In confidenza, vi confesso che non ho mai dedicato particolari attenzioni al genere fantasy né al suo autore di punta J. R. R. Tolkien. La riduzione cinematografica de Il signore degli anelli mi è parsa in linea con i blockbuster hollywoodiani, vale a dire tecnicamente ineccepibile, mirabolante e a tratti fascinosa, con una validissima truppa di ascari britannici nel cast, ma nel complesso una lungagnata stucchevole, povera di qualità trascendentali sul piano dell'originalità e dei contenuti. A chi obietta che le opere dello scrittore britannico costituiscono una formidabile esperienza formativa in grado di inculcare valori nobili ed eterni e di riprodurre autenticamente sentimenti e debolezze umane, rispondo che anche le modeste pagine di un Salgari o di un Conrad echeggiano vicende realmente accadute e grondano di valori come il coraggio, l'abnegazione, l'amicizia, l'amore per la libertà e il loro rovescio. D'altronde è inevitabile, essendo l'arte mimesi, imitazione, calco, specchio che riflette e distorce i fatti umani. Eppure Il Signore degli Anelli mi ha sempre dato l'impressione di una pedante fantasmagoria fine a sé stessa, un polpettone minuziosamente pomposo intinto nella camomilla, corredato da una mole gigantesca di note orografiche e antropologiche, gonfio di sovrastrutture antroposofiche. Vi svelo un segreto: anch'io sono stato un demiurgo, un infimo demiurgo che si sbizzarriva a stravolgere la realtà inventando di sana pianta nomi ed eventi. Da piccolo avevo ideato la mia personalissima Arda. Nel mio universo primeggiava la superpotenza chiamata Helchamentia (sic), governata da Helchaman, il mio diletto panda di peluche. Helchaman era il capo indiscusso dell'esercito; inoltre dirigeva la più prestigiosa squadra di calcio della nazione, l'Associazione Sportiva Helchamentia, reminiscenza del primo Milan berlusconiano. La propensione a generare utopie (letteralmente “luogo che non esiste”), e la tentazione di rifugiarvisi, è un classico vezzo infantile, e come tale regressivo, foriero di lusinghe escapistiche e di nostalgie placentari. Chi si diverte a forgiare un regno immaginario, l'isola che non c'è fatta di etere, carta e inchiostro, si sente un po' come Dio. Invece, a mio modesto avviso, è soltanto un pirla perché ciò che è concreto e tangibile torna prepotentemente a galla e si impone smascherando prodotti onirici e travagliati parti della fantasia. Io ho trascorso la mia prima fanciullezza scartabellando quello che avevo sottomano: libri di storia illustrati, Il giornalino di Giamburrasca, Jack London, l'arguto umorista e paroliere Antonio Amurri, Dickens e Hector Malot, l'autore di Senza famiglia. Grazie a loro ho sperimentato medianicamente (la lettura a volte è un'esperienza medianica) le traversie dell'infanzia negata, le vicissitudini indotte dalla miseria ottocentesca e dal rigido codice delle convenzioni sociali, l'autocorrezione e il riscatto individuale in un contesto ostile, gli splendori e le miserie della vita familiare presa con filosofico distacco e una robusta dose di ironia amara. Ebbene sì, lo ammetto, sono un piccoloborghese intriso fino al midollo di realismo borghese. Se i sotterfugi del realismo magico sudamericano mi causano un leggero frastornamento seguito da un repentino disinganno, i luoghi incantati e i guerrieri magniloquenti scopiazzati dalla mitologia celtica o desublimati dalla religione li sento estranei e lontani. Al limite li reputo roba buona per imbastirci videogiochi tipo Final Fantasy. La letteratura, per come la intendo io, deve penetrare nell'animo umano, deve stabilire un contatto con l'eterno, aprire una finestra sulle società del passato senza la pretesa ridicola di trasfigurarle, scimmiottarle e riedificarle da zero. La letteratura, per come la conosco io, è la commedia umana e dei caratteri di Balzac che fa l'autopsia ai rapporti sociali della Francia postnapoleonica, o Stendhal e Flaubert che ne raccolgono e catalogano entomologicamente furori e abbagli; è Zola che disseziona il Secondo Impero; è Proust (mio fratello, che non ha mai frequentato le biblioteche, figurarsi la Recherche, rivisse l'esperienza evocativa della madeleine assaggiando una pera: storie di vita vissuta, altro che ordalie e creaturine bavose) che alterna il grandangolo al microscopio per monitorare gli anni verdi della Terza Repubblica. È tutto ciò che segnala la stupefacente ambivalenza dell'essere umano, in parte bestia e in parte angelo, metà titano e metà lombrico, dove il Bene e il Male si compenetrano. Il Signore degli Anelli, malgrado l'erudita fertilità mitopoietica del suo padre padrone e il turgore filologico che traspare da ogni pagina, è discreta narrativa per ragazzi che strizza l'occhio all'adulto scosso da ricorrenti crisi tardoadolescenziali. Per quale motivo dovrei esporre la mia mente agli assalti di gnomi riccioluti sessualmente ambigui ed elfi alle prese con anelli del Potere, tesori e consimile paccottiglia sottowagneriana? Ludovico Ariosto è dialetticamente meno prevedibile di Tolkien, maggiormente dotato di nuances psicologiche, fazioso senza però peccare di dualismo intransigente (basti pensare al saraceno Ruggiero che ama la cristiana Bradamante).
E, passando al cinema, persino il ciclo puerile e stravagante per eccellenza, Guerre stellari, appare più sorprendente, melodrammatico (Luke Skywalker che scopre di essere il figlio di Dart Fener è puro romanzo d'appendice) e gradevole di padron Frodo e compagnia, ricalcati sugli esangui esemplari della gentry. I ragazzotti del Fronte della Gioventù hanno perso il ben dell'intelletto dietro sta bischerata, celebrandone il presunto anticomunismo e il sostrato identitarista, frutto di una esposizione del testo a dir poco accomodante e sbrigativa.
Al colpo di fulmine seguirono i Campi Hobbit (curiosamente coevi al centro culturale Macondo, il breve sequel di Lotta Continua), con annessi quei rituali paganeggianti che Tolkien, da buon cattolico, avrebbe biasimato. Ma che senso ha diluire le passioni politiche in un gioco di ruolo? Se sei mussoliniano e ti lasci affatturare dalla cantafera di un accademico britannico fieramente antifascista, significa che nella tua testa regna una gran confusione.
E chi è confuso rischia di ritrovarsi a Leopoli, dove si è riunito il sinedrio del meglio della stoltezza nazionalsocialista europea che, in odio alla Mordor russa, si è fatta paladina del business di BlackRock. Come è capitato a CasaPound (povero Ezra, finito nelle grinfie dei servi sciocchi dell'usura internazionale!). Putin e Xi non saranno alternative esaltanti, ne convengo, ma nella vita si può anche ragionare da uomini liberi, o sforzarsi di essere tali.
Capitolo manicheismo. Mi scompiscio dalle risate ogniqualvolta ascolto i difensori d'ufficio ripetere: Zei suberfigiale... Dolghien non era manigheo (“Sei superficiale, Tolkien non era manicheo”).
“Prendi Saruman, il Saggio a capo del Bianco Consiglio, che in un secondo momento comincia ad anelare l’Anello di Sauron per esercitare il proprio potere.” E dov'è sarebbe la mezzatinta? Siamo ancora al buon Faust che si trasforma in cattivo per sondare l'ebbrezza dell'autorità assoluta. Pietà, basta! “Concordo – riattacca imperterrito l'avvocato d'ufficio – ma parliamo della doppia personalità di Sméagol-Gollum: da un lato abbiamo il resipiscente Sméagol; dall’altro abbiamo Gollum, avido ed egoista.” Non so voi, ma a me sti spiegoni confermano la natura eminentemente manichea dei libri di Tolkien, una sag(r)a del dualismo più crasso.
De gustibus... Il Signore degli Anelli insegnerà pure che la Luce e la Tenebra albergano in noi, ma non rinuncia a separarle con nettezza, a tagliarle col coltello. Non è Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde di Stevenson, dove il medesimo individuo è di volta in volta un mite cavaliere bianco della medicina e un maniaco assassino. Insomma, la diatriba Male vs Bene e buoni vs cattivi trascura del tutto non la Terra di Mezzo bensì la terra di nessuno, la zona grigia ove si sono addentrati solamente pochi spiriti eletti, come i grandi autori russi. Ricapitolando: io non voglio essere un hobbit scalzo né uno stregone munito di bisaccia e vincastro.
Il dirizzone per il fantasy (spopola ovunque, e a destra viene abilmente camuffato da "patriottismo europeo") rappresenta l'ultima metamorfosi dell'italiano che si vergogna di essere tale perché, da vero colonizzato con l'anello (sì, alludo) al naso, considera monca o inadeguata la propria identità, e perciò predilige attingere eroi e miti da altre nazioni e culture. Sarò stupido e insipiente, ma se dipendesse da me potremmo buttare nel cassonetto dei rifiuti Tolkien, i suoi tediosissimi nani da giardino e l'intero genere a cui appartengono.

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Io ho amato sia la saga di Tolkien, sia i francesi che citi (ma eccettuo Stendhal e il suo insopportabile romanticismo, e Zola, rispettabile ma pallosissimo engagé). Tolkien, nonostante il culto (e il marketing) che lo hanno diffuso ai quattro angoli del globo, non so se riuscirà a passare, nei secoli, per un classico. Balzac, invece, sì, e lo è già da un pezzo.
Invece sono assolutamente d'accordo con la confusione che regna nelle teste dei sedicenti "fascisti". Gente che inneggia a Mussolini ma sta nel partito della Meloni. Roba che solo un crollo psicotico potrebbe spiegare con una qualche logica. Ma anche questo è nell'ordine delle cose: la malattia mentale è la cifra interpretativa della nostra società.
 

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Caligorante
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