Dimissioni, una parola che sa di resa e che pertanto non poteva sussistere nel vocabolario di quel meneghino ferrigno che stamattina si è dimesso dalla vita alla bella età di 86 primavere, lui che dichiarava “Camperò fino a 120 anni”; lui egotista impenitente che cercava di carpire il segreto dell’eterna giovinezza. Quand’ero adolescente e “di sinistra” non perdevo una puntata di Parlamento in, la trasmissione di approfondimento politico condotta da Piero Vigorelli. Guardavo e mi chiedevo: perché la sinistra non esprime un capo carismatico come Silvio Berlusconi? Per quale motivo i corifei progressisti sembrano avere il cuore foderato di ghiaccio? Ero stufo di quei discorsi col freno a mano tirato, di programmi improntati a una snervante ragionevolezza mentre a destra il bilancino era volato dalla finestra e ogni cosa era pervasa da una inappuntabile magica follia, rassicurante e al contempo stramba; un sogno infinito capace di attrarre e accalappiare. Dei congressi di Forza Italia ricordo le annunciatrici sorridenti accarezzate dalla vistosa compostezza del Cinemascope, l’apparato scenico pacchiano, i palchi infiorati all’inverosimile come neanche il Teatro Ariston dei giorni migliori o un quadro preraffaellita, le tracce dei R.E.M. (Imitation of life, ipercritica con la società dello spettacolo incarnata da mister B.) introdotte in modo incauto e naïf. Ed ero colto da una profonda afflizione ogni qual volta mi si paravano dinanzi i corrispettivi congressi del Pds, ove campeggiavano le facce arcigne e funeree dei volpini D’Alema e Violante, inestetici eppure apollinei avanzi della nomenklatura comunista, menti eccelse ma intossicate di gelido positivismo, così attenti a soppesare le parole e a centellinare l’adrenalina, resi impotenti dalla loro stessa retorica che denunziava l’anomalia di un Presidente del Consiglio proprietario di tre reti televisive, auspicava l’avvento di un governo “normale” in un paese “serio”, obbligava a riferire in Parlamento e altre cazzate di quella specie. Un lento affogare nella meschinità di una pseudo socialdemocrazia orecchiata e mai veramente assorbita. Berlusconi invece appariva un Bacco tirato a lucido, oltremodo strafottente e charmant, lui così malfatto e somigliante a una testuggine priva di carapace. In pubblico lo detestavo, ma nelle pieghe dell’anima non potevo non riconoscergli intuizioni da statista di razza, oratoria incisiva, tempi da attore brillante rodato da decenni di palcoscenico. Mi lasciavo ipnotizzare da quelle immagini che prorompevano gioia di vivere, mi perdevo in quell’universo carrolliano, di certo plastificato ma vivido e vitale. E poi quei telegiornali con gli avversari esposti al ludibrio (Prodi catturato con la bocca a culo di gallina) e gli inni entusiasmanti come Meno male che Silvio c’è irradiavano un maoismo vestito a festa; erano elementi esotici affluiti dalla cortina di bambù. Ogni volta la folla osannante invocava il caro leader e lui, Silvio Zedong, inamovibile timoniere brianzolo, si concedeva benevolo sprigionando il suo sorriso estatico. Un pontefice profano e birbone: andate in pace, ghe pensi mi. Tutto ciò mi dava l’impressione di un popolarismo vagamente nordcoreano atterrato per puro caso in terra europea. E che dire della ieratica compostezza confuciana di Sandro Bondi, Buddha ridente e mandarino zelante strappato al trinariciuto oblast di Massa-Carrara. Maestri del sofismo al vetriolo (niente a che vedere con la bolsaggine scalfariana) e talentacci della pedata ingaggiati a suon di miliardi per salvaguardare il buon nome del Khanato di Milanello e accendere la fantasia e la passione del popolo, il suo popolo. Ma quale fenomeno rinascimentale! Silvio è stato una scheggia asiatica conficcata nella culla dell’Occidente. Poi, va da sé, la lucida brillantezza aforistica di Mao cedeva il posto al cazzeggio postprandiale, all’umorismo da caserma che propina lubriche facezie, battutacce e calembour da spararsi. Berlusconi si è fatto ritratto pecoreccio di sé stesso, scadendo nel ghignante rattuso tutto assorto a rimirare le vestigia della sua mascolinità. E qui purtroppo occorre esaminare il lato oscuro del nostro, il capopopolo sfolgorante torna pubblicitario calcolatore e si defila perché la celia e la baldoria sono belle quando durano poco poiché, si sa, tutti teniamo famiglia. Così, a partire dal 2011, divenne la stampella degli ambienti che lo avevano defenestrato. Mio zio, staliniano e culturalmente berlusconofobo, gli rinfacciò la defezione: “Ma quali dimissioni! Avrebbe dovuto parlare alla nazione e proclamare: Signori, io non me ne vado”. Dopotutto vedeva in lui l’eterno accentratore, il Lukashenko del Belpaese o, se vi aggrada la definizione di Confalonieri, “un Ceausescu buono”. Berlusconi è stato altresì l’uomo della strada che ha saputo lucrare biecamente sull’importazione di quell’America da esportazione, un’America nient’affatto puritana che è infida melassa antropologica e richiama alla mente la Mahagonny di Brecht:

Ma soprattutto sia ben chiarito


Che qui da noi nulla è proibito.

(Se si hanno i soldi).


Al pari di noi tutti, un figlio del secolo americano. L’indiscusso re Mida dell’intrapresa riusciva a spargere paillettes e a indorare qualsiasi chioma, in barba alla latitudine e al codice genetico: non a caso la sua consacrazione arrivò nel decennio delle finte bionde, nella Milano da bere. La moglie bionda – una ganza mozzaffiato con una capigliatura da poema cavalleresco, mai a suo agio nel ruolo di first lady, che è corsa a riciclarsi editrice e bas-bleu, incarognita e sciupata come spesso accade alle cortigiane ripulite, una delle tante Nanà che costeggiano il teatro – le figlie bionde e vestite da marinarette. I quadretti familiari erano Tableaux Vivants ricopiati paro paro da Norman Rockwell.
Capii troppo tardi che eravamo governati da un Erdogan zuzzurellone, uno spregiudicato pokerista con a disposizone una mano di carte non proprio eccezionale, l’Italia anestetizzata dal benessere alla buona e strenuamente tesa alla farsa godereccia, di fatto commissariata dai vincoli esterni e dai loro cantori e proconsoli. E malgrado ciò lui interponeva i suoi buoni uffici, cornificava in effigie colleghi e convenuti, comprava senatori e deputati dell’opposizione, spediva soldati in perigliose “missioni di pace” facendo buon viso a cattivo gioco al barbatrucco delle guerre al terrorismo islamico. Un po’ domatore e un po’ san Francesco, s’illudeva di poter ammettere la Russia nell’Alleanza Atlantica, fantasticava di condurre l’Orso, ormai addomesticato, nel rutilante circo Fininvest-Mediaset e di persuaderlo a convivere col rapace yankee. Potenza dell’ego!
Oltre a inseguire chimere, il Silvio dell’epoca sapeva destreggiarsi con circospezione tra l’algida steppa e le spiagge assolate di Miami: se la rideva da wannabe americano senza disdegnare i bilaterali con Putin e Gheddafi.
Talvolta – di conserva col suo amico Zeffirelli – confessava di essere uomo di sinistra e socialdemocratico, e paradossalmente aveva ragione. Il trattato di Bengasi, suo canto del cigno, rimane una delle cose più di sinistra e più antifasciste mai realizzate. Nel 2010, infatti, pensò di risarcire i danni causati dalle cavallette del generale Graziani in cambio di fruttuosi accordi commerciali-energetici tra l’Italia e la Libia, sua quarta sponda e bel suol d’amore. Non era terzomondismo parolaio e appiccicoso, bensì apertura previgente e pragmatica alla realtà multicentrica, la vetusta politica filoaraba e mediterranea aggiornata al 2000, farina del sacco di Mussolini, Mattei, Moro, Craxi e Andreotti; un sentiero da percorrere umilmente a piccoli passi, mettendo in ombra la grandeur, rinunciando al rombo del cannon. Londra, Parigi e Washington stavano alla finestra scatenandogli contro la canea del cronismo tossico, dei philosophes d’accatto e dei Pm d’assalto. E poi l’atavico riflesso condizionato degli ambienti artistici e intellettuali, secondo cui il potere politico è irrimediabilmente negativo e va contestato a prescindere. Lui, sornione, assestava qualche colpo basso, e con le algide lezioni di vita dei maestri del giurismo ci si puliva le scarpe, concedendosi irriverenti sonnellini ristoratori alle commemorazioni repubblicane. Dotato di una clownerie per nulla lombarda, spiccatamente meridionale e direi quasi levantina, sapeva ammaliare l’ospite straniero rispolverando lo smoking liso e il repertorio di intrattenitore e chansonnier. E poi le bandane, le libagioni, i siparietti neomelodici e le patonzone da fumetto raccattate nel corso dei suoi tour dionisiaci, che gli hanno procurato la nomea di viveur cinico.
Non era cinismo, era incompresa indecenza parigina, era il sogno personalissimo di realizzare il sultanato delle donne, la bestia nera della “società civile” micromeghiana assorta a frugacchiare nelle mutande e a far luce su Ruby Rubacuori:
demi-vierge oppure baldracca scassata? Senza scordare il suaccennato mito dell’eterna giovinezza inseguito sino allo sfinimento: forever young. Quella di Berlusconi è stata una italianissima e bonaria rivoluzione, e come tale incompleta e irta di aspetti negativi se non mostruosi, emanante il caratteristico lezzo di sagrestia ma soprattutto di camerino d’avanspettacolo. Una incompiuta, a differenza del capolavoro calcistico realizzato col Milan, l’epopea durata un quarto di secolo e costellata da bel giuoco (licenza aulica del Dottore), trionfi e record d’ogni genere. Da almeno un decennio era finito nel dimenticatoio, dalla cresta dell’onda a quella dell’ombra, dal Milan stellare – piovuto come una meteora nella serie A catenacciara dominata dalla Vecchia Signora-Fiat – al Monza crepuscolare. Adesso sei al cospetto del Padre Eterno, a cui di sicuro ti rivolgerai con il più classico dei “Mi consenta”. Addio Presidente, insegna agli angeli le tue barzellette oscene.

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