Sono cresciuto in una famiglia berlingueriana e forse proprio per questo ho sviluppato un debole per i cattivi e una forte allergia ai buoni sentimenti. I “papi buoni”, specie se laici, non riesco a digerirli. Kennedy, Berlinguer e Pertini (agente iugoslavo, ossia britannico, e filomassone feroce e trucibaldo) sono i papi – laici – buoni, pilastri del progressismo planetario in generale e italiano in particolare, e come tali mi sono rimasti sullo stomaco.
E trovo deplorevoli le loro vedove attempate o giovani, quelle che “Quando c'era Lui, il dolce Enrico/John/Sandro, tutto era purissimo e levissimo”. Elio Germano, l'attore che interpreta Enrico Berlinguer nella biografia encomiastica diretta da Andrea Segre, ha affermato che il politico sardo “era solo un segretario di partito, non un leader”, e che i leader sono fondamentalmente degli stronzi misantropi e amorali. Ecco emergere prepotente la mentalità trotskista con la sua avversione implacabile per l'autorità, le personalità forti, la concordia sociale; il trotskismo con il suo culto del pensiero debole. Piaccia o no a Germano e compagnia bella, Berlinguer fu un leader, un pessimo leader di sinistra pioniere delle brutture del presente e del recente passato, precursore dello sfascio odierno. Berlinguer era dissimile dall'immagine di martire che ci ha tramandato l'iconografia del Partitone, ossia il timido trascinatore dal sorriso mesto che compare nelle foto e nei video d'archivio. Era, al contrario, un leader scaltro, abile dissimulatore, disonesto e cazzaro. Un vero leader carismatico, in fin dei conti. La sua nomea di trappista era più apparente che effettiva: un anziano professore veneto vicino al Pci mi ha svelato certi retroscena assai poco edificanti sul conto del personaggio. La “diversità” dei comunisti italiani, come capita spesso alle diversità pelose diffuse a bella posta dalla propaganda politica, è un cumulo di bugie e baggianate. Nella Bologna rossa, ricca e dotta, come testimonia il petroniano Paolo Barnard, fluivano tangenti e si rubava a man bassa. Ricordo senza alcun orgoglio giacobino l'integrità morale commovente, quasi superstiziosa, di un mio zio assessore comunale del Pci che non volle mai sporcasi le mani (e infatti non ebbe una grande carriera politica). Ma l'onestà, da quella ragionata a quella istintiva e fessa, albergava e alberga in ogni corrente e movimento partitico, più o meno. “Berlinguer fu scomodo tanto per gli americani quanto per i sovietici”, insiste lo scatenato trotskista Germano.
E trovo deplorevoli le loro vedove attempate o giovani, quelle che “Quando c'era Lui, il dolce Enrico/John/Sandro, tutto era purissimo e levissimo”. Elio Germano, l'attore che interpreta Enrico Berlinguer nella biografia encomiastica diretta da Andrea Segre, ha affermato che il politico sardo “era solo un segretario di partito, non un leader”, e che i leader sono fondamentalmente degli stronzi misantropi e amorali. Ecco emergere prepotente la mentalità trotskista con la sua avversione implacabile per l'autorità, le personalità forti, la concordia sociale; il trotskismo con il suo culto del pensiero debole. Piaccia o no a Germano e compagnia bella, Berlinguer fu un leader, un pessimo leader di sinistra pioniere delle brutture del presente e del recente passato, precursore dello sfascio odierno. Berlinguer era dissimile dall'immagine di martire che ci ha tramandato l'iconografia del Partitone, ossia il timido trascinatore dal sorriso mesto che compare nelle foto e nei video d'archivio. Era, al contrario, un leader scaltro, abile dissimulatore, disonesto e cazzaro. Un vero leader carismatico, in fin dei conti. La sua nomea di trappista era più apparente che effettiva: un anziano professore veneto vicino al Pci mi ha svelato certi retroscena assai poco edificanti sul conto del personaggio. La “diversità” dei comunisti italiani, come capita spesso alle diversità pelose diffuse a bella posta dalla propaganda politica, è un cumulo di bugie e baggianate. Nella Bologna rossa, ricca e dotta, come testimonia il petroniano Paolo Barnard, fluivano tangenti e si rubava a man bassa. Ricordo senza alcun orgoglio giacobino l'integrità morale commovente, quasi superstiziosa, di un mio zio assessore comunale del Pci che non volle mai sporcasi le mani (e infatti non ebbe una grande carriera politica). Ma l'onestà, da quella ragionata a quella istintiva e fessa, albergava e alberga in ogni corrente e movimento partitico, più o meno. “Berlinguer fu scomodo tanto per gli americani quanto per i sovietici”, insiste lo scatenato trotskista Germano.
Scomodo fu certamente per il campo orientale, da cui voleva staccare i comunisti italiani per aggiogarli opportunisticamente al campo occidentale, la cosca vincente, con la scusa del risibile “eurocomunismo”. Per gli americani non fu affatto scomodo, semmai un valido interlocutore che, tra le altre cose, si opponeva al tentativo craxiano di sbloccare un sistema politico pericolosamente ingessato. Chi sospira “Ah se ci fosse ancora il buon Enrico!” bestemmia e sproloquia. Nella sostanza, nessun solco profondo separa la segreteria Berlinguer dai D'Alema, Veltroni e Schlein. La metafora dell'ombrello Atlantico non lascia adito a dubbi, checché ne dicano generali e colonnelli NATO in pensione che continuano ad agitare lo spettro del bolscevismo apatride. Le allocuzioni del compagno segretario sulla cosiddetta “austerità di sinistra” e l'elogio del pauperismo anticonsumista (la Tv a colori sterco del demonio) sono la cosa più demagogica e ributtante che mi è capitato di sentire. Demagogica perché qualunque tipo di austerità comporta grossi sacrifici e penalizza inevitabilmente le classi meno abbienti, che si ritrovano costrette a stringere la cinghia; ributtante perché pronunciava quelle parole gravide di menzogne mentre i rampolli dei maggiorenti di Botteghe Oscure perfezionavano la conoscenza della peggiore economia borghese e liberale nelle esclusive università angloamericane, pulpito insigne da cui Napolitano, durante il sequestro Moro, pontificava giurando e spergiurando sulla fedeltà filoatlantica dei picisti. L'accordo sulla Scala Mobile, sottoscritto da Lama e Agnelli nel 1975, segnò il trionfo del berlinguerismo e del più infimo modello macroeconomico sussidiato e assistito, e tolse la maschera a un Pci affetto da fatalismo sottosviluppista e nemico giurato della crescita. Fatalismo che condurrà i nipotini del Sardo Triste ad accogliere acriticamente i precetti e gli stilemi della New Economy in salsa italiana, una ciofeca a base di agriturismo, fiducia cieca nell'Europa di Maastricht, dismissioni (i picisti esecravano l'IRI perché sfuggiva alle loro grinfie e fonte di ogni corruzione e nequizia partitocratica), deindustrializzazione e spesa pubblica allegra per mantenere in vita attività improduttive ed erigere cattedrali nel deserto alla nuova religione verde. “
Chi ha tanto paghi tanto, chi ha poco paghi poco, chi ha nulla non paghi nulla”, soleva ripetere a proposito dell'equità fiscale. Sappiamo come è andata a finire: chi ha tanto ha il posto fisso garantito prima a Raitre, e poi a Rete4 nella tana del Grande Satana di Arcore. Berlinguer può andare per la maggiore solo in un paese con una sinistra adusa a mascherare la propria tossicità di fondo con tratti e modi puerili, immaturi e velleitari. Recentemente Michele Serra, l'intellettuale da Zecchino d'oro, ha liquidato la questione israelo-palestinese auspicando una “rivoluzione dei bambini”. Cito Serra perché incarna appieno l'Homo Berlinguerensis, ovvero quel tipo antropologico che infantilizza questioni spinose, ricorre spesso alla faciloneria di manica larga e si abbandona a un moralismo belluino che non si ferma neppure di fronte alla morte degli avversari. La strada per la salvezza dell'Italia e la rinascita di una sinistra normale non passa dal recupero del berlinguerismo, ma dal suo abbandono definitivo.