Accadeva quarantatré anni fa.
Fu l'avvio di una lunga serie di cessioni di sovranità che condizionò negativamente il futuro del nostro paese e la sua adesione Maastricht. L’elevato debito, rispetto ai parametri imposti dal Trattato istitutivo della UE, non ci permise di avere il giusto potere contrattuale che invece una potenza industriale come l'Italia avrebbe potuto ottenere. In verità non fu un divorzio, ma un vero e proprio matrimonio d’interesse, e la risposta consenziente, praticamente già concordata, di Ciampi del 6 marzo 1981 alla lettera di Andreatta del 12 febbraio precedente, ne è la conferma. L’accordo ridefiniva anche i metodi tecnici con cui il Tesoro si sarebbe finanziato sui mercati internazionali, introducendo il nuovo meccanismo delle aste competitive. Questo sistema avrebbe consentito agli operatori, con marginali quantitativi sapientemente non acquistati, di ottenere tassi altissimi su tutto l’ammontare dell’emissione. La funzione di prestatrice d’ultima istanza della Banca d'Italia, ovvero il compito di acquistare i buoni del tesoro che non si era riusciti a piazzare sul mercato, era venuta meno e l’operatività fu relegata al solo mercato secondario, dove notoriamente è ben più difficile e arduo controllare la dinamica dei tassi d’interesse. Di fatto inizia nel luglio del 1981, data esecutiva dell’accordo, il trasferimento dal potere dello Stato di creare base monetaria per soddisfare il fabbisogno pubblico al mercato dei capitali, di cui lo Stato italiano è ostaggio. Fu il primo tangibile passo verso l’abbandono di uno dei principi basilari su cui si fonda uno Stato Sovrano: il potere di monetizzare almeno parte del debito e determinare senza condizionamenti le proprie politiche economiche, fiscali e monetarie, prerogativa rivendicata da tutte le Banche Centrali emittenti mondiali. Senza sovranità monetaria la politica economica può solo decidere se, come e quanto tassare i contribuenti e tagliare la spesa pubblica, danneggiando gradualmente imprese e cittadini, capitale e lavoro. Come è possibile, ragionevolmente, gestire in modo ottimale il proprio debito pubblico se si è privati di uno degli strumenti indispensabili? Il summenzionato trasferimento avvenne di soppiatto, senza interpellare i cittadini. L’accordo scaturì da una vera e propria “congiura” che vide protagonisti il ministro dell'Economia dei governi Forlani-Spadolini, Beniamino Andreatta (Dc), e il governatore della Banca d'Italia Carlo Azeglio Ciampi (Partito d'Azione, poi “Indipendente”), estraniando i classici canali della dialettica democratica. Secondo alcuni, la decisione del divorzio fu una scelta ideologica e non tecnica: bisognava iniziare a dimostrare di essere all'altezza delle “regole” europee, dove tutto doveva essere lasciato alla determinazione dei mercati nella convinzione-presunzione che solo i mercati, senza la presenza attiva dello Stato, avrebbero autoregolato in modo ottimale il sistema finanziario. Questa versione, gettonatissima nella galassia cosiddetta “antisistema”, a mio modesto avviso misinterpreta i reali obiettivi, che erano Politici: si voleva azzoppare l'Italia, non sottoporla al vaglio di una determinata formula economica.
12 febbraio 1981. In Italia viene portato a termine il divorzio tra Ministero del tesoro e Banca d'Italia. A distanza di 43 anni da quella decisione, è possibile fare un’analisi obiettiva tirando le somme degli effetti che ebbe sull’incremento dello stock di debito pubblico, che raddoppiò nel giro di appena 14 anni principalmente per l’aumento vertiginoso dei tassi d’interesse, e che condannò i cittadini e il sistema delle imprese a un sempre maggior drenaggio fiscale per sopperire alla mancanza della funzione di prestatore dello Stato.
Fu l'avvio di una lunga serie di cessioni di sovranità che condizionò negativamente il futuro del nostro paese e la sua adesione Maastricht. L’elevato debito, rispetto ai parametri imposti dal Trattato istitutivo della UE, non ci permise di avere il giusto potere contrattuale che invece una potenza industriale come l'Italia avrebbe potuto ottenere. In verità non fu un divorzio, ma un vero e proprio matrimonio d’interesse, e la risposta consenziente, praticamente già concordata, di Ciampi del 6 marzo 1981 alla lettera di Andreatta del 12 febbraio precedente, ne è la conferma. L’accordo ridefiniva anche i metodi tecnici con cui il Tesoro si sarebbe finanziato sui mercati internazionali, introducendo il nuovo meccanismo delle aste competitive. Questo sistema avrebbe consentito agli operatori, con marginali quantitativi sapientemente non acquistati, di ottenere tassi altissimi su tutto l’ammontare dell’emissione. La funzione di prestatrice d’ultima istanza della Banca d'Italia, ovvero il compito di acquistare i buoni del tesoro che non si era riusciti a piazzare sul mercato, era venuta meno e l’operatività fu relegata al solo mercato secondario, dove notoriamente è ben più difficile e arduo controllare la dinamica dei tassi d’interesse. Di fatto inizia nel luglio del 1981, data esecutiva dell’accordo, il trasferimento dal potere dello Stato di creare base monetaria per soddisfare il fabbisogno pubblico al mercato dei capitali, di cui lo Stato italiano è ostaggio. Fu il primo tangibile passo verso l’abbandono di uno dei principi basilari su cui si fonda uno Stato Sovrano: il potere di monetizzare almeno parte del debito e determinare senza condizionamenti le proprie politiche economiche, fiscali e monetarie, prerogativa rivendicata da tutte le Banche Centrali emittenti mondiali. Senza sovranità monetaria la politica economica può solo decidere se, come e quanto tassare i contribuenti e tagliare la spesa pubblica, danneggiando gradualmente imprese e cittadini, capitale e lavoro. Come è possibile, ragionevolmente, gestire in modo ottimale il proprio debito pubblico se si è privati di uno degli strumenti indispensabili? Il summenzionato trasferimento avvenne di soppiatto, senza interpellare i cittadini. L’accordo scaturì da una vera e propria “congiura” che vide protagonisti il ministro dell'Economia dei governi Forlani-Spadolini, Beniamino Andreatta (Dc), e il governatore della Banca d'Italia Carlo Azeglio Ciampi (Partito d'Azione, poi “Indipendente”), estraniando i classici canali della dialettica democratica. Secondo alcuni, la decisione del divorzio fu una scelta ideologica e non tecnica: bisognava iniziare a dimostrare di essere all'altezza delle “regole” europee, dove tutto doveva essere lasciato alla determinazione dei mercati nella convinzione-presunzione che solo i mercati, senza la presenza attiva dello Stato, avrebbero autoregolato in modo ottimale il sistema finanziario. Questa versione, gettonatissima nella galassia cosiddetta “antisistema”, a mio modesto avviso misinterpreta i reali obiettivi, che erano Politici: si voleva azzoppare l'Italia, non sottoporla al vaglio di una determinata formula economica.
Il Potere se ne frega altamente dei dettami liberisti e del mercato quando proibisce, o tenta di proibire, l'acquisto di materie prime scontate dai “nemici dell'Occidente”. Poi, certo, i mercati di capitali guadagnano da queste scelte dissennate, ma a muovere i fili di certe dinamiche analoghe al divorzio del 1981 non è solo il tornaconto pecuniario puro e semplice. Un paese indebitato e bisognoso di risorse finanziarie si trasforma in un cliente, una semplice pedina che può essere sacrificata (gettata nel caos sociale o costretta a compiere scelte autolesioniste) in qualsiasi momento. I signori del denaro di Londra – e poi di Washington – lo hanno fatto con l'Egitto di Ismail Pascià nel XIX secolo e con la Iugoslavia e i paesi del patto di Varsavia nel XX secolo, tanto per fare alcuni esempi.