Tratto dal libro di Biagio Di Grazia "Perché la Nato ha bombardato la Serbia nel 1999?"
Il primo attacco alla piazza di Markale e al mercato avvenne il 5 febbraio 1994 quando fu colpita da granate di mortaio che causarono la morte di sessantotto persone e il ferimento di duecento; il secondo attacco alla piazza Markale avvenne il 28 agosto 1995 e lasciò sul terreno trentasette morti e novanta feriti. I primi rapporti della strage al mercato Markale arrivarono a Zagabria la sera del 29 agosto. Ero appena rientrato da una ricognizione nella Krajina Occidentale e mi diedi da fare per capire cosa fosse successo e preparare la missione a Sarajevo. Avevo studiato bene sulle carte le caratteristiche della prima strage a Markale avvenuta nel 1994, attribuita ai serbi, e mi ero convinto che il gioco di responsabilità che aveva dominato la discussione dopo quel primo attacco, poteva essere risolto con una neutrale e corretta valutazione della direzione delle traiettorie, a fronte degli impatti delle bombe sul terreno. Poi c’erano delle questioni che ponevano seri dubbi e che sembravano ripetersi: perché i serbi continuavano a scegliere quell’obiettivo che era a pochi passi da una famosa chiesa ortodossa; perché non si era mai proceduto alla verifica delle dimensioni del cratere di impatto sul terreno; come mai le tettoie del mercato sembravano non essere state attraversate dal proietto di artiglieria o mortaio che proveniva dall’alto; e, infine, come avesse fatto la CNN a essere presente subito dopo la strage: a dir poco l’emittente televisiva era stata di un’efficienza straordinaria nel 1994; e nel 1995 sembrava fosse stata ancora altrettanto rapida. Io mi ripromettevo di attuare una modesta personale indagine tecnica attingendo ai ricordi della scuola mortai che avevo frequentato da giovane. Avevo letto nei primi rapporti pervenuti a Zagabria che stavolta la piazza era stata colpita da cinque colpi, ma solo uno era stato giudicato responsabile della strage. Questo era già strano: cinque impatti in una piazza affollata e un solo ordigno assassino? Le possibili basi di lancio identificate erano tre: dal borgo di Lukavica, dalle pendici del monte Trebević, ambedue territorio serbo, oppure dal settore est della città, in mani musulmane. Tre giorni dopo la strage ero a Sarajevo. La piazza era abbastanza sgombra dato che l’attività di mercato era sospesa. Avevo a mia disposizione una carta topografica, un libretto guida su possibili gittate, una bussola e un righello con cui misurare distanze e angoli. La versione delle autorità governative era quella di attribuire la colpa ancora ai serbi, che avrebbero sparato da Lukavica, dove effettivamente c’era una caserma, con reparto mortai. Questa tesi era la più logica politicamente, ma anche la più debole tecnicamente in quanto contrastava alcuni requisiti fondamentali, che un militare sa riconoscere. Da una parte la direzione di tiro non sembrava quella giusta e un eventuale tiro da Lukavica avrebbe impattato su un alto edificio e non sarebbe caduto dentro la piazza in quel punto. Inoltre era poco credibile che un reparto schierato in una caserma avesse fatto fuoco con una tale indecenza di comportamento e in tutta visibilità; e schierare i mortai poco fuori sarebbe stato comunque ridicolo e inutile. Se i serbi avessero deciso di compiere una tale nefandezza, sarebbe stato molto più facile e remunerativo utilizzare le pendici del monte Trebević, dove uno o più mortai potevano essere trasportati e posizionati senza difficoltà e da lì fare fuoco indisturbati: questa era soluzione più probabile, ma che escludeva Lukavica. Per quanto concerne l’ipotesi di colpevolezza degli stessi musulmani, calcolai che i luoghi segnalati erano tutti idonei in termini di postazioni di lancio. La mia deduzione tecnica d’improbabile colpevolezza dei serbi da Lukavica, sembrava coincidere con quella che emerse successivamente a cura dell’estensore del rapporto delle Nazioni Unite, il Colonnello russo Andrej Demurenko che, sembra, avesse dimostrato l’impossibilità di colpire Markale con mortai o artiglierie dalle posizioni serbe e avesse prodotto dettagliati schizzi tecnici a supporto. Seppi anche che il Demurenko ebbe poco tempo per sviluppare la sua tesi dato che fu rimosso dall’incarico. Ad ogni modo, egli non sposò l’idea di un fuoco mortai o di artiglieria né dall’una né dall’altra parte in conflitto, ma avanzò l’ipotesi, già emersa nel 1994, che la strage fosse stata provocata da ordigni di esplosivo nascosti appositamente sotto una bancarella del mercato e attivati a distanza.
Si sarebbe trattato ancora una volta di un cinico espediente escogitato dai musulmani per influenzare i negoziati di pace in corso e sollecitare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale; il che dava spiegazione della presenza immediata della CNN, magari allertata da qualcuno, e del perché le tettoie del mercato sembrassero esenti da impatto. Tornai a Zagabria convinto di non aver trovato o risolto nulla e i dubbi che avevo erano tutti rimasti insoluti.
***
Il 15 gennaio 1999, nelle prime ore del mattino, il villaggio di Račak fu circondato e attaccato da forze di sicurezza serbe, precedute da fuoco di artiglieria; come risultato dell’azione rimasero uccise quarantacinque persone, di cui venticinque sicuramente appartenenti all’UCK e venti civili. Il giorno successivo, quando ancora pochissimi erano a conoscenza del fatto, l’Ambasciatore della missione OSCE in Kosovo William Walker convocò una conferenza stampa in cui accusò i serbi di crimini contro l’umanità e di essere i colpevoli di un massacro. Disse che le persone catturate nel villaggio di Račak erano state condotte a forza in un canalone alla periferia della cittadina per essere uccise tutte insieme; le foto che fece vedere erano raccapriccianti, con corpi mutilati. Dopo la conferenza di Walker e le accuse di strage, il governo serbo decideva di dichiarare il Capo della Missione “persona non grata” e gli dava quarantotto ore per lasciare il Paese. Prima dello scadere del tempo, soprattutto per la mediazione russa e quella francese, vi fu il congelamento dell’espulsione e poi il suo annullamento. Due giorni dopo la dirigenza serba convocò un incontro con giornalisti nel quale si ammetteva la morte dei quarantacinque kosovari albanesi, ma si negava fossero stati catturati e poi condotti nel vallone per essere là uccisi tutti insieme. I morti erano la conseguenza di scontri verificatisi altrove e solo successivamente, ad arte, raggruppati nel canalone di Račak, per sembrare una strage perpetrata su inermi in cui figuravano anche mutilazioni di varia portata. Le due versioni erano incompatibili tra di loro; d’altra parte, il teatro balcanico era ben abituato a casi del genere: nella guerra di Bosnia, croati, musulmani e serbi avevamo fornito ampia prova di inaffidabilità nel simulare stragi che nella verifica dei fatti, si dimostrarono poi strumenti perpetrati da se stessi per acquisire il favore delle opinioni pubbliche; in questo le tre etnie erano perversamente identiche e che al gruppo dei contraffattori seriali si aggiungessero anche i kosovari albanesi rendeva la depravazione balcanica maggiormente completa. Al tempo non credetti alla versione serba della strage di Račak che attribuiva ai kosovari albanesi la costruzione di una “farsa” montata ai loro danni anche se gli eventi erano caratterizzati da molte stranezze che vanno esattamente vagliate.
In primo luogo i serbi non avevano mai dato corso a mutilazioni dopo le stragi effettuate in Bosnia, che erano state invece quasi a esclusivo appannaggio dei mujaheddin islamici che avevano introdotto quel metodo tipicamente orientale di assassinio a scopo vendetta. Secondariamente, non si capiva come avrebbe fatto la polizia serba a raggruppare un consistente numero di persone e dirigerli verso il posto dell'esecuzione di massa, mentre erano comunque sotto il fuoco ravvicinato dell'UCK e senza preoccuparsi di nascondere il misfatto: sapevano bene che i verificatori OSCE erano a breve distanza e sarebbero puntualmente giunti poco dopo. Infine, e le immagini assunte a prova della strage lo dimostravano, il luogo di ritrovamento era praticamente privo di sangue a terra, a dimostrazione che le uccisioni erano avvenute altrove. A ciò si aggiunse l’arrivo in Serbia del Procuratore della Corte Internazionale dell’Aia, accompagnata da una nota giornalista della CNN, intenzionata a indagare la strage avvenuta e alla quale fu concesso recarsi sul luogo del crimine, cosa che invece fu impedita al Procuratore Generale serbo accorso da Pristina per investigare. Quanto all’azione del magistrato internazionale, essa era lodevole per tempestività e attenzione; ma era alquanto insolito precipitarsi in un’indagine su un evento accaduto poco prima, confidando quasi esclusivamente sulle capacità investigative della CNN e senza attendere l’indagine tecnica del team finlandese, che aveva questo compito e che era atteso sul posto per i primi accertamenti. Ad ogni modo, l’azione sembrava corrispondente ai fatti accertati in cui lo scontro a fuoco con gli appartenenti all’Esercito di Liberazione del Kosovo era avvenuto in condizioni di estrema disparità di forze con l’uccisione di un grande numero di civili del villaggio.
Le evidenze davano quindi ragione ai kosovari e le tesi serbe erano senza prova documentale, anche se sarebbe stato necessario il vaglio di una commissione neutrale e indipendente. Sennonché qualche giorno dopo, in un’occasione di un consueto viaggio d’ispezione, incontrai casualmente un amico e collega di Corso d’Accademia Militare, Colonnello Giovanni Fantini, Ufficiale Italiano nella sua veste di Osservatore OSCE, che mi confidò che era stato lui a giungere per primo sul luogo dell’eccidio e non vide affatto quello che i media di tutto il mondo poi mostrarono in televisione; mi disse anche che aveva riferito al Capo Missione Walker, giunto sul posto dopo di lui, la reale situazione. Dopo questa testimonianza certa e puntuale di “aggiustamento” a scopo mediatico, pensai che ci fosse stata una messa in scena, di quali proporzioni era difficile dire, e che l’ambasciatore Walker ne fosse bene a conoscenza. Era evidente che il mondo doveva conoscere la versione che più colpevolizzava i serbi. La strage di Račak fu investigata dal Tribunale dell’Aia successivamente. In quella sede fu acclarato che vi fu uno scontro a fuoco, nel quale morirono quarantacinque persone, ma la Corte non poté accertare dove fossero state uccise. Peraltro si trattava di un episodio di violenza che l’Esercito di Liberazione del Kosovo aspettava da tempo, per legittimare la sua offensiva militare e internazionalizzare il conflitto. Ritornai a Belgrado convinto che la strage di Račak avesse dato una svolta negativa alla crisi in quanto vanificava interamente l'obiettivo del governo di Milošević, che era quello di tranquillizzare il Kosovo.
Il primo attacco alla piazza di Markale e al mercato avvenne il 5 febbraio 1994 quando fu colpita da granate di mortaio che causarono la morte di sessantotto persone e il ferimento di duecento; il secondo attacco alla piazza Markale avvenne il 28 agosto 1995 e lasciò sul terreno trentasette morti e novanta feriti. I primi rapporti della strage al mercato Markale arrivarono a Zagabria la sera del 29 agosto. Ero appena rientrato da una ricognizione nella Krajina Occidentale e mi diedi da fare per capire cosa fosse successo e preparare la missione a Sarajevo. Avevo studiato bene sulle carte le caratteristiche della prima strage a Markale avvenuta nel 1994, attribuita ai serbi, e mi ero convinto che il gioco di responsabilità che aveva dominato la discussione dopo quel primo attacco, poteva essere risolto con una neutrale e corretta valutazione della direzione delle traiettorie, a fronte degli impatti delle bombe sul terreno. Poi c’erano delle questioni che ponevano seri dubbi e che sembravano ripetersi: perché i serbi continuavano a scegliere quell’obiettivo che era a pochi passi da una famosa chiesa ortodossa; perché non si era mai proceduto alla verifica delle dimensioni del cratere di impatto sul terreno; come mai le tettoie del mercato sembravano non essere state attraversate dal proietto di artiglieria o mortaio che proveniva dall’alto; e, infine, come avesse fatto la CNN a essere presente subito dopo la strage: a dir poco l’emittente televisiva era stata di un’efficienza straordinaria nel 1994; e nel 1995 sembrava fosse stata ancora altrettanto rapida. Io mi ripromettevo di attuare una modesta personale indagine tecnica attingendo ai ricordi della scuola mortai che avevo frequentato da giovane. Avevo letto nei primi rapporti pervenuti a Zagabria che stavolta la piazza era stata colpita da cinque colpi, ma solo uno era stato giudicato responsabile della strage. Questo era già strano: cinque impatti in una piazza affollata e un solo ordigno assassino? Le possibili basi di lancio identificate erano tre: dal borgo di Lukavica, dalle pendici del monte Trebević, ambedue territorio serbo, oppure dal settore est della città, in mani musulmane. Tre giorni dopo la strage ero a Sarajevo. La piazza era abbastanza sgombra dato che l’attività di mercato era sospesa. Avevo a mia disposizione una carta topografica, un libretto guida su possibili gittate, una bussola e un righello con cui misurare distanze e angoli. La versione delle autorità governative era quella di attribuire la colpa ancora ai serbi, che avrebbero sparato da Lukavica, dove effettivamente c’era una caserma, con reparto mortai. Questa tesi era la più logica politicamente, ma anche la più debole tecnicamente in quanto contrastava alcuni requisiti fondamentali, che un militare sa riconoscere. Da una parte la direzione di tiro non sembrava quella giusta e un eventuale tiro da Lukavica avrebbe impattato su un alto edificio e non sarebbe caduto dentro la piazza in quel punto. Inoltre era poco credibile che un reparto schierato in una caserma avesse fatto fuoco con una tale indecenza di comportamento e in tutta visibilità; e schierare i mortai poco fuori sarebbe stato comunque ridicolo e inutile. Se i serbi avessero deciso di compiere una tale nefandezza, sarebbe stato molto più facile e remunerativo utilizzare le pendici del monte Trebević, dove uno o più mortai potevano essere trasportati e posizionati senza difficoltà e da lì fare fuoco indisturbati: questa era soluzione più probabile, ma che escludeva Lukavica. Per quanto concerne l’ipotesi di colpevolezza degli stessi musulmani, calcolai che i luoghi segnalati erano tutti idonei in termini di postazioni di lancio. La mia deduzione tecnica d’improbabile colpevolezza dei serbi da Lukavica, sembrava coincidere con quella che emerse successivamente a cura dell’estensore del rapporto delle Nazioni Unite, il Colonnello russo Andrej Demurenko che, sembra, avesse dimostrato l’impossibilità di colpire Markale con mortai o artiglierie dalle posizioni serbe e avesse prodotto dettagliati schizzi tecnici a supporto. Seppi anche che il Demurenko ebbe poco tempo per sviluppare la sua tesi dato che fu rimosso dall’incarico. Ad ogni modo, egli non sposò l’idea di un fuoco mortai o di artiglieria né dall’una né dall’altra parte in conflitto, ma avanzò l’ipotesi, già emersa nel 1994, che la strage fosse stata provocata da ordigni di esplosivo nascosti appositamente sotto una bancarella del mercato e attivati a distanza.
Si sarebbe trattato ancora una volta di un cinico espediente escogitato dai musulmani per influenzare i negoziati di pace in corso e sollecitare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale; il che dava spiegazione della presenza immediata della CNN, magari allertata da qualcuno, e del perché le tettoie del mercato sembrassero esenti da impatto. Tornai a Zagabria convinto di non aver trovato o risolto nulla e i dubbi che avevo erano tutti rimasti insoluti.
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Il 15 gennaio 1999, nelle prime ore del mattino, il villaggio di Račak fu circondato e attaccato da forze di sicurezza serbe, precedute da fuoco di artiglieria; come risultato dell’azione rimasero uccise quarantacinque persone, di cui venticinque sicuramente appartenenti all’UCK e venti civili. Il giorno successivo, quando ancora pochissimi erano a conoscenza del fatto, l’Ambasciatore della missione OSCE in Kosovo William Walker convocò una conferenza stampa in cui accusò i serbi di crimini contro l’umanità e di essere i colpevoli di un massacro. Disse che le persone catturate nel villaggio di Račak erano state condotte a forza in un canalone alla periferia della cittadina per essere uccise tutte insieme; le foto che fece vedere erano raccapriccianti, con corpi mutilati. Dopo la conferenza di Walker e le accuse di strage, il governo serbo decideva di dichiarare il Capo della Missione “persona non grata” e gli dava quarantotto ore per lasciare il Paese. Prima dello scadere del tempo, soprattutto per la mediazione russa e quella francese, vi fu il congelamento dell’espulsione e poi il suo annullamento. Due giorni dopo la dirigenza serba convocò un incontro con giornalisti nel quale si ammetteva la morte dei quarantacinque kosovari albanesi, ma si negava fossero stati catturati e poi condotti nel vallone per essere là uccisi tutti insieme. I morti erano la conseguenza di scontri verificatisi altrove e solo successivamente, ad arte, raggruppati nel canalone di Račak, per sembrare una strage perpetrata su inermi in cui figuravano anche mutilazioni di varia portata. Le due versioni erano incompatibili tra di loro; d’altra parte, il teatro balcanico era ben abituato a casi del genere: nella guerra di Bosnia, croati, musulmani e serbi avevamo fornito ampia prova di inaffidabilità nel simulare stragi che nella verifica dei fatti, si dimostrarono poi strumenti perpetrati da se stessi per acquisire il favore delle opinioni pubbliche; in questo le tre etnie erano perversamente identiche e che al gruppo dei contraffattori seriali si aggiungessero anche i kosovari albanesi rendeva la depravazione balcanica maggiormente completa. Al tempo non credetti alla versione serba della strage di Račak che attribuiva ai kosovari albanesi la costruzione di una “farsa” montata ai loro danni anche se gli eventi erano caratterizzati da molte stranezze che vanno esattamente vagliate.
In primo luogo i serbi non avevano mai dato corso a mutilazioni dopo le stragi effettuate in Bosnia, che erano state invece quasi a esclusivo appannaggio dei mujaheddin islamici che avevano introdotto quel metodo tipicamente orientale di assassinio a scopo vendetta. Secondariamente, non si capiva come avrebbe fatto la polizia serba a raggruppare un consistente numero di persone e dirigerli verso il posto dell'esecuzione di massa, mentre erano comunque sotto il fuoco ravvicinato dell'UCK e senza preoccuparsi di nascondere il misfatto: sapevano bene che i verificatori OSCE erano a breve distanza e sarebbero puntualmente giunti poco dopo. Infine, e le immagini assunte a prova della strage lo dimostravano, il luogo di ritrovamento era praticamente privo di sangue a terra, a dimostrazione che le uccisioni erano avvenute altrove. A ciò si aggiunse l’arrivo in Serbia del Procuratore della Corte Internazionale dell’Aia, accompagnata da una nota giornalista della CNN, intenzionata a indagare la strage avvenuta e alla quale fu concesso recarsi sul luogo del crimine, cosa che invece fu impedita al Procuratore Generale serbo accorso da Pristina per investigare. Quanto all’azione del magistrato internazionale, essa era lodevole per tempestività e attenzione; ma era alquanto insolito precipitarsi in un’indagine su un evento accaduto poco prima, confidando quasi esclusivamente sulle capacità investigative della CNN e senza attendere l’indagine tecnica del team finlandese, che aveva questo compito e che era atteso sul posto per i primi accertamenti. Ad ogni modo, l’azione sembrava corrispondente ai fatti accertati in cui lo scontro a fuoco con gli appartenenti all’Esercito di Liberazione del Kosovo era avvenuto in condizioni di estrema disparità di forze con l’uccisione di un grande numero di civili del villaggio.
Le evidenze davano quindi ragione ai kosovari e le tesi serbe erano senza prova documentale, anche se sarebbe stato necessario il vaglio di una commissione neutrale e indipendente. Sennonché qualche giorno dopo, in un’occasione di un consueto viaggio d’ispezione, incontrai casualmente un amico e collega di Corso d’Accademia Militare, Colonnello Giovanni Fantini, Ufficiale Italiano nella sua veste di Osservatore OSCE, che mi confidò che era stato lui a giungere per primo sul luogo dell’eccidio e non vide affatto quello che i media di tutto il mondo poi mostrarono in televisione; mi disse anche che aveva riferito al Capo Missione Walker, giunto sul posto dopo di lui, la reale situazione. Dopo questa testimonianza certa e puntuale di “aggiustamento” a scopo mediatico, pensai che ci fosse stata una messa in scena, di quali proporzioni era difficile dire, e che l’ambasciatore Walker ne fosse bene a conoscenza. Era evidente che il mondo doveva conoscere la versione che più colpevolizzava i serbi. La strage di Račak fu investigata dal Tribunale dell’Aia successivamente. In quella sede fu acclarato che vi fu uno scontro a fuoco, nel quale morirono quarantacinque persone, ma la Corte non poté accertare dove fossero state uccise. Peraltro si trattava di un episodio di violenza che l’Esercito di Liberazione del Kosovo aspettava da tempo, per legittimare la sua offensiva militare e internazionalizzare il conflitto. Ritornai a Belgrado convinto che la strage di Račak avesse dato una svolta negativa alla crisi in quanto vanificava interamente l'obiettivo del governo di Milošević, che era quello di tranquillizzare il Kosovo.
Biagio Di Grazia. Ufficiale dell’Esercito che ha servito nei vari gradi e reparti fino al grado di Generale di Divisione. Ha assolto funzioni importanti in Inghilterra, Germania, Croazia, Bosnia, Serbia e Belgio. Nei Balcani ha ricoperto incarichi diplomatici e militari, dal 1995 al 2002: A Zagabria, Capo delle Operazioni nella Missione Europea di Osservazione (ECMM); A Sarajevo, Vice Comandante del Contingente Italiano nella Missione Nato IFOR; A Belgrado, Addetto Militare e per la Difesa nell’Ambasciata d’Italia; A Mostar, Vice Comandante della Divisione Francese nella Missione Nato SFOR.