Idealmente, la sinistra infila le mani nelle tasche dei contribuenti mediante la garrota fiscale, la destra lo fa con le privatizzazioni e la farsa del mercato libero che avvantaggia una nebulosa di aziendine che fingono di farsi la concorrenza mentre si spartiscono la torta. Idealmente accade questo, nella realtà si scambiano i ruoli di continuo. Così possiamo ammirare una sinistra che regala gioiosamente i monopoli naturali agli amici degli amici e liberalizza mercati che andrebbero regolarizzati, e una destra che, oltre a denazionalizzare, aumenta la revisione dell'auto.
Il libero mercato mette le mani nella nostre tasche? Proprio così. Privatizzare troppo e male si traduce in rincari e bollette pazze, ovvero tasse indirette. Non rimpiango i panettoni di Stato, sia chiaro, ma la competitività e la recisione di lacci e lacciuoli va applicata anzitutto ai tassinari, ai fornai, ai baristi, ai macellai, ai pasticceri, ai ristoratori, alle piccole e medie imprese, all'edilizia e a chi più ne ha più ne metta. L'energia, specie in una nazione sprovvista di risorse naturali, non può essere lasciata alla mercé di capitalisti senza capitali, filibustieri e pirati di Tortuga.
Il liberismo imposto coercitivamente dallo straniero, spesso e volentieri con l'ausilio di generose sovvenzioni pubbliche, non è un affare economico ma prettamente POLITICO. Politico non nella sua accezione di processo amministrativo, ma nell'accezione più nobile e complessa che riguarda le tattiche e le strategie atte a conseguire la supremazia sull'avversario. Cedere la rete Telecom a Kkr, una quota di Leonardo o delle Poste sono scelte POLITICHE (come decisioni politiche sono state la dismissione dell'industria pubblica e l'adesione alla moneta unica) che danno la misura della nostra sovranità azzerata e si configurano come una menomazione della sicurezza nazionale e del benessere collettivo. Privatizzare le aziende senza prima risanarle è al contempo un favore reso alla finanza speculativa aggiogata al carro dell'egemone e un crimine ai danni di lavoratori e consumatori.
Insomma, tutto è politica, anche l'economia. E osservando i dati fattuali, apprendiamo che il liberismo e lo statalismo così come vengono descritti nei poderosi tomi di macroeconomia o nelle articolesse dei professori bocconiani o keynesiani, semplicemente non esistono. Non esistono perché l'ultima parola spetta al Sovrano, che è colui che stabilisce lo stato d'eccezione e fora i gasdotti.
Senza sovranità, statalismo e liberismo sono solo concetti vuoti utili ad alimentare una eterna guerra delle parole combattuta da parolai. L'Italia ha svenduto – non messo all'asta, svenduto – quanto di buono avevano creato i cosiddetti carrozzoni e i pochi imprenditori di talento, che erano strateghi capaci di trascendere il freddo calcolo utilitaristico, ossia capaci di pensare POLITICAMENTE. Ora, dopo aver buttato via il bambino della Nuova Pignone con l'acqua sporca dei panettoni di Stato, il Paese arranca e segue la mortifera processione aperta dai pifferai del turismo, dello slow food, della pizza e del mandolino. Il liberismo raccomandato dai papers delle varie Ivy League e dalle riviste britanniche è un'arma di distruzione di massa.
Esso non mira a snellire la macchina burocratica e ottimizzare la produttività bensì a spolpare i redditi e a cannibalizzare le aziende pubbliche per meglio tenere al guinzaglio i vassalli dell'Anglosfera; e, naturalmente, a placare gli appetiti del grande casinò finanziario. Questo liberismo, che non è altro che la versione moderna del saccheggio dei popoli vinti, non sarebbe possibile senza la fattiva collaborazione di statisti cartonati e grand commis, e degli stessi poteri statali ormai esautorati.
Una sana e pragmatica economia mista, capace di liberalizzare e privatizzare (o di nazionalizzare e regolamentare) a seconda delle circostanze e delle necessità, è l'unico percorso sensato che ci rimane; il resto è impostura, populismo d'infimo rango e alto tradimento. La proprietà privata per me è sacra, così come sono sacri i beni immobili e i risparmi di tutti i cittadini, dal più facoltoso al più umile.
Il libero mercato mette le mani nella nostre tasche? Proprio così. Privatizzare troppo e male si traduce in rincari e bollette pazze, ovvero tasse indirette. Non rimpiango i panettoni di Stato, sia chiaro, ma la competitività e la recisione di lacci e lacciuoli va applicata anzitutto ai tassinari, ai fornai, ai baristi, ai macellai, ai pasticceri, ai ristoratori, alle piccole e medie imprese, all'edilizia e a chi più ne ha più ne metta. L'energia, specie in una nazione sprovvista di risorse naturali, non può essere lasciata alla mercé di capitalisti senza capitali, filibustieri e pirati di Tortuga.
Il liberismo imposto coercitivamente dallo straniero, spesso e volentieri con l'ausilio di generose sovvenzioni pubbliche, non è un affare economico ma prettamente POLITICO. Politico non nella sua accezione di processo amministrativo, ma nell'accezione più nobile e complessa che riguarda le tattiche e le strategie atte a conseguire la supremazia sull'avversario. Cedere la rete Telecom a Kkr, una quota di Leonardo o delle Poste sono scelte POLITICHE (come decisioni politiche sono state la dismissione dell'industria pubblica e l'adesione alla moneta unica) che danno la misura della nostra sovranità azzerata e si configurano come una menomazione della sicurezza nazionale e del benessere collettivo. Privatizzare le aziende senza prima risanarle è al contempo un favore reso alla finanza speculativa aggiogata al carro dell'egemone e un crimine ai danni di lavoratori e consumatori.
Insomma, tutto è politica, anche l'economia. E osservando i dati fattuali, apprendiamo che il liberismo e lo statalismo così come vengono descritti nei poderosi tomi di macroeconomia o nelle articolesse dei professori bocconiani o keynesiani, semplicemente non esistono. Non esistono perché l'ultima parola spetta al Sovrano, che è colui che stabilisce lo stato d'eccezione e fora i gasdotti.
Senza sovranità, statalismo e liberismo sono solo concetti vuoti utili ad alimentare una eterna guerra delle parole combattuta da parolai. L'Italia ha svenduto – non messo all'asta, svenduto – quanto di buono avevano creato i cosiddetti carrozzoni e i pochi imprenditori di talento, che erano strateghi capaci di trascendere il freddo calcolo utilitaristico, ossia capaci di pensare POLITICAMENTE. Ora, dopo aver buttato via il bambino della Nuova Pignone con l'acqua sporca dei panettoni di Stato, il Paese arranca e segue la mortifera processione aperta dai pifferai del turismo, dello slow food, della pizza e del mandolino. Il liberismo raccomandato dai papers delle varie Ivy League e dalle riviste britanniche è un'arma di distruzione di massa.
Esso non mira a snellire la macchina burocratica e ottimizzare la produttività bensì a spolpare i redditi e a cannibalizzare le aziende pubbliche per meglio tenere al guinzaglio i vassalli dell'Anglosfera; e, naturalmente, a placare gli appetiti del grande casinò finanziario. Questo liberismo, che non è altro che la versione moderna del saccheggio dei popoli vinti, non sarebbe possibile senza la fattiva collaborazione di statisti cartonati e grand commis, e degli stessi poteri statali ormai esautorati.
Una sana e pragmatica economia mista, capace di liberalizzare e privatizzare (o di nazionalizzare e regolamentare) a seconda delle circostanze e delle necessità, è l'unico percorso sensato che ci rimane; il resto è impostura, populismo d'infimo rango e alto tradimento. La proprietà privata per me è sacra, così come sono sacri i beni immobili e i risparmi di tutti i cittadini, dal più facoltoso al più umile.
E non solamente di una cerchia privilegiata di nababbi e bricconi.