I comici usano il cinema come un veicolo di lusso, una fuoriserie. Lo riconosceva senza tanti fronzoli lo stesso Massimo Troisi, prematuramente scomparso trent'anni fa: preferisco la macchina da presa al palcoscenico perché è più comoda, più remunerativa e in una giornata mi permette di raggiungere il pubblico di cento città diverse evitando una lunga e faticosa tournée. Il comico, grande o piccolo che sia, può tranquillamente fare a meno dalla settima arte; tuttavia accetta di usare la “macchina cinema” - e di farsi usare da essa - per molteplici ragioni legate alla praticità e alla convenienza del mezzo. Troisi ha avuto senz'altro alcuni meriti: ha dispensato una comicità innovativa e complessa senza recidere le solide radici che lo legavano alla tradizione; non ha mai incoraggiato la risata di pancia o sfruttato la frase ad effetto e la parolaccia gratuita. Detto questo, secondo me non è stato né un grande regista né un grande attore (anche se ha dato prova di bravura nei tre-quattro film diretti da altri) bensì una maschera che, improvvisatasi regista, ha usato sé stessa per rimanere stoicamente sé stessa. Non ci resta che piangere è, per quanto riguarda lo specifico cinematografico, un non film: un'ideuzza buona a conferire una base e un filo logico a una serie di sketch divertenti con più di una battuta da antologia. Una tramina del genere Benigni e Troisi potevano tranquillamente svilupparla in un varietà televisivo da mandare in onda l'ultimo dell'anno, oppure in piazza. Ma il cinema puro, totale, il culto dell'immagine icastica e del narrare mediante le immagini, è altro. È Blade Runner, è Terminator, è L'Avventura di Antonioni, è L'Atalante di Jean Vigo, è l'intera filmografia di Sergio Leone, è - perché no? - Dario Argento (che pur essendo dichiaratamente di sinistra, nei suoi film non ci ha mai ammorbato con le paternali politiche) e la sfilza di artigiani delle produzioni a basso costo, è Lo chiamavano Jeeg Robot d'acciaio, è tutto quello che non puoi riprodurre su di un palcoscenico teatrale o televisivo. Torniamo a bomba. Il comico rimane tale a prescindere dal medium utilizzato. Un comico bravo diverte e/o fa riflettere ovunque: in televisione, a teatro, al cinema, persino affacciato al balcone: questa è la sua qualità precipua, ma anche il suo limite maggiore, difficilmente superabile. Un comico intelligente e abile, come Checco Zalone, attraverso il cinema può accendere riflessioni e portare alla ribalta argomenti sociologicamente pregnanti (sbertucciare la “fissa del posto fisso”, scusate il gioco di parole), ma potrebbe farlo benissimo sul piccolo schermo, in una fiction, in una scenetta o in un monologo della durata di un quarto d'ora, senza spendere milioni di euro e mobilitare sceneggiatori, troupe e cast. La vera sfida che attende il comico è quella di, cinematograficamente parlando, accedere all'età della ragione, di uscire dalla comfort zone del facile cliché ridanciano, di togliersi il cerone da clown e indossare abiti borghesi, di aderire a sentimenti e assumere volti umani. Nessuno ultimamente ha raccolto sul serio il guanto di questa sfida tremenda che può arrivare a destabilizzare l'equilibrio interiore dell'uomo-giullare, a comprometterne la carriera. Anzi no, uno ci ha provato. Attraverso lo sfortunato OcchioPinocchio, Francesco Nuti – caso unico nei magnifici quattro emersi negli anni 70-80 (Troisi, Benigni, Verdone e, appunto, Nuti) – smise veramente i panni del comico brillante confinato nelle commedie sentimentali e divenne attore e autore cinematografico a pieno titolo, raccontando una storia ad alta densità drammatica, mitica e al contempo realistica, con pochi dialoghi e un senso del racconto maturo, ora lento ora frenetico, forse eccessivamente hollywoodiana per un film che, tra le altre cose, si proponeva di far vedere quant'è brutta l'America. E Nuti si sottopose all'ordalia giocandosi tutto. E perse tutto, poiché la sofferta vittoria artistica costò troppo (almeno per gli standard nostrani), incassò meno del previsto e coincise con il suo definitivo declino commerciale, professionale e umano. Benigni, una volta trovata la scorciatoia, non si è spinto oltre: Johnny Stecchino, La vita è bella, il Mostro, la Tigre e la neve sono opere accomunate dalla struttura collaudata, dalle premesse e dalle conclusioni ruffiane e ottimistiche: un bonaccione dal cuore d'oro impelagato in una storia più grande e tragica di lui, sia essa la mafia, il fenomeno degli assassini seriali, l'olocausto o la guerra in Iraq. Verdone è un altro che ha trovato la sua dimensione ideale nel sotto-sordismo malinconico e nella tentazione ricorrente per le caricature, i calchi umani, le figurine sopra le righe prese di peso dalla realtà, anche se qualche cosa di più pungente l'ha realizzata (Compagni di scuola). Pieraccioni idem, si ostina a recitare la parte della vedova di Nuti. Troisi ha incarnato personaggi inetti, inetti per scelta e mancanza di cazzimma, bambinoni (in)dolenti, eterni ragazzi che non vogliono crescere, gelosi della propria innocenza. Anche il Camillo di Le vie del signore sono finite, malgrado la malattia psicosomatica, le manganellate e il carcere che alla fine scuotono dal torpore il Pulcinella senza maschera, inducendolo ad assumersi le responsabilità proprie delle persone adulte, appartiene al piccolo mondo troisiano, alla Commedia dell'Arte. Anche il Postino che bazzica il vate comunista Neruda rientra in questa categoria: la Storia e i personaggi storici, nelle vicende di quei film, fanno da fondale scenico, da tappezzeria, da spalla. Al centro dell'attenzione, bene o male, ritroviamo il solito mesto pagliaccio, il Pulcinella travestito da essere umano. Il cinema italiano è stato anche una galleria di maschere sempre uguali a sé stesse, marionette di successo malamente umanizzate, burattini incatenati alla parola (in Italia non abbiamo avuto un Peter Sellers o un Jacques Tati). E ciò vale per Totò, spesso sottovalutato e talvolta sprecato, per Villaggio, per Franco e Ciccio, per Celentano e così via. I cinque colonnelli sono stati molto più cinematografici dei comici puri, anche perché dei cinque soltanto Tognazzi era un comico puro, ma parecchio duttile e con una vena grottesca insospettata, tirata fuori da Salce e Ferreri e affinata negli anni.