Provo a rispondere alla domanda posta nel titolo avanzando un'ipotesi il più possibile razionale che diradi le nebbie dietrologiche e fornisca una base logica alla drôle de guerre condotta da Iran e satelliti e all'assurdo ginepraio di dichiarazioni, viltà e alleanze palesi e occulte. Cinesi, russi, iraniani e turchi (questi ultimi forse giocano in solitaria) sono davanti ad un bivio: o intervengono nella contesa tra islam e sionismo, e di conseguenza scatenano una devastante guerra su vasta scala che quasi certamente manderebbe in fumo la paziente tessitura diplomatica operata da Pechino, la quale è riuscita a ricucire le relazioni tra Riad e Teheran; oppure accettano i circostanziati blitz di Netanyahu, i massacri di civili e, infine, l'edificazione del Grande Israele. Nel primo caso russi, cinesi, iraniani e turchi perderebbero l'intera posta in gioco. Un conflitto allargato in Medio Oriente, che è ciò che Washington cerca spasmodicamente di concretizzare, romperebbe la precaria tregua venutasi a creare tra iraniani e sauditi. Se la parola dovesse passare alle armi, Giordania, Arabia e i vari emirati si schiererebbero dalla parte dell'Occidente; se invece la situazione dovesse rimanere “congelata”, gli sceicchi proseguirebbero l'avvicinamento ai BRICS.
Riad ha già fatto capire che non intende rinnovare l'accordo sul petroldollaro e di voler diversificare i propri fornitori di materiale bellico. La strada è spianata, ora si tratta di percorrerla. E per meglio incastrare i vari pezzi che compongono il composito puzzle levantino, occorrono pace e distensione. Al contrario, un grande conflitto regionale indurrebbe Bin Salman e Co. a buttarsi nuovamente tra le braccia dei vaccari. Mosca, Pechino e Teheran lo sanno e perciò ignorano tanto i messaggi minatori provenienti da Tel Aviv quanto le invocazioni di aiuto lanciate dai vari gruppi del cosiddetto “asse della resistenza”. Il rullare dei tamburi castrensi non susciterà alcun ripensamento in Putin e Xi, i quali hanno già stabilito di conservare il fragile ma prezioso equilibrio geopolitico fin qui raggiunto. Come si suol dire, meglio un uovo non propriamente fresco oggi, incarnato dal Grande Israele, che nonostante tutto lascia aperta la porta al patto di Abramo, che una gallina morta domani, guadagnata a prezzo di un confronto dall'esito incerto e infausto (l'atomica?). È un compromesso non facile da digerire, ne convengo, ma l'alternativa sarebbe letale, un autentico salto nel vuoto. Portare a casa il già citato equilibrio fragile ma prezioso permetterà di assistere, nel medio-lungo periodo, a sviluppi interessanti. Privati del loro asso nella manica, ossia la possibilità di scatenare le forze del caos nella regione tramite il golem sionista, gli americani molto probabilmente verranno gradualmente estromessi dall'area. Tale evento potrebbe chiudere la lunga stagione del petroldollaro e compromettere lo status di valuta di riserva mondiale della moneta statunitense. Si tratta di agire di rimessa concedendo spazio a figure, come il successore di Raisi, il moderato Pezeshkian, capaci di attenuare il fervore delle fazioni radicali e di rassicurare l'Occidente. Pezeshkian proseguirà nell'integrazione eurasiatica ma al contempo cercherà di aggiornare la grafica della Persia, offrendo agli interlocutori stranieri un'immagine più moderna e meno vincolata ai cliché dell'oscurantismo clericale khomeinista. Netanyahu vuole il Grande Israele?
E noi glielo daremo. Questo piano espansionista, che promette di consegnare la Terra Promessa al popolo (sic!) ebraico, consiste nell'annessione di Siria, Giordania e Libano, della parte settentrionale dell'Arabia, di generose porzioni di Egitto e Iraq e di un piccolo scampolo di Turchia meridionale. Il Grande Israele non è solamente il sogno proibito della teocrazia davidica, è anche il compimento dell'attesa messianica del “sionismo-cristiano”, conosciuto col nome di British Israelism. In un’intervista rilasciata nel 1952 il politico conservatore Sir Oliver Locker-Sampson confidò che lui, Winston Churchill, Lloyd George, Balfour (così come buona parte dei politici anglotalmudici di oggi) erano stati allevati come protestanti integrali, credenti nell’avvento di un nuovo Salvatore quando la Palestina tornerà agli Ebrei. È pressoché impossibile che l'espansione raggiunga le dimensioni previste dal progetto originale senza provocare un putiferio di proporzioni gigantesche, ma è altrettanto impossibile che Israele rinunci a cogliere la ghiotta occasione di raddoppiare o forse addirittura triplicare il proprio spazio vitale. Tuttavia le domande e le incognite abbondano. Innanzitutto, si tratta di uno scambio alla pari suggellato da una qualche forma di accordo segreto con lo Stato di Israele? Oppure Russia, Cina, Iran e Turchia hanno scommesso – una mossa invero azzardata – che l'appetito dei sionisti, stimolato dal sostegno morale e materiale dei vaccari e dei loro famuli, si placherà prima di stillare la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso?
E poi non sottovalutiamo il fattore logoramento: Israele, pur foraggiato puntualmente, riuscirà a serbare le necessarie energie umane, materiali e mentali senza debilitarsi troppo e implodere? E negli attimi che precedono il collasso preferirà arrendersi o attivare l'Opzione Sansone, vale a dire colpire il nemico con testate nucleari? Israele arresterà in tempo la sua corsa o andrà avanti fino ad accendere la scintilla della catastrofe? Io temo che per il sionismo sia troppo tardi: anche volendo, non può sottrarsi al ruolo di golem degli USA. La corsa mortale intrapresa da Netanyahu e soci prima o poi vanificherà gli sforzi dei pompieri e appiccherà il grande incendio. Staremo a vedere.

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