Molti anni fa, in un periodo di buona liquidità, stavo per acquistare una grossa comunità di videogamers. Raggiunto l'accordo attorno ai 40.000 euro, ad un certo punto fui avvolto da quell’istintaccio che nella maggior parte dei casi mi salva dalle fregature e che mi fece tirare indietro. La prima: un venditore assillante e troppo desideroso di vendere. Come mai? Dopo alcune indagini, scoprii che l’amministratore della comunità stava organizzandosi per ricostruirne una praticamente identica, nella quale investire i soldi derivanti dalla vendita di quella vecchia, portandomi via tutti gli utenti. Ma l'errore (concettuale, perché per fortuna quello pratico non lo commisi) fu di non comprendere che si è proprietari di una comunità digitale solo se si possiede anche la rete relazionale che la nutre, viceversa si possiede una scatola vuota. Principio che non vale ovviamente solo per le comunità digitali: anche le discoteche non si reggono in piedi sul proprietario ma sugli addetti alle pubbliche relazioni.
Ben più autorevolmente, Elon Musk ha acquistato Twitter, notizia che era già nell'aria da quasi un anno. E al riguardo provo le stesse perplessità. Che senso ha tutto questo? Interessanti sono, peraltro, alcune affermazioni dello stesso Musk: “Twitter deve diventare un’azienda privata”. E qui il sottintendimento è ben chiaro: Musk sta dicendo, con piena ragione, che i social network non sono davvero privati. Ma come?, strillerà il filoamericano e filocapitalista, ma se Twitter è un’azienda privata? Qui si torna al punto, già chiarito in queste pagine, che gli Stati Uniti non sono il tempio del capitalismo descritto da alcuni, ma un’organizzazione sovietica con la caratteristica di nascondere dietro molteplici proxy, la propria organizzazione statalistica. I social network odierni non sarebbero mai diventati quel che sono, senza il potere americano alle spalle, specialmente Twitter che perde miliardi praticamente sin dalla sua fondazione ma, curiosamente, trova sempre grandi investitori pronti a ripianare. Da notare che ho detto “potere americano” e non “stato americano”. Gli Stati Uniti – formalmente una democrazia, nei fatti dittatura plutocratica ramificata in molteplici ambiti che opera sotterraneamente contro il potere politico ufficiale, composto da semplici “camerieri” – in ogni ramo sono diretti più o meno ufficialmente da personalità che, facendovi confluire la propria influenza, costituiscono la rete relazionale che regge tutte le comunità mediatiche, compresi social. Questa rete può svuotare Twitter in qualsiasi momento, riempendo un altro social network maggiormente gradito. Così come può, con una speculazione negativa, far fallire Musk. Un antipasto si è visto, per esempio, in un tweet di Carola Rackete, icona dell’immigrazionismo, che mesi fa minacciò di lasciare Twitter se fosse finita nelle mani dello sgradito neoproprietario; lo si vede negli articoli diffamanti dei grandi giornali; nel crollo di ben venticinque miliardi in Borsa. Lo si vede dalle immancabili accuse di molestie sessuali che iniziano a serpeggiare sul neoproprietario. E proprio perché, ben consapevole di stare per acquistare un social network di stato (uno stato profondo e non ufficiale, ma stato) non si capisce l'intento di Elon Musk. Vuole far fuori uno stato mafioso competendo democraticamente? Trump ci ha provato e ci ha lasciato le penne, una delle quali proprio nel social cinguettante.
Ben più autorevolmente, Elon Musk ha acquistato Twitter, notizia che era già nell'aria da quasi un anno. E al riguardo provo le stesse perplessità. Che senso ha tutto questo? Interessanti sono, peraltro, alcune affermazioni dello stesso Musk: “Twitter deve diventare un’azienda privata”. E qui il sottintendimento è ben chiaro: Musk sta dicendo, con piena ragione, che i social network non sono davvero privati. Ma come?, strillerà il filoamericano e filocapitalista, ma se Twitter è un’azienda privata? Qui si torna al punto, già chiarito in queste pagine, che gli Stati Uniti non sono il tempio del capitalismo descritto da alcuni, ma un’organizzazione sovietica con la caratteristica di nascondere dietro molteplici proxy, la propria organizzazione statalistica. I social network odierni non sarebbero mai diventati quel che sono, senza il potere americano alle spalle, specialmente Twitter che perde miliardi praticamente sin dalla sua fondazione ma, curiosamente, trova sempre grandi investitori pronti a ripianare. Da notare che ho detto “potere americano” e non “stato americano”. Gli Stati Uniti – formalmente una democrazia, nei fatti dittatura plutocratica ramificata in molteplici ambiti che opera sotterraneamente contro il potere politico ufficiale, composto da semplici “camerieri” – in ogni ramo sono diretti più o meno ufficialmente da personalità che, facendovi confluire la propria influenza, costituiscono la rete relazionale che regge tutte le comunità mediatiche, compresi social. Questa rete può svuotare Twitter in qualsiasi momento, riempendo un altro social network maggiormente gradito. Così come può, con una speculazione negativa, far fallire Musk. Un antipasto si è visto, per esempio, in un tweet di Carola Rackete, icona dell’immigrazionismo, che mesi fa minacciò di lasciare Twitter se fosse finita nelle mani dello sgradito neoproprietario; lo si vede negli articoli diffamanti dei grandi giornali; nel crollo di ben venticinque miliardi in Borsa. Lo si vede dalle immancabili accuse di molestie sessuali che iniziano a serpeggiare sul neoproprietario. E proprio perché, ben consapevole di stare per acquistare un social network di stato (uno stato profondo e non ufficiale, ma stato) non si capisce l'intento di Elon Musk. Vuole far fuori uno stato mafioso competendo democraticamente? Trump ci ha provato e ci ha lasciato le penne, una delle quali proprio nel social cinguettante.
Ma c’è un altro punto che il proprietario di Tesla sembra non tenere in considerazione. I social di successo, prima che comunità digitali, sono ecosistemi. Fondare un social network antisistema nell’illusione di ritrovarsi frotte di utenti a sventolare le bandiere con noi, è esattamente il motivo per cui alcuni social network o messenger cosiddetti antisistema (vKontakte, Telegram, Parler, Signal, Gabai, Sfero) almeno qui in Occidente, rimangono realtà residuali, buone al massimo come refugium peccatorum nel momento in cui i dispotici tiranni stringono il cappio. Ciò che conduce oggi molte pecore a regalare le proprie energie intellettuali al lupo fondatore di una comunità virtuale, finanche registrando account doppi, tripli, quadrupli – tutti destinati ad essere bannati – non ha origini morali ma materiali. Non motivazioni idealistiche bensì profondamente realistiche: vanità, essere ammirati chi per il proprio aspetto, chi per la propria intelligenza, chi per il proprio status. Il like è il tornaconto, la droga per cui la pecora, mentre viene tosata e regala la propria lana a facebook, è disposta a far calpestare tutta la propria dignità. La persona che voglia un mercato per i propri prodotti non si fa illusioni: sa benissimo di dover parlare non alla testa e neanche al cuore ma alla pancia del suo bacino clientelare. E creare un social network già per sua struttura divisivo e monotematico, oppure comprarne uno di cui non si possiede la rete relazionale, per giunta imperniata su un sovversivo parastato, significa non conoscere nulla. Né del proprio paese, né della rete. A meno che Musk non sappia cose che noi comuni mortali non conosciamo, non abbia già poteri sotterranei a noi ignoti. Ed è possibile. Se avrà ragione lui, glielo riconosceremo e gli faremo i complimenti. Ma oggi come oggi, l’acquisto di un social network, in un paese dominato dagli stessi poteri che avevano protetto quel media, è una follia che anche ad avere i soldi di quel grande imprenditore, io non farei mai. A meno di non sapere cose che giustifichino questo acquisto. E che quindi renderebbero inutile questo articolo.