleggio" ha cominciato ad avere successo, molti se ne sono meravigliati. Perché esso era tutto ciò che un partito non deve essere: utopico, protestatario, volgare, moralista, confuso, digiuno di economia, privo di un’ideologia e di una classe dirigente, poco democratico, estremista, forcaiolo, arrogante e solipsista. L'osservatore, che fosse professionale come può essere un editorialista da grosso giornale o amatoriale come può esserlo un oscuro blogger come me, non finiva di enumerarne i difetti, e tuttavia ha visto crescere i suoi consensi fino al 32,5% del Marzo del 2018. A quel punto, ritenendosi forte al punto di poter imporre la propria ideologia rivoluzionaria, il grillismo ha lanciato un'OPA sul sistema politico italiano, cosa che cinque anni prima, con un buonissimo ancorché più contenuto 25%, non aveva fatto, rimanendo all'opposizione. Il punto è che fin quando il Movimento faceva dell'opposizione al sistema il proprio "core business", ha potuto promettere l'impossibile, quando viceversa ha deciso di misurarsi con i melmosi meccanismi della democrazia italiana - a partire dalla scelta di un alleato con cui far evolvere quel 32,5% elettorale in un 50%+1 parlamentare - si è reso conto che le cose sono molto più complesse di quanto sembrino. Fin quando, nel 2013, il problema per i grillini era di vedere i parlamentari passare al Nemico (l'ho messo al singolare, perché per loro PD e PDL erano la stessa cosa) i capibastone del partito potevano tranquillamente affrontare la cosa senza scossoni: lo stesso Grillo aveva previsto il tutto, dando per scontato che molti avrebbero tradito il Movimento. E del resto, proprio l'assenza delle preferenze dava al comico genovese e al suo foltocrinito ideologo la possibilità di poter rifare, nel 2018, le liste, senza preoccuparsi del consenso territoriale acquisito. Ma quando nel 2018 sono andati al governo, si sono resi conto che le cose cambiavano. Che toccava prendere decisioni che avrebbero snaturato, sia nella forma che nella sostanza, i dogmi del Movimento. Che occorrevano competenze, relazioni, numeri di cui in realtà non disponevano. E che a meno di non tornare all'opposizione, ci si sarebbe dovuti "sporcare le mani".
Per cui immaginiamo il nostro Di Maio, il quale scopre che la politica è una cosa ben diversa dalla retorica dell'uno che vale uno, dell'Euro dal quale si può uscire anche con un referendum, che spesso i tanto esaltati magistrati sono una lobby tale e quale a quelle che il Movimento storicamente condannava, e che in politica estera non ci sono né buoni né cattivi ma solo criminali. Ad un certo punto si è trovato di fronte ad un bivio: faccio come Di Battista che mi tiro fuori (magari per tenersi puro e integro di fronte a futuri scenari per poi dimaiozzarsi?) oppure mi tiro dentro? Ha scelto di tirarsi dentro. Ha rinnegato tutto quello in cui ha creduto, ha scelto la facile strada del superstipendio politico, della superpensione, si è tolto l'aria scamiciata del contestatore di provincia e si è messo la giacca e la cravatta del più consumato dei professionisti della politica, fino a consacrare il suo passaggio da giovanotto di provincia senza né arte né parte a uomo di sistema, con una sua comparizione, da aeroplanino umano, in una bettola partenopea, con lo sguardo tronfio, tipico del trionfo, di chi è passato da un'avvenire incerto ad un presente assicurato fino ad un futuro che, a meno di palingenesi geopolitiche e guai di salute - che nessuno gli augura, sia chiaro - di fatto è blindato e gli permetterà una Terza Età serena, con un incarico lautamente retribuito di consigliere nunsesadeché nel Golfo, qualcosa che scandalizza tutti meno che quelli che la politica la conoscono davvero e che, soprattutto, conoscono la natura umana. Chi di voi si sarebbe dimesso, se non in vista di un calcolo ben più lungimirante come quello fatto da Di Battista che, ad oggi, ha la purezza per potersi riproporre come leader di un futuro progetto politico?
E se Di Maio mi rimane insopportabile, insopportabili sono anche quelli che lo insultano ma che al posto suo avrebbero fatto lo stesso. Giggino, se può simboleggiare qualcosa, non può che assurgere ad emblema della dittatura odierna, di cui, per dirla alla Montanelli, non dobbiamo temere le punizioni ma i premi. Ma soprattutto di cui dobbiamo temere la mirabile capacità di apparire competente senza esserlo, di dare l'idea di un ordine nascondendo la polvere del disordine sotto il tappeto e di consegnare ai posteri l'idea che in fondo Di Maio simboleggi la natura umana tutta e non semplicemente un paese che non sente più suo l'onere di dimostrare di avere un onore.
Gaber diceva "Non temo Berlusconi in sé ma Berlusconi in me". Analogamente, non va disprezzato Di Maio in sé, ma il Di Maio che c'è in tutti noi. Me compreso, beninteso. Prendersela con gli altri invece che con noi stessi è una scelta sempre e solo codarda.