La presidente del consiglio Giorgia Meloni ha dichiarato – ammiccato? – che lo Stato non crea né ricchezza né posti di lavoro. La Meloni, dall'alto del suo seggio di illustrissima impiegata pubblica di lungo corso, ha profferito una solenne boiata. Da fautore dell'economia mista, non mi sognerei mai di affermare “il privato non crea ricchezza e posti di lavoro”. Lo Stato, se non fosse immobilizzato da vincoli esterni di molteplice natura, potrebbe sovvenzionare la ricerca, realizzare infrastrutture di vitale importanza economica e geopolitica, promuovere o rafforzare i settori strategici. Ciò aiuterebbe il precario, il disoccupato e l’imprenditore di taglia grande-media-piccola più di mille spacconate liberiste prive di fondamento, di esternazioni truculente e misantropiche così popolari presso la Bocconi e la scuola di Chicago, volgarizzate dai vari dottrinari come Nicola Porro, i quali fingono di fare la fronda al globalismo e di accattivarsi le grazie della sciura Mariuccia che non arriva alla fine del mese. Le tasse oggettivamente sono troppo alte, i progressisti che cantano “ci vuole un Fisco bestiale poiché se paghiamo tutti paghiamo meno” andrebbero internati, ma questo è un altro discorso. Lo Stato ha le sue prerogative, al netto dei libertarismi sciamannati; è un leviatano, un mostro al pari del Mercato lasciato a sé stesso o sotto la custodia tutt’altro che spassionata delle lobby e dei loro santoni Schwab e Harari, i quali si intestano la salvezza dell’ambiente e la missione di trasumanare senza organizzare. E poi nella realtà non esistono modelli perfettamente puri e nessuno, magari dopo una serrata disputa sopra i massimi sistemi, si cura di far trionfare il proprio modello di riferimento. Nella realtà il Potere opera seguendo i dettami del pragmatismo e lascia i dogmatismi ai consessi di Boldrin e Scacciavillani, alle ciarle alate di Panebianco. Nella vita di tutti i giorni teoria e prassi convivono, si mescolano e si confondono. Il “liberismo”, qualunque significato abbia questo termine inflazionato e spesso soggetto a travisamenti, è una impostura che prescrive privatizzazioni, deregulation, libero scambio e la lesina senza tenere in conto la specificità e il grado di sviluppo dei singoli paesi. Il liberismo globalista, oggi come nell’Ottocento, torna utile all’egemone di turno, che all’occorrenza ne trasgredisce bellamente i precetti: le sanzioni spesso e volentieri calpestano il principio del libero commercio. Dove passano le merci non passano gli eserciti, asseriva Bastiat: una popolarissima sciatteria giuridica, economica e militare in forma aforistica. Prendiamo la guerra dell'oppio anglo-cinese. La “merce” britannica “passò” attraverso le triadi (stranamente somiglianti alle nostre mafie), il governo cinese mangiò la foglia e chiuse i flussi, poiché quel tipo di commercio dissanguava le finanze e pervertiva il tessuto sociale. Lin Zexu, il governatore dello Hunan, fece dissolvere in un miscuglio nauseabondo di acqua, sale e calce l’oppio contenuto in decine di migliaia di casse. I britannici, da par loro, inviarono le cannoniere a ristabilire l’equilibrio spontaneo del libero mercato. Un secolo dopo, vennero le sanzioni iugulatorie e lo sciamare dei bombardieri. Il libero commercio garantisce la pace solo se il fluire delle merci è moderato, proporzionato e fecondo per entrambe le parti, altrimenti legittima l’unipolarismo colonialistico. Tanto gli hayekiani quanto i keynesiani non afferrano diversi aspetti dell’odierno capitalismo. È nella natura degli individui prendere in considerazione i bisogni del futuro? Probabilmente si, ma anche lo Stato ci è riuscito, si è fatto innovatore e, seguendo legittime ragioni militari, ha creato la rete di Internet. Esistono cose troppo complesse per lo Stato che vanno lasciate ai singoli individui, sostiene Hayek. Giusto, ma è anche vero che esistono cose troppo complesse per il singolo individuo, foss’anche un Prometeo dalle spalle larghissime di randiana (da Ayn Rand) memoria, oppure il Robinson signore assoluto e solitario relegato nella sua isoletta. L’uomo non è un’isola, il tanto decantato “scambio” è interazione, il capitalismo è un rapporto sociale che mette in contatto – e in attrito – singoli individui e classi. E poi dubito che ci siano cose troppe ostiche per uno Stato che può avvalersi di supercomputer e legioni di esperti e ricercatori, oltre che di apparati di coercizione sempre più sofisticati? Non a caso la liberaldemocrazia, al cospetto delle oligarchie tecnocratiche (rammentiamo che dietro lo Stato ci sono sempre gruppi sociali, uomini in carne e ossa) che si servono con disinvoltura degli ultimi ritrovati della biopolitica, appare un ferrovecchio. C’è poco da stare allegri, ma tant’è. La statistica e la Storia, invece, raccomandano la necessità dell’intervento statale mirato, poiché l'intervento del potere legislativo e dell'amministrazione è ovunque necessario ed evidente, più si sviluppa l'economia della nazione. Internet non lo ha inventato il cumenda Cerutti o Flavio Briatore, peraltro perfetto nel ruolo di capitalista glam rock intento a commercializzare il sibaritismo Billionaire e ad apparecchiare saturnali. Come scrive Mariana Mazzucato ne Lo Stato innovatore: “Il genio e l’«avventatezza» di Steve Jobs sono riusciti a produrre profitti e successi in gran quantità solo perché la Apple ha potuto cavalcare l’onda di imponenti investimenti pubblici nelle tecnologie «rivoluzionarie» che sono alla base dell’iPhone e dell’iPad: internet, il Gps, gli schermi tattili e le tecnologie di comunicazione. Senza queste tecnologie finanziate dallo Stato, Jobs e la sua «avventatezza» non avrebbero avuto nessuna onda da cavalcare”.

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