Fanno discutere le recenti esternazioni dell'ex CT azzurro Arrigo Sacchi. “La differenza tra la mia Italia del 1994 e quella di Lippi del 2006 che ha vinto il titolo è in un rigore: Roberto Baggio lo sbaglia, Fabio Grosso lo segna“. No, signor Sacchi, la pianti di fare il piangina e l'ipocrita.
Ogni volta ripete la solfa del “oltre a vinzere (vincere) conta entusiasmare e convinzere (convincere) attraverso il bel zoco (gioco)”, però poi torna immancabilmente sul luogo del delitto, i calci di rigore di Pasadena. Sacchi, comprensibilmente, non ha mai digerito il verdetto di quella finale maledetta, e nel corso del tempo ha cercato di esorcizzare lo smacco inventandosi pretesti nuovi ed esilaranti, come il dato statistico che vuole le nazionali europee perdenti nei mondiali organizzati nel Nuovo Continente.
La circostanza, secondo lui, nobiliterebbe il secondo posto conquistato a USA 94.
A parte che non è vero, il tabù è stato sfatato nel 2014 dal trionfo della Germania sui maestri del calcio sudamericano, i padroni di casa del Brasile, umiliato 7 a 1 in semifinale, e l'Argentina di Messi. Le ragioni di quella sconfitta al fotofinish non vanno ricercate esclusivamente nella traversa di Baggio, ma anche nell'integralismo che rende il signor Sacchi inadatto a rivestire il ruolo di Commissario Tecnico. La coppa ce la tolsero dalle mani le sue valutazioni infelici unite alle idiosincrasie personali che lasciarono a casa gente come Vialli e Mancini (artefici del trionfale Europeo del 2020, pur senza avere a disposizione un materiale umano eccelso), l'impiego bizzarro e fantasioso di un bomber come Beppe Signori, in buona sostanza sottoutilizzato. Quella compagine azzurra non riuscì mai ad esprimere un gioco brillante, e tirò a campare affidandosi agli sprazzi di alta classe del Divin Codino nonché alla collaudata solidità del reparto arretrato.
Sacchi se ne faccia una ragione: la “sua nazionale”, pur penalizzata da temperature infami e dalla scarogna, dette prova di una sconfortante provvisorietà, non convinse né entusiasmo mai appieno. E di conseguenza, secondo i rigidi procedimenti logici del profeta di Fusignano, non meritò di vincere – e di fatto non vinse – alcunché. Il trionfo del 2006 non fu determinato dal tiro dal dischetto di Fabio Grosso, come opina grossolanamente Sacchi. Il viareggino Lippi, mettendo in pratica l'umiltà che Sacchi predica a parole, rinunciò a circonfondersi dell'aura del profeta scalmanato, evitò di stravolgere moduli e caratteristiche dei ventidue atleti per limitarsi a sfruttarne al meglio le qualità. Anche quella del 2006 era una generazione formidabile, formata perlopiù da ragazzi nati negli anni Settanta, votata al tradizionale catenaccio piuttosto che alle fantasmagorie di un romagnolo con la bicicletta sottomano e l'Unità sottobraccio.
E infatti quell'Italia granitica subì zero gol su azione: autorete con gli Stati Uniti e rigore di Zidane nella finalissima di Berlino. Tutto qui. Sacchi, si rassegni. E si rassegni pure sullo scudetto 1989-90, a proposito del quale continua a spendere parole astiose e sputacchiare veleno (nella migliore tradizione dei comunisti cooptati da Arcore), meritatamente perso dal Milan, e quindi meritatamente vinto dal Napoli.
Sacchi insegna che l'insieme e il collettivo prevalgono sempre sull'individuo e il dettaglio.
Bene, esaminando l'insieme di quel campionato, possiamo ragionevolmente affermare che l'esito di quel torneo non dipese dalla monetina di Bergamo scagliata all'indirizzo di Alemao bensì dalle troppe sconfitte rossonere (ben 7, di cui tre contro le retrocesse Ascoli, Hellas Verona e Cremonese), e dall'assenza pesante di Ruud Gullit. Non si perde un campionato per una vittoria a tavolino dell'avversario, così come non si perde un mondiale per un tiro dal dischetto. Questo è quanto.

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Caligorante
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