Con Giorgio Napolitano se ne va l’ultimo piciista storico, l’unico dirigente comunista a cui fu accordato il privilegio di tenere un ciclo di conferenze (lectures) presso prestigiosi atenei nordamericani. Faceva parte della fronda anglofila, devotissima alla massoneria. Leggenda vuole che sia stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla loggia “Freedom” di New York, che ha sede al Rockfeller Center e annovera molti italiani. Scrive Ferruccio Pinotti, riportando le testimonianza di una fonte coperta: Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all’esperienza massonica partenopea, che si inquadra a sua volta nell’alveo della massoneria francese e che ha profonde e antiche radici. Tutto il suo entourage al Quirinale era massonico: controlli le biografie dei suoi consiglieri, dove si sono formati, quali incarichi diplomatici hanno rivestito, il suo rapporto forte con figure come Arrigo Levi. Anche il papà, Giovanni Napolitano, maneggiò la squadra e il compasso, per non parlare di Giorgio Amendola, dirigente del Pci, padre putativo e mentore del nostro. Una fonte sostiene che Putin, agente del Kgb, avrebbe consegnato a Berlusconi documenti compromettenti sul conto di Napolitano. Carte inerenti i rapporti intrattenuti con gli americani come ministro degli Esteri di Botteghe Oscure, dato che si è occupato prevalentemente di Europa e Stati Uniti, non di Urss né di Asia.
O forse, come sostenuto dall’ex 007 Francesco Pazienza, Napolitano era una sorta di doppiogiochista. Di sicuro Re Giorgio, memoria vivente del Partito, aveva contezza della valuta pregiata sovietica travasata nelle regioni rosse attraverso circuiti tutt’altro che limpidi. Il procuratore di Mosca, quel Valentin Stepankov che nella primavera del 1992 cercò di abboccarsi con Giovanni Falcone, si chiedeva: chi riciclava i dollari trasformandoli in lire? La mafia. Fu inoltre uno dei pochi alti papaveri a schierarsi apertamente a favore della repressione dei moti ungheresi del 1956, in ossequio al bipolarismo sancito a Yalta. Al pari di Giorgio Bocca, Pietro Ingrao e tanti altri, da giovanissimo aderì al fascismo.
Sono note la sua appartenenza alla Gioventù Universitaria Fascista e alcune imbarazzanti sortite adolescenziali. La padronanza della lingua inglese gli permise di lavorare alla Croce rossa americana di Capri, dove la famiglia possedeva una casa. Quando Berlinguer nel 1972 venne indicato come successore di Luigi Longo, malato e già in rotta di collisione col PCUS, Napolitano dirige la commissione Cultura del Pci, un ruolo chiave per intessere relazioni internazionali. Giorgio Amendola, confidente della Cia, tesseva la tela delle relazioni transatlantiche e si incontrava più volte con uno dei maggiori falchi del Pentagono, Zbigniew Brzezinski, fautore della distruzione del blocco sovietico attraverso la tecnica dell’infiltrazione. Tra i due si stabilì una collaborazione forte e duratura, tanto che Brzezinski ammetterà di «controllare la destra del Pci guidata da Amendola» e riconoscerà a Napolitano il ruolo di profondo innovatore della dottrina comunista occidentale. Nulla di strano: i servizi d’intelligence Usa già dagli anni Sessanta cercavano un interlocutore all’interno del Pci e il rapporto Boies confermò la scelta verso Napolitano. Oltre che da Amendola, re Giorgio fu introdotto negli ambienti atlantici dal suo predecessore come ministro degli esteri del Pci, Sergio Segre, di origini ebraiche. L’ex ambasciatore statunitense a Roma Richard Gardner parlò in termini entusiastici del suo amico Giorgio: «Era un socialdemocratico. Condividevamo gli stessi valori. Con discrezione, mi faceva capire di non essere d’accordo con molte decisioni del Pci e di auspicarne un’evoluzione più rapida». Il 1978 è l’anno del “viaggio culturale” negli Usa, la Mecca del capitalismo; l’invito fu esteso a Berlinguer, ma il segretario di Stato Cyrus Vance e il consigliere per la Sicurezza nazionale Brzezinski vollero solo Napolitano. Cosa va a fare Napolitano in America in un momento delicatissimo, nel pieno del caso Moro? Deve ricevere «istruzioni»? Mistero. Ne accaddero di cose strane in quel periodo. L’8 febbraio del 1978, alcune settimane prima del sequestro, Norman Birnbaum, un professore progressista vicino alla Cia, invitò Berlinguer alla New York University per un ciclo di conferenze. Poco prima, il 21-27 gennaio, l’albionico The Economist mise in copertina Berlinguer e Giulio Andreotti travisati da burattini della commedia dell’arte che sorreggono la torre di Pisa. Il titolo, in italiano, si domandava: “La commedia è finita?”. Andiamo avanti. Napolitano trascorre due settimane negli USA, dal 4 al 19 aprile 1978. In quei giorni convulsi, tiene conferenze a Princeton, a Yale, ad Harvard, al Mit, fino a Washington alla Georgetown University e al Centro di studi strategici diretto da Kissinger. Napolitano rasserenò gli amici d’oltreoceano assicurando che il compromesso storico non danneggiava in alcun modo gli interessi statunitensi.
O forse, come sostenuto dall’ex 007 Francesco Pazienza, Napolitano era una sorta di doppiogiochista. Di sicuro Re Giorgio, memoria vivente del Partito, aveva contezza della valuta pregiata sovietica travasata nelle regioni rosse attraverso circuiti tutt’altro che limpidi. Il procuratore di Mosca, quel Valentin Stepankov che nella primavera del 1992 cercò di abboccarsi con Giovanni Falcone, si chiedeva: chi riciclava i dollari trasformandoli in lire? La mafia. Fu inoltre uno dei pochi alti papaveri a schierarsi apertamente a favore della repressione dei moti ungheresi del 1956, in ossequio al bipolarismo sancito a Yalta. Al pari di Giorgio Bocca, Pietro Ingrao e tanti altri, da giovanissimo aderì al fascismo.
Sono note la sua appartenenza alla Gioventù Universitaria Fascista e alcune imbarazzanti sortite adolescenziali. La padronanza della lingua inglese gli permise di lavorare alla Croce rossa americana di Capri, dove la famiglia possedeva una casa. Quando Berlinguer nel 1972 venne indicato come successore di Luigi Longo, malato e già in rotta di collisione col PCUS, Napolitano dirige la commissione Cultura del Pci, un ruolo chiave per intessere relazioni internazionali. Giorgio Amendola, confidente della Cia, tesseva la tela delle relazioni transatlantiche e si incontrava più volte con uno dei maggiori falchi del Pentagono, Zbigniew Brzezinski, fautore della distruzione del blocco sovietico attraverso la tecnica dell’infiltrazione. Tra i due si stabilì una collaborazione forte e duratura, tanto che Brzezinski ammetterà di «controllare la destra del Pci guidata da Amendola» e riconoscerà a Napolitano il ruolo di profondo innovatore della dottrina comunista occidentale. Nulla di strano: i servizi d’intelligence Usa già dagli anni Sessanta cercavano un interlocutore all’interno del Pci e il rapporto Boies confermò la scelta verso Napolitano. Oltre che da Amendola, re Giorgio fu introdotto negli ambienti atlantici dal suo predecessore come ministro degli esteri del Pci, Sergio Segre, di origini ebraiche. L’ex ambasciatore statunitense a Roma Richard Gardner parlò in termini entusiastici del suo amico Giorgio: «Era un socialdemocratico. Condividevamo gli stessi valori. Con discrezione, mi faceva capire di non essere d’accordo con molte decisioni del Pci e di auspicarne un’evoluzione più rapida». Il 1978 è l’anno del “viaggio culturale” negli Usa, la Mecca del capitalismo; l’invito fu esteso a Berlinguer, ma il segretario di Stato Cyrus Vance e il consigliere per la Sicurezza nazionale Brzezinski vollero solo Napolitano. Cosa va a fare Napolitano in America in un momento delicatissimo, nel pieno del caso Moro? Deve ricevere «istruzioni»? Mistero. Ne accaddero di cose strane in quel periodo. L’8 febbraio del 1978, alcune settimane prima del sequestro, Norman Birnbaum, un professore progressista vicino alla Cia, invitò Berlinguer alla New York University per un ciclo di conferenze. Poco prima, il 21-27 gennaio, l’albionico The Economist mise in copertina Berlinguer e Giulio Andreotti travisati da burattini della commedia dell’arte che sorreggono la torre di Pisa. Il titolo, in italiano, si domandava: “La commedia è finita?”. Andiamo avanti. Napolitano trascorre due settimane negli USA, dal 4 al 19 aprile 1978. In quei giorni convulsi, tiene conferenze a Princeton, a Yale, ad Harvard, al Mit, fino a Washington alla Georgetown University e al Centro di studi strategici diretto da Kissinger. Napolitano rasserenò gli amici d’oltreoceano assicurando che il compromesso storico non danneggiava in alcun modo gli interessi statunitensi.
A Yale, casa-madre della potente società segreta Skull and Bones, Napolitano asserì di sentirsi come «
una specie di commando», un soldato dei corpi scelti che agisce dietro le linee nemiche. Un infiltrato, insomma. Non a caso negli anni Sessanta il piciista sui generis Napolitano aveva frequentato i seminari del Ceses, Centro ricerche economiche e sociologiche dei paesi dell'Est. Il Ceses era la filiale italiana di Interdoc, un istituto con sede all'Aja creato nel 1963 dai servizi d'intelligence della NATO per coordinare l'offensiva anti-comunista, attingendo da fonti esclusive e materiale inedito fornito da preti spretati del marxismo. Il Ceses è sorto subito dopo il convegno al Parco dei Principi, nel 1965, e da allora è diventato un importante punto di riferimento per i politici e gli intellettuali ostili al “compromesso storico”. Torniamo a bomba. Il momento clou fu l’incontro al Council on Foreign Relations di New York di avvocati, banchieri e dirigenti industriali di caratura internazionale venuti ad ascoltarlo. In quella sede fa un atto di fedeltà al Patto Atlantico affermando: «Il Pci non si oppone più alla Nato come negli anni Sessanta.» Mentre si trova nella Grande Mela, Napolitano si vede anche con Gianni Agnelli, del quale diventerà ottimo amico. E il caso Moro ancora in corso? Napolitano si consultò con i massimi esperti americani? Sappiamo che in Italia in quel frangente operava Steve Pieczenik, lo strizzacervelli yankee del comitato di crisi allestito appena dopo l’agguato di via Fani. Pieczenik riconobbe esplicitamente che gli americani ritenevano «necessario il sacrificio di Moro». Al suo ritorno a Roma, Napolitano fondò la corrente «migliorista» con Lama, Amendola, Bufalini e Macaluso. Nel 1985 sentenziò «È il riformismo europeo il punto di approdo del PCI». In poche parole era cominciata la transizione verso il “partito radicale di massa” e la «nuova classe dirigente che tratta ogni idea come strumento di potere» pronosticata da Augusto Del Noce. Insomma, il modello anglosassone salutato con favore dai capiscuola dello snobismo liberale, progenitori dei radical chic; un progressismo ferocemente laico, gradito alle borghesie compradore e al ceto medio semicolto e licenzioso. Il Pds, fedele al motto pas d’ennemis a gauche, scardinò il Pentapartito e mandò a ramengo il progetto di Unità Socialista. Con Mani Pulite iniziò un periodo contraddistinto da grandi soddisfazioni per il non più giovanissimo Giorgio Napolitano: il biennio terribile 1992-94 lo vide presidente della Camera dei deputati, complice di non meglio precisate trame. Ministro dell’Interno nel primo governo Prodi (1996-98), si assunse la responsabilità di bloccare i porti e di trattare con mano ferma il problema dell’immigrazione clandestina albanese, fino alle estrema conseguenze. Nel 1997 la motovedetta albanese Katër i Radës venne speronata da una nave della Marina italiana. Fu una strage: 81 morti e 27 dispersi. Nel 2006 venne proclamato Presidente della Repubblica: il più anziano capo di stato d’Europa e, stando a Wikipedia, il terzo al mondo insieme a un manipolo di tirannelli africani. So’ soddisfazioni. Nel 2009 Giorgio il radicale rifiutò di firmare il decreto d'urgenza con cui il governo Berlusconi tentò di evitare la morte di Eluana Englaro, in coma da 17 anni. Nel 2011 Napolitano fu il capofila dei falchi antilibici, l’autentica quinta colonna anglo-franco-americana, favorevoli ai raid su Tripoli. Nell'autunno dello stesso anno, la vecchia volpe anglofila nominò senatore a vita Mario Monti, il quale una settimana dopo, in seguito a una congiura di Palazzo portata avanti dallo stesso Garante, inaugurerà il decennio dei governi tecnocratici, un calvario inframezzato dalle brevi tregue dei governicchi “politici”. Napolitano è stato il simbolo di una sinistra prona all'atlantismo a cui ogni cosa è concessa e perdonata, persino mostrare la faccia feroce e le mani lorde di sangue.