L'industriale di Giuliano Montaldo
La fabbrica di Nicola (Pierfrancesco Favino) naviga in brutte acque. Ciononostante lui sogna di riconvertirla e di inserirsi nel ramo delle energie rinnovabili producendo pannelli fotovoltaici. Per farlo ha bisogno di liquidità. Una banca è disposta a finanziarlo, a patto che lui rinunci alla quota di maggioranza. Nicola traccheggia, rassicura le maestranze che ogni mese devono pagare il mutuo, consulta possibili acquirenti russi (“non sono più comunisti”) e tedeschi. A un certo punto, per ammorbidire le condizioni onerose poste dalla banca, Nicola organizza una videoconferenza in cui finge di voler cedere la fabbrica a un misterioso gruppo del Sol Levante, e spaccia per emissari giapponesi i camerieri del suo ristorante asiatico di fiducia. La trovata, oltre che spiritosa, si rivela vincente. Dopo la prima parte confesso di aver esclamato: oh, finalmente un film realizzato da gente di sinistra che, pur dentro il recinto del populismo rosato, evita di presentarci una figura caricaturizzata dell'uomo di impresa. Date le premesse, mi aspettavo un drammone dolente ma onesto, importantissimo se si considera il periodo storico in cui è uscito il film (2011) e le vicissitudini passate e presenti che travagliano capitale e lavoro. Erano anni in cui l'industria cominciava a patire le conseguenze della crisi del 2008, anni in cui il ceto produttivo veniva falcidiato da una triste ondata di suicidi. Insomma, la trama lasciava ben sperare. Macché! La vicenda ben presto prende una piega storta e gli autori ci appioppano il solito triangolo amoroso (ma senza corna) vecchio come il cucco. Le buone intenzioni si dileguano e si scivola dritti nello stagno limaccioso dei luoghi comuni più melensi, cari all'iconografia piddina. Laura (Carolina Crescentini, con i suoi occhi acquosi), la moglie di Nicola, sentendosi trascurata, frequenta platonicamente Gabriel, un romeno dai modi garbati e galanti che lavora in un autolavaggio. Nicola, malgrado le rogne professionali, non perde di vista gli affari di cuore. Una volta fiutata la tresca, inizia a pedinare Laura e l'amante: li osserva come un gatto che scruta il vaso dei pesci. Poi prova a corrompere in maniera meschina il rivale forestiero: ti regalo 40 mila euro se ti togli dai piedi. Gabriel, ferito nell'orgoglio, rifiuta. Segue colluttazione. Gabriel cade, batte la testa e muore. Nicola si sbarazza del cadavere scaricandolo nel fiume. Nel finale, proprio durante la festa gremita di bella gente perbenista e futilona che segna la rinascita della fabbrichetta, Laura gli rinfaccia l'omicidio e svela che è stata lei - e non il trucco dei giapponesi - a convincere la banca, coinvolgendo la madre snob e benestante nel progetto. Così l'industriale eroe e “innovativo”, il gigante morale che nella prima mezz'ora mandava al diavolo i cravattari della grande finanza (che caccia fuori i soldi solo per il calcio e i partiti) e malediceva la politica forchettona, svela la sua natura di omiciattolo inetto e meschino.
Un film a due facce, una storia che parte bene per poi andare a farsi benedire. Per i cinematografari di sinistra (ultima opera del veterano Montaldo, sceneggiato da Andrea Purgatori) l'imprenditore italiano non sarà più l'antico padrone delle ferriere che inguaiava le operaie o le caterinette, o lo stronzo col Ferrari dei Vanzina, ma rimane pur sempre l'eterno maschio frustrato che attiva il cervello rettiliano, marca il territorio e liquida brutalmente la concorrenza. La figura muliebre è, come da copione, dolcemente complicata, incompresa ma nel complesso generosa e intraprendente. Gli stranieri, al solito, sono tutti giovani, bellocci e bravi. E poetici. Che barba, che noia!

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