Riporto un brano tratto dal libro di Stefania Limiti Doppio Livello. Come si organizza la destabilizzazione in Italia
Un uomo della Gladio siciliana mi ha parlato concretamente di un «doppio livello» nella strage di Capaci. Lo incontrai nel maggio 2010 e durante una lunga conversazione mi disse: «Non penserà mica che fu opera soltanto di quattro mafiosi?». Un'allusione ermetica, ma molto interessante. Si è sempre parlato della convergenza di interessi tra Cosa nostra ed entità esterne all'organizzazione: fin da subito, fin dalle prime ore dopo la potente esplosione al chilometro 4 dell'autostrada Palermo-Trapani che aprì una voragine lunga più di dodici metri, larga quattordici e profonda circa tre e mezzo. L'allora ministro degli Interni Vincenzo Scotti, che ebbe sicuramente accesso alle informazioni più riservate, è convinto che l'organizzazione della strage abbia avuto modalità terroristiche e collegamenti internazionali. Gli esperti dell'Fbi, chiamati a sostenere gli sforzi dei nostri investigatori, non ebbero dubbi: «Questa non è solo roba di mafia siciliana, sono stati aiutati, si sono mosse forze internazionali». Le competenze messe all'opera per la strage erano alquanto sofisticate: lo dimostrò il blackout telefonico che colpì la zona di Capaci subito dopo l'attentato, un classico della scena delle stragi «politiche» – da via Fani alla notte del 27 luglio 1993, quando furono isolate le linee di Palazzo Chigi.
La Sip spiegò l'inconveniente «con la rottura di un cavo ottico che correva lungo l'autostrada, rimasto danneggiato durante l'esplosione. Ma, secondo alcune testimonianze raccolte sul posto dai giornalisti, già tre ore prima dell'attentato erano stati avvertiti strani inconvenienti. E muti erano rimasti anche i telefoni cellulari. Una circostanza che non poteva essere spiegata con la rottura del cavo ottico. Le indagini non hanno mai approfondito questo aspetto come, del resto, nessuna inchiesta ha mai fatto luce sui blackout telefonici puntualmente avvenuti in concomitanza di stragi e attacchi terroristici». Del resto, sempre in tema di classici delle stragi, va ricordato che l'agenzia di stampa di Ugo Dell'Amico, AGIR (Agenzia Giornalistica Repubblica), anticipò con due articoli pubblicati il 21 e il 22 maggio 1992 che stava per accadere «un bel botto esterno» (e anche il rapimento di Aldo Moro, all'epoca, era stato annunciato qualche ora prima che avvenisse). La formula dei «concorrenti esterni» ai delitti mafiosi è stata ormai consacrata da un vasta quantità di atti giudiziari: dall'attentato all'Addaura al ritrovamento di proiettili nei frequentatissimi Giardini di Boboli di Firenze, dalle stragi di Capaci, via D'Amelio, Firenze, Roma e Milano, fino a quella fallita allo stadio Olimpico (che doveva colpire i carabinieri) e all'autobomba non esplosa davanti alla sede del governo, Palazzo Chigi. Anche un vecchio padrino come Totò Riina, a cui il ruolo impone di non parlare mai a caso, ha ammesso di essere stato giocato: ha detto infatti che la morte di Borsellino fu un «delitto di Stato», commesso da altri, e ha chiesto di non essere trattato come il parafulmine d'Italia. Come dire: non ci sono stato solo io, allargate lo sguardo... Affidò il messaggio, un giorno di luglio 2009, al suo avvocato, Luca Cianferoni, un fiorentino che si fa molte domande e che nelle aule dei tribunali cita Nanni Moretti e Pier Paolo Pasolini. Secondo Cianferoni, «la strage di Capaci è al 90 per cento di mafia, il resto lo hanno messo altri, per quella di via D'Amelio siamo 50 e 50 e per le stragi sul continente la percentuale mafiosa scende vertiginosamente». La lista di chi ha espresso subito autorevoli dubbi è lunghissima. E allora non era ancora noto un particolare importante che spezza la linearità della strage mafiosa: la trappola mortale contro il nemico storico di Cosa nostra era già pronta prima del 23 maggio 1992. Nel febbraio di quello stesso anno, un gruppo di fuoco composto da mafiosi di Brancaccio e della provincia di Trapani era stato inviato a Roma per eliminare Giovanni Falcone con le armi tradizionali: niente esplosivo, niente botti, solo i proiettili mafiosi avrebbero dovuto abbattere l'uomo che più di tutti aveva penetrato i segreti dei boss e scardinato il loro tradizionale assetto di potere. Dopo la sentenza del maxiprocesso, infatti, la storica convivenza con la Democrazia cristiana era completamente andata in pezzi: era chiaro che la Dc non era più in grado di garantire gli interessi di Cosa nostra.
L'operazione sarebbe stata semplice: «Due picciotti buoni bastavano». Ma poi, improvvisamente, tutto si ferma.
Il 4 marzo 1992 Vincenzo Sinacori, che faceva parte di quel gruppo di fuoco, ricevette il contrordine da Riina. Erano tutti richiamati a casa, in Sicilia, «l'attentato si sarebbe svolto diversamente, aveva ricevuto rassicurazioni in tal senso». C'era qualcuno che voleva fare le cose in grande. Non si è mai saputo chi fosse. Si può ipotizzare che qualcuno abbia dato loro assicurazioni... L'assicurazione poteva essere una sola: l'omicidio fatelo, ma fatelo a Palermo. Non preoccupatevi della risposta dello Stato, non ci saranno conseguenze eccessive. Nell'elenco delle certezze, del resto, non possiamo dimenticare la fondamentale, ma forse incompleta indicazione data da Francesco Di Carlo, il boss di Altofonte amico del capo dei servizi segreti Giuseppe Santovito e crocevia a Londra dei traffici di stupefacenti e del riciclaggio. Disse Di Carlo che, dopo il fallito attentato dell'Addaura, nel carcere inglese di Full Sutton, dove fu rinchiuso per un po' di tempo, un compagno di cella – un certo Nezar Hindawi, un palestinese che lavorava per i servizi segreti siriani – lo mise in contatto con alcuni 007 che gli chiesero aiuto per uccidere Falcone. Di Carlo fece il nome di suo cugino, Antonino Gioè, che partecipò, infatti, alla strage di Capaci. Rinchiuso a Rebibbia il 29 luglio 1993, a ridosso delle bombe di Milano, Firenze e Roma, Gioè fu trovato impiccato nella sua cella. Si disse che si era suicidato, ma nessuno ci ha mai creduto. L'indicazione di Di Carlo, per quanto precisa nella sostanza – strutture occulte ma ufficiali si stavano muovendo per eliminare il giudice italiano – è avvolta da ombre: non si capisce bene di che nazionalità fossero quegli agenti in cerca di manovali da impiegare per una strage imminente. Nel libro-testimonianza di Di Carlo c'è scritto che i tre uomini hanno accenti diversi: «Uno deve essere inglese, uno americano e il terzo, un uomo dalla carnagione olivastra che parla un italiano e un inglese quasi perfetti, ha un accento che tradisce un'origine araba o israeliana [sic! NdA]». Un accostamento strano, forse un modo per dire che c'erano anche gli israeliani di mezzo (gli agenti israeliani sono tra i più esperti nelle operazioni sotto falsa bandiera: si presentano frequentemente con identità fittizie, altrimenti pochi sarebbero disponibili a cooperare con loro nel mondo arabo)? Alcune fonti sostengono che Di Carlo a Full Sutton sia stato visitato per «due volte nel giro di quattro-sei mesi da esponenti dei servizi segreti di diversi paesi, tra cui inglesi e israeliani, che gli avevano chiesto, anche non in maniera sempre garbata, un interessamento per eliminare Falcone». Anche ammessa l'improbabile ipotesi che i tre avessero lasciato i loro nomi e cognomi all'ingresso del carcere, gli inglesi non contribuirono a fare chiarezza sulle loro identità: il procuratore Tescaroli parlò di «riottosa indisponibilità delle autorità della Gran Bretagna a collaborare per l'espletamento della commissione rogatoria richiesta, tesa a verificare le indicazioni del collaboratore di giustizia Di Carlo». Il «buco nero» non fu colmato.
La provocazione dell'uomo di Gladio era davvero interessante perché si legava alla domanda di fondo e cioè: chi ha suggerito a Riina di non uccidere Giovanni Falcone a Roma? Chi gli ha proposto un'azione di stampo eversivo-terroristico estranea alla tradizione e alla tecnica mafiosa? Chi gli ha proposto di rinunciare ad agire nella capitale, dove Falcone era comunque vulnerabile, e di usare invece 500 chili di esplosivo? Finché non si risponderà a questa domanda, ha detto esplicitamente l'ex procuratore Grasso in parlamento, «sarà difficile l'effettivo accertamento della verità che sta dietro a questi fatti». Tornano in mente le parole dell'ex gladiatore: «Non penserà mica che fu opera solo di quattro mafiosi? Anche i loro killer più spietati sono mezze calzette in fatto di precisione del tiro con le armi... sanno uccidere solo sparando a non più di cinque metri di distanza e scaricando interi caricatori... sanno fare un lavoro da macellai».
Un uomo della Gladio siciliana mi ha parlato concretamente di un «doppio livello» nella strage di Capaci. Lo incontrai nel maggio 2010 e durante una lunga conversazione mi disse: «Non penserà mica che fu opera soltanto di quattro mafiosi?». Un'allusione ermetica, ma molto interessante. Si è sempre parlato della convergenza di interessi tra Cosa nostra ed entità esterne all'organizzazione: fin da subito, fin dalle prime ore dopo la potente esplosione al chilometro 4 dell'autostrada Palermo-Trapani che aprì una voragine lunga più di dodici metri, larga quattordici e profonda circa tre e mezzo. L'allora ministro degli Interni Vincenzo Scotti, che ebbe sicuramente accesso alle informazioni più riservate, è convinto che l'organizzazione della strage abbia avuto modalità terroristiche e collegamenti internazionali. Gli esperti dell'Fbi, chiamati a sostenere gli sforzi dei nostri investigatori, non ebbero dubbi: «Questa non è solo roba di mafia siciliana, sono stati aiutati, si sono mosse forze internazionali». Le competenze messe all'opera per la strage erano alquanto sofisticate: lo dimostrò il blackout telefonico che colpì la zona di Capaci subito dopo l'attentato, un classico della scena delle stragi «politiche» – da via Fani alla notte del 27 luglio 1993, quando furono isolate le linee di Palazzo Chigi.
La Sip spiegò l'inconveniente «con la rottura di un cavo ottico che correva lungo l'autostrada, rimasto danneggiato durante l'esplosione. Ma, secondo alcune testimonianze raccolte sul posto dai giornalisti, già tre ore prima dell'attentato erano stati avvertiti strani inconvenienti. E muti erano rimasti anche i telefoni cellulari. Una circostanza che non poteva essere spiegata con la rottura del cavo ottico. Le indagini non hanno mai approfondito questo aspetto come, del resto, nessuna inchiesta ha mai fatto luce sui blackout telefonici puntualmente avvenuti in concomitanza di stragi e attacchi terroristici». Del resto, sempre in tema di classici delle stragi, va ricordato che l'agenzia di stampa di Ugo Dell'Amico, AGIR (Agenzia Giornalistica Repubblica), anticipò con due articoli pubblicati il 21 e il 22 maggio 1992 che stava per accadere «un bel botto esterno» (e anche il rapimento di Aldo Moro, all'epoca, era stato annunciato qualche ora prima che avvenisse). La formula dei «concorrenti esterni» ai delitti mafiosi è stata ormai consacrata da un vasta quantità di atti giudiziari: dall'attentato all'Addaura al ritrovamento di proiettili nei frequentatissimi Giardini di Boboli di Firenze, dalle stragi di Capaci, via D'Amelio, Firenze, Roma e Milano, fino a quella fallita allo stadio Olimpico (che doveva colpire i carabinieri) e all'autobomba non esplosa davanti alla sede del governo, Palazzo Chigi. Anche un vecchio padrino come Totò Riina, a cui il ruolo impone di non parlare mai a caso, ha ammesso di essere stato giocato: ha detto infatti che la morte di Borsellino fu un «delitto di Stato», commesso da altri, e ha chiesto di non essere trattato come il parafulmine d'Italia. Come dire: non ci sono stato solo io, allargate lo sguardo... Affidò il messaggio, un giorno di luglio 2009, al suo avvocato, Luca Cianferoni, un fiorentino che si fa molte domande e che nelle aule dei tribunali cita Nanni Moretti e Pier Paolo Pasolini. Secondo Cianferoni, «la strage di Capaci è al 90 per cento di mafia, il resto lo hanno messo altri, per quella di via D'Amelio siamo 50 e 50 e per le stragi sul continente la percentuale mafiosa scende vertiginosamente». La lista di chi ha espresso subito autorevoli dubbi è lunghissima. E allora non era ancora noto un particolare importante che spezza la linearità della strage mafiosa: la trappola mortale contro il nemico storico di Cosa nostra era già pronta prima del 23 maggio 1992. Nel febbraio di quello stesso anno, un gruppo di fuoco composto da mafiosi di Brancaccio e della provincia di Trapani era stato inviato a Roma per eliminare Giovanni Falcone con le armi tradizionali: niente esplosivo, niente botti, solo i proiettili mafiosi avrebbero dovuto abbattere l'uomo che più di tutti aveva penetrato i segreti dei boss e scardinato il loro tradizionale assetto di potere. Dopo la sentenza del maxiprocesso, infatti, la storica convivenza con la Democrazia cristiana era completamente andata in pezzi: era chiaro che la Dc non era più in grado di garantire gli interessi di Cosa nostra.
L'operazione sarebbe stata semplice: «Due picciotti buoni bastavano». Ma poi, improvvisamente, tutto si ferma.
Il 4 marzo 1992 Vincenzo Sinacori, che faceva parte di quel gruppo di fuoco, ricevette il contrordine da Riina. Erano tutti richiamati a casa, in Sicilia, «l'attentato si sarebbe svolto diversamente, aveva ricevuto rassicurazioni in tal senso». C'era qualcuno che voleva fare le cose in grande. Non si è mai saputo chi fosse. Si può ipotizzare che qualcuno abbia dato loro assicurazioni... L'assicurazione poteva essere una sola: l'omicidio fatelo, ma fatelo a Palermo. Non preoccupatevi della risposta dello Stato, non ci saranno conseguenze eccessive. Nell'elenco delle certezze, del resto, non possiamo dimenticare la fondamentale, ma forse incompleta indicazione data da Francesco Di Carlo, il boss di Altofonte amico del capo dei servizi segreti Giuseppe Santovito e crocevia a Londra dei traffici di stupefacenti e del riciclaggio. Disse Di Carlo che, dopo il fallito attentato dell'Addaura, nel carcere inglese di Full Sutton, dove fu rinchiuso per un po' di tempo, un compagno di cella – un certo Nezar Hindawi, un palestinese che lavorava per i servizi segreti siriani – lo mise in contatto con alcuni 007 che gli chiesero aiuto per uccidere Falcone. Di Carlo fece il nome di suo cugino, Antonino Gioè, che partecipò, infatti, alla strage di Capaci. Rinchiuso a Rebibbia il 29 luglio 1993, a ridosso delle bombe di Milano, Firenze e Roma, Gioè fu trovato impiccato nella sua cella. Si disse che si era suicidato, ma nessuno ci ha mai creduto. L'indicazione di Di Carlo, per quanto precisa nella sostanza – strutture occulte ma ufficiali si stavano muovendo per eliminare il giudice italiano – è avvolta da ombre: non si capisce bene di che nazionalità fossero quegli agenti in cerca di manovali da impiegare per una strage imminente. Nel libro-testimonianza di Di Carlo c'è scritto che i tre uomini hanno accenti diversi: «Uno deve essere inglese, uno americano e il terzo, un uomo dalla carnagione olivastra che parla un italiano e un inglese quasi perfetti, ha un accento che tradisce un'origine araba o israeliana [sic! NdA]». Un accostamento strano, forse un modo per dire che c'erano anche gli israeliani di mezzo (gli agenti israeliani sono tra i più esperti nelle operazioni sotto falsa bandiera: si presentano frequentemente con identità fittizie, altrimenti pochi sarebbero disponibili a cooperare con loro nel mondo arabo)? Alcune fonti sostengono che Di Carlo a Full Sutton sia stato visitato per «due volte nel giro di quattro-sei mesi da esponenti dei servizi segreti di diversi paesi, tra cui inglesi e israeliani, che gli avevano chiesto, anche non in maniera sempre garbata, un interessamento per eliminare Falcone». Anche ammessa l'improbabile ipotesi che i tre avessero lasciato i loro nomi e cognomi all'ingresso del carcere, gli inglesi non contribuirono a fare chiarezza sulle loro identità: il procuratore Tescaroli parlò di «riottosa indisponibilità delle autorità della Gran Bretagna a collaborare per l'espletamento della commissione rogatoria richiesta, tesa a verificare le indicazioni del collaboratore di giustizia Di Carlo». Il «buco nero» non fu colmato.
La provocazione dell'uomo di Gladio era davvero interessante perché si legava alla domanda di fondo e cioè: chi ha suggerito a Riina di non uccidere Giovanni Falcone a Roma? Chi gli ha proposto un'azione di stampo eversivo-terroristico estranea alla tradizione e alla tecnica mafiosa? Chi gli ha proposto di rinunciare ad agire nella capitale, dove Falcone era comunque vulnerabile, e di usare invece 500 chili di esplosivo? Finché non si risponderà a questa domanda, ha detto esplicitamente l'ex procuratore Grasso in parlamento, «sarà difficile l'effettivo accertamento della verità che sta dietro a questi fatti». Tornano in mente le parole dell'ex gladiatore: «Non penserà mica che fu opera solo di quattro mafiosi? Anche i loro killer più spietati sono mezze calzette in fatto di precisione del tiro con le armi... sanno uccidere solo sparando a non più di cinque metri di distanza e scaricando interi caricatori... sanno fare un lavoro da macellai».
Stefania Limiti –
Doppio Livello. Come si organizza la destabilizzazione in Italia, Chiarelettere, 2013.