Non so se perché la mia infanzia e adolescenza non siano state particolarmente serene – e dunque il ricordo dei tempi passati non evoca la mitologica spensieratezza che molti vorrebbero tributargli – o per aver scoperto come quel tempo scavasse la fossa dove saremmo caduti e dunque dove siamo oggi, ma non sono un nostalgico. Alla domanda “Preferiresti tornare al passato?” la mia risposta sarebbe un sonoro “NO!”. E dire che di cose ne potrei rimpiangere molte. Le tante persone care che non ci sono più, l'energia di quella gioventù che a quarant'anni ormai suonati non c'è più. E tuttavia, forse perché ancora immune alle ingiurie del tempo, sono contento di vivere una fase storica che può davvero essere rivoluzionaria. Siamo connessi con tutto il mondo, siamo di fronte ad un vero tornante della storia, che ridisegna equilibri, a vari livelli, e chiude un lungo capitolo della storia dell’umanità. La nostalgia l’ho sempre vista come la suggestione di chi, conservandone una memoria alterata, mitizza il passato illudendosi che sia sufficiente per ringiovanire. In tanti, per dire, rimpiangono l’era degli sms e delle le cabine telefoniche, dimenticando che esistono ancora ma che si preferisce la gratuità di Whatsapp e la comodità di un cellulare a portata di mano. Tutti rimpiangono la TV dei tempi passati, il calcio del passato, una certa vitalità artistica e culturale, non riuscendo ad astrarre le considerazioni generali dalla maggiore serenità del proprio vissuto. Non ho mai corso questo rischio, sia perché, come dicevo, non associo il passato a momenti sereni, sia perché sono un futurista esistenziale. La TV del Novecento aveva stancato. Il Mike Bongiorno che duettava saporitamente con Fiorello aveva ampiamente fatto dimenticare l’insopportabilità di quello di prima. Pippo Baudo con la sua perenne onnipresenza mi induceva a cambiare canale ogni volta che mi si parasse davanti. Casa Vianello, oggi rimpianta su Youtube, era divertentissima all’inizio ma ormai aveva esaurito la sua vena. I videogiochi riuscivano nell’impresa di non soddisfarmi mai. In sostanza, volevo sempre qualcosa di nuovo. Forse è vero quel che diceva Cesare Pavese, che non è bello essere bambini, è bello da grandi pensare a quando si era bambini.
E tuttavia, l’antinostalgismo ideologico è sciocco come il nostalgismo. In alcuni ambiti, il declino è evidente. Ma qui c’è un primo elemento critico da considerare: spesso quel che sembra declino, non è che un ritorno alla realtà. Quando per esempio, dopo che per la seconda volta consecutiva, non siamo andati ai Mondiali, si dice che il livello del calcio italiano è crollato, si dice una parte di verità: il mitologico calcio italiano si reggeva sui debiti, finiti i quali siamo tornati alla realtà. Ma in generale, la sensazione è che in molti ambiti sia calata la passione. Questo lo vedo, per esempio, nella musica, dove, senza per forza dare addosso a Sanremo, da almeno vent’anni ho la percezione di non riscontrare alcuna evoluzione. Complessi come i Queen, i Beatles, i Led Zeppellin, i Rolling Stones, personaggi carismatici del calibro di Freddie Mercury, di Peter Gabriel, di Ray Charles, ma anche di Lucio Battisti, di Mina, di Lucio Dalla, di Fabrizio De André, sembrano irripetibili. Perché? Le ragioni sono molte e non si possono contenere in un articolo che, viceversa, si trasformerebbe in un saggio, troppo lungo. Ma la sensazione è che gran parte del nostro declino dipenda da un benessere senza giustificazione. Se andiamo a leggere le biografie di tutti gli artisti del passato, di tutti i grandi sportivi, potremmo scoprire storie o di indigenza o di serena povertà, che hanno regalato loro una fame morale prima ancora che pecuniaria di emergere rispetto ad un divenire che sarebbe stato probabilmente grigio. Prendo a caso alcune icone a me care. Maradona era figlio di una famiglia povera. Lucio Battisti veniva da una famiglia della media borghesia paesana ma veniva burlato per il suo sovrappeso, cosa che gli diede la spinta per affermarsi nella musica. Pelè era figlio di un calciatore caduto in miseria. Gigi Riva era un orfano spedito in un collegio, Freddie Mercury veniva da una lunga e tormentata storia di molestie subite a scuola. La miseria, la povertà, la sofferenza, stimolano la mente e il corpo e dunque la voglia di spingere più avanti i propri limiti. Il benessere invece sembra aver avuto il potere di rilassare tutti. Che motivo c’è di diventare qualcuno di importante, di rivalersi su chi non ha creduto in noi, di spingere in là i nostri limiti se tanto la promozione è obbligatoria, se è vietato persino dire una parola fuori posto ad un alunno somaro?
L’arte da troppo tempo sembra sempre la stessa. Quando a mia figlia feci vedere il video di Wannabe, la grandiosa hit con cui le Spice Girls irruppero nel mercato, mi chiedeva se fosse un gruppo nuovo. E invece parliamo di venticinque anni fa. Mentre qualsiasi persona saprebbe oggi distinguere il look di un artista degli anni Novanta da quello non dico degli anni Sessanta ma addirittura degli anni Ottanta. E non soltanto perché la grafica fosse diversa ma perché si aveva la consapevolezza di un vero e proprio cambio di paradigma. Oggi invece la sensazione è che tutti si siano seduti su un benessere non meritato, su un successo che si dà per scontato. Ai bambini non viene insegnato che sono dei signori nessuno e che devono guadagnarsi la pagnotta, ma che tutto è loro dovuto. Così quando fanno intravedere un talento, ecco piombare su di loro agenti e procuratori, convinti che debbano diventare i nuovi Del Piero, i nuovi Lucio Battisti, esaurendo così ben presto il pozzo di un talento, che anche ad essere sovradimensionato, nondimeno va innaffiato dall’allenamento, dalla pratica, dall’impegno, dalla fatica. La musica si è piantata a terra. L’arte raffigurativa, anche. Lo sport produce talenti di grande abilità tecnica ma sprovvisti di voglia di migliorarsi. Mancano, e non è un particolare di poco conto, grandi narratori. Un po’ perché Federico Buffa non è Gianni Brera o Gianni Mura – come del resto Saviano non è Pasolini – e un po’ perché i protagonisti da narrare scoraggiano l’epica di ogni aspirante Omero. Tutto si è fermato perché si sono fermate, inaridite, le passioni dell’uomo. L’arte è creazione che attinge dalla tavolozza dell’immaginazione. E noi non immaginiamo più niente: è tutto a portata di mano. Inventare richiede la presenza di limiti così soffocanti da indurci a bucarli, e soprattutto una grande libertà mentale, impossibile da realizzare nell’epopea del politicamente corretto, in cui si va avanti se si dice la cosa giusta. Qualcosa che non si costruisce né nelle scuole di calcio né in quelle musicali.
Mentre scrivo tutto questo, siamo nel pieno sconcerto della seconda mancata qualificazione dell’Italia ai Mondiali. Qualcosa in fin dei conti di non importante e neanche così indicativo, sia perché la Francia, nel 1998, prima di vincere un Mondiale, non era riuscita a qualificarsi per i due precedenti, sia perché si tratta di calcio. Ma se cito questo ambito è anche per notare come le analisi più disparate, sia che rimangano confinate all’ambito tecnico (colpa di Mancini? Che non facciamo gol?) o più generale (colpa dei vivai che non producono più? Troppi stranieri? Poca collaborazione dei club?) non considerino che il problema possa essere extracalcistico e risiedere in un’umanità che sembra essersi seduta. Del resto, che senso ha diventare rockstar, fuoriclasse dello sport, grandi pittori, se il successo è dietro l’angolo e senza fatica, basta dire la cosa giusta? In realtà, le grandi imprese, in qualsiasi ambito, sono figlie di un’immaginazione tale da rompere i limiti degli schemi. Rimanendo nel recinto, non si crea arte. Si pascola e basta, al servizio del mandriano. Ma l’arte o è rottura degli schemi o è solo propaganda. Niente per cui valga la pena emozionarsi, come ci capita di fronte ad un’opera di Puccini, o anche più banalmente davanti ad un gol di Maradona.