Secondi alcuni, Mani Pulite fu una resa dei conti tra due concezioni incompatibili della vita e della società, lo statalismo e il liberismo. Ricostruzione semplicistica. Chi da gran pezza esamina la vicenda si lascia afferrare dalla tentazione di settorializzare in senso economicista, giuridico e politologico. Pertanto circolano diverse vulgate: il garantista pone l'accento sulle violazioni dei diritti dell’imputato, se non dei diritti dell’uomo; ex ministri ed ex statisti individuano nella scomparsa dei partiti tradizionali (DC e PSI in primis) la causa dello scadimento qualitativo del ceto politico professionale e delle virtù democratiche; i tecnici di scuola keynesiana sottolineano il pregiudizio anti-interventista che anima i signori del quattrino; i liberali ingenui si concentrano sulle modalità discutibili di gestire la dismissione delle aziende statali, e il vizio di infischiarsi delle regole e della concorrenza. Tali versioni, in misura diversa, restituiscono un segmento parziale di verità storica.
Chi fu il vincitore di Mani Pulite? I pareri tutt’ora restano discordanti, e le ragioni trasversali. C’è chi sostiene che trionfarono – anche se non in misura sufficiente – le istanze del mercato; c’è chi ritiene che prevalsero gli interventisti, o meglio i capitalisti assistiti dai governi; c’è chi assegna la palma della vittoria all’antipolitica giustizialista e all’onda nera qualunquista.
Non so di preciso chi la spuntò, di sicuro so che una parte considerevole del tessuto produttivo – imperfetto quanto si vuole e certamente perfettibile – italiano ne uscì con le ossa rotte. Tangentopoli fu l'inizio di una progressiva discesa agli inferi per il Sistema italiano a economia mista. Debilitare il Paese, infeudarlo ulteriormente dal punto di vista economico e finanziario, ecco lo scopo precipuo del colpo di Stato giudiziario inscenato nel biennio 1992-93. All’Impero non interessava più un vassallo prospero, moderatamente forte e stabile; all’Impero tutt’ora non interessa un’Italia simile, altrimenti avrebbe già liquidato la cricca insediatasi trent’anni fa. In mezzo ai perdenti del 1992-93 figurano tanto l’industria pubblica quanto quella privata, i settori di punta (Chimica) più performanti e le aziende dotate di maggiore creatività e peso strategico. Non a caso si tolsero la vita in circostanze sospette e mai del tutto acclarate Raul Gardini e Gabriele Cagliari (senza scordare Sergio Castellari), rispettivamente i ras della chimica privata e pubblica, protagonisti, pochi anni prima, di un acceso diverbio che contrappose i fautori dell’ideologia delle partecipazioni statali ai propugnatori della libera intrapresa. Gardini, temperamento anarchicheggiante con un occhio rivolto al capitalismo renano, rivendicava il diritto di esercitare la propria vocazione di libero imprenditore senza dover subire i ricatti, i veti e la supervisione pelosa degli apparati statali (sapeva benissimo che le fortune del suocero Ferruzzi discendevano in buona parte da solide entrature politiche, italiane e straniere, e che queste erano un’arma a doppio taglio); Cagliari, orgoglioso boiardo di Stato, esigeva il riconoscimento del ruolo non ancillare dell’impresa pubblica. Entrambi erano nel giusto, e avrebbero dovuto instaurare una collaborazione vantaggiosa per il bene della collettività; entrambi finirono prima sulla graticola e poi al camposanto. A molti suonerà strano, ma l’Italia dei primissimi anni Novanta si avviava a divenire un sistema autenticamente pluralista. L’azione dei magistrati impose alla metamorfosi un indirizzo marcatamente oligarchico. Sul perché l’Impero ci vuole sfibrati e arrendevoli azzardo un’ipotesi: l’Italia, per usare un abusato quanto veritiero luogo comune geopolitico, è la portaerei naturale sul mar Mediterraneo. Ma è anche un terminal naturale della Via della Seta, oltre che un imprescindibile hub del gas nordafricano e mediorientale. Un Paese di fondamentale rilevanza, nel quadro di un grande Eurasia interconnessa e pacificata; un Paese insignificante e altresì scomodo nel quadro di un’Alleanza Atlantica sempre più esplicitamente antieuropea e orientata verso l’Intermarium ucro-baltico-polacco. Non dobbiamo neppure sposare il “socialismo con caratteristiche cinesi” che, en passant, pare copiato (che copioni sti omini gialli!) paro paro dal Codice di Camaldoli, in auge durante il regime democristiano eufemisticamente chiamato Prima Repubblica. Che Dio abbia in gloria quel regime, e che il diavolo si porti i suoi detrattori! Ricordo che un noto giornalista bergamasco con le sinapsi fuse dalla grappa soleva riaffermare lo slogan coniato dalla comunista Rossana Rossanda: “Non voglio morire democristiano”. Ma quale cinesizzazione! Essa alberga nei cervelli dei corifei della destra leghiota e parasovranista. C’è da ricalibrare la nostra collocazione sul piano internazionale, punto. Un compito che richiede spirito di indipendenza e cautela; un compito praticamente impossibile da portare a termine, fintantoché ci ritroveremo tra i piedi i nipotini scemi del MSI, i ruttatori bossiani in seconda e le cariatidi liberal-piciiste. Ovvero i beneficiari di quel nefasto colpo di Stato.

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