In Tv non si prova l’innocenza. Si delegittima l’accusa [oggi soprattutto la difesa, Nota mia]

Molto è già stato scritto sul processo di O.J. Simpson. In America circolano persino decine e decine di O.J. jokes che ormai vengono scambiati via Internet. Per esempio, il giudice che dice a Simpson: “Signor Simpson, lei è stato assolto, è libero, vada pure e le ridaremo indietro i suoi effetti personali”. E Simpson dice: “Mi dà indietro anche il mio coltello?” Solo per quelli che praticano la e-mail c’è l’indirizzo di Simpson, che va prima scritto e poi pronunciato ad alta voce: “O.J.@\\\ / Esc”, vale a dire “slash, slash, slash, backslash, escape”. Piccole crudeltà che sono sintomo di una situazione di disagio. La maggior parte degli americani avverte disagio perché suppone che Simpson fosse colpevole, e che la sentenza abbia ubbidito a criteri di opportunità politica, o di schieramento razziale. Ma il disagio dovrebbe rimanere anche nel caso che, come mi auguro (per lui e per la giustizia), Simpson fosse davvero innocente. Perché Simpson non è stato assolto perché era innocente, e neppure perché la difesa ha potuto brillantemente provare che le prove fornite dall’accusa non erano valide (o almeno non soltanto). Simpson è stato assolto perché la difesa è riuscita a delegittimare l’accusa, a dimostrare che i poliziotti erano razzisti, bugiardi e corrotti, e il procuratore generale prevenuto. Ora, si noti, un processo in cui si dimostri che l’accusa è prevenuta o sleale, in sé sarebbe una bella dimostrazione di democrazia, e fosse stato possibile fare così in tanti processi messi in scena da dittature di vario colore. Ma questo si deve fare in situazioni eccezionali. Una società in cui, sempre e a priori, non solo l’accusa, ma anche il collegio giudicante sia delegittimato, sistematicamente, è una società in cui qualcosa non funziona. Eppure questo è ciò a cui stiamo assistendo da qualche tempo, non solo in America ma, non so se avete presente, anche in Italia. La prima mossa dell’inquisito non è di provare che è innocente, o che le prove di accusa sono inconsistenti, ma di mostrare all’opinione pubblica che l’accusa non è immune da sospetti, come dovrebbe essere la moglie di Cesare. Se l’inquisito riesce in questa operazione, l’andamento del processo è secondario. Perché chi decide, in processi ripresi alla televisione, è l’opinione pubblica, che sfiducia l’inquirente e tende a convincere ogni giuria che sarebbe impopolare dargli ragione. Quindi il processo televisivo non riguarda più un dibattito tra le due parti che presentano prove e controprove: riguarda, e prima ancora del processo, un duello massmediatico tra futuri imputati e futuri procuratori (e possibilmente giudici) a cui l’inquisito contesta il diritto di giudicarlo. E il verdetto è demandato all’opinione pubblica (che pregiudica), non ai giurati (che postgiudicano). Quando nel 1993 sono iniziati i processi televisivi di Tangentopoli (ma erano già iniziati i vari “giorni in Pretura” televisivi) in questa rubrica avevo protestato contro il processo pubblico a Walter Armanini. Sono stato sommerso di insulti da parte della migliore intelligenza democratica, come se volessi difendere i corrotti. Ero diventato un complice di Craxi. I risultati li vediamo ora. Il processo Cusani ha avuto l’esito che ha avuto perché l’accusa (Di Pietro), con geniali intuizioni massmediatiche, è riuscita a rendersi simpatica agli occhi della pubblica opinione (e, va detto, perché l’avvocato Spazzali non ha usato la tattica di delegittimare, prima e durante il processo, l’accusa). Ma poi tutti hanno capito la lezione. Spazzali ha perso il processo perché si era comportato secondo le regole dei gentiluomini pretelevisivi, cercando ancora di giocare su prove e controprove. Ingenuo, se non peggio. Occorreva cambiar tattica. Il segreto della vittoria in un processo televisivo è dimostrare che l’accusatore (e possibilmente il giudice) è un criminale. Adesso la lezione l’hanno capita tutti.
Se riesci a dimostrare che il tuo accusatore è un adultero, ha commesso peccati, leggerezze o crimini – anche se nulla hanno a che fare con il processo – hai già vinto. Il processo si fa prima, attraverso i mass media. Il rito nell’aula di giustizia rischia di ridursi a un rito, appunto, che sancisce il giudizio dei media. L’avete voluta, la televisione nell’aula di giustizia. Accettate ora che la giustizia sia umiliata, ridotta a ratificare i verdetti dell’opinione pubblica. E ricordate, la prossima volta che vi coglieranno con le mani nel sacco, nell’istante in cui date una mazzetta al poliziotto che vi ha sorpreso mentre spaccavate il cranio di vostra nonna a colpi di scure, non preoccupatevi di lavare le tracce di sangue, o di dimostrare che a quell’ora eravate altrove, a colloquio con un cardinale.
Basta che dimostriate che chi vi ha sorpreso con le mani nel sacco (o sulla scure), dieci anni fa non ha dichiarato al fisco un regalo ricevuto dalla sua (o dal suo) amante. Sarete persone rispettabili.

Umberto Eco – La bustina di minerva (Espresso, 1993)

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