di Nicholas Wapshott
Lyndon Johnson, ringalluzzito dal boom economico e dall’aumento delle entrate, si diede da fare per costruire una sua eredità. Nel maggio 1964 dichiarò alla University of Michigan di Ann Arbor: “Abbiamo l’opportunità di progredire non soltanto verso una società ricca e potente, ma verso la Great Society, la grande società”. Giurò di sconfiggere la povertà e le disuguaglianze razziali, di proteggere le campagne, di garantire un’istruzione a tutti i bambini e “ricostruire tutti gli Stati Uniti metropolitani”. Forte della vittoria a valanga sull’ultraconservatore Barry Goldwater alle elezioni del 1964, Johnson, durante gli anni trenta convinto new dealer, avviò una grande ondata di spesa pubblica. Come racconta il deputato dell’Arkansas Wilbur Mills: “Johnson è sempre stato favorevole alla spesa pubblica ma in modo diverso da Kennedy, in un certo senso. Riteneva che potevi sempre stimolare meglio l’economia con i soldi pubblici che non con gli investimenti privati”. Il programma di Johnson, radicale quanto qualsiasi politica avesse tentato Franklin Roosevelt, estese i diritti civili agli afroamericani, dichiarò “guerra alla povertà” attraverso il diritto ai sussidi federali e varò il Medicare per garantire le cure mediche a chiunque avesse più di sessantacinque anni e il Medicaid a chi non poteva permettersi le assicurazioni sanitarie. Gli anni sessanta furono un periodo caratterizzato da un benessere senza pari.
Se il decennio precedente era stato quello della diffusione della ricchezza, i sixties fecero diventare discretamente agiato il lavoratore medio. Lussi come il televisore a colori, i viaggi in aereo e una seconda auto nel vialetto diventarono comuni. Il duro lavoro cedette il passo a una fetta sempre maggiore di tempo libero. Lungi dal favorire un autoritarismo strisciante, come aveva predetto Hayek, il nuovo benessere prodotto dalla pianificazione keynesiana offriva nuove forme di libertà. Le donne, gli afroamericani e i giovani cominciarono a sfruttarle. La Rivoluzione keynesiana fu accompagnata da una rivoluzione culturale che metteva in discussione i costumi tradizionali di una società più povera e codina. Il miracolo keynesiano continuò a operare a favore di Johnson. La produttività aumentò, il salario reale raddoppiò rispetto agli anni di Eisenhower e i senza lavoro calarono nei quattro anni successivi dal 4,5% nel 1965 sino a una media del 3,9%. Johnson accrebbe la fetta del bilancio federale stanziata per i programmi contro la povertà dal 4,7% nel 1961 al 7,9% nel 1969.
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Una frase piena di candore nel discorso sullo stato dell’Unione del 1970 tradì quanto c’era di calcolato in questo cambiamento di linea di Richard Nixon. “Sono disposto ad ammettere la popolarità politica dei programmi di spesa, in particolare nell’anno elettorale.” Il più apertamente opportunista dei presidenti del dopoguerra lasciò che fosse la propria ambizione, anziché l’interesse della nazione, a guidare l’economia, soltanto per garantirsi la rielezione.
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Milton Friedman, consulente economico di Nixon durante la campagna elettorale del 1968, ha sentenziato: “Nixon è stato il presidente degli Stati Uniti più socialista del ventesimo secolo” (Intervista a Milton Friedman, 1 ottobre 2000, Commanding Heights, PBS)
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Nixon convocò un summit di consiglieri a Camp David nel giugno 1971 per discutere il da farsi. Scoprì che i suoi ospiti erano disorientati. Stein invitava a “una politica fiscale più stimolante, un abbassamento delle tasse o un aumento della spesa o entrambe le cose”, mentre Shultz proponeva tagli alla spesa e austerity. Nixon decise di non muovere un dito, una politica nota come “i Quattro No: no all’aumento della spesa, no ai tagli delle tasse, no ai controlli sui prezzi e sulle paghe e no alla svalutazione del dollaro”. Però nel giro di pochi mesi fece una perfetta inversione a U. All’interno di quella che chiamò “Nuova politica economica” approvò la svalutazione del dollaro seguita dall’uscita della valuta dal gold standard; uno stimolo finanziario costituito da tasse inferiori e un aumento della spesa che fece sprofondare il budget federale in un disavanzo di 40 miliardi di dollari; un prestito federale a un interesse vantaggioso per impedire che fallisse la Lockheed, una fabbrica di aeroplani; e nell’agosto 1971 un bando ufficiale all’aumento dei prezzi e delle paghe. In seguito rinunciò al libero scambio e impose un balzello sulle importazioni del 10%. Fu un voltafaccia che lasciò perplessi persino i keynesiani, anche perché una parte cruciale dell’eredità di Keynes, il cosiddetto sistema di Bretton Woods di valute agganciate al dollaro e tramite il dollaro all’oro, sparì dalla sera alla mattina.
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Il consigliere economico del presidente Reagan, Herbert Stein, osservò che “l’aspetto notevole della politica economica di Reagan, a parte il linguaggio, è stata la dimensione dei suoi deficit”. Il presidente, che si crogiolava al sole del boom economico, minimizzò il disavanzo record. “Il deficit non mi preoccupa, è abbastanza grande da badare a se stesso”, disse con una battuta. Per tanti keynesiani la Reaganomics era poco più di un gioco delle tre carte, un trucchetto politico che, dietro la virile retorica hayekiana sulla drastica riduzione delle dimensioni dello stato, avviava un’ondata di spesa nel settore della Difesa che innescava la domanda aggregata e la crescita economica. Secondo il premio Nobel Robert Solow, economista del MIT, “il boom durato dal 1982 al 1990 è stato architettato dall’amministrazione Reagan in perfetto spirito keynesiano, aumentando la spesa e abbassando le tasse, un classico caso di deficit di bilancio espansionista”.
John Kenneth Galbraith era d’accordo. “Reagan è arrivato alla presidenza mentre il paese viveva una recessione abbastanza sgradevole e ha adottato tante robuste politiche keynesiane. Uno dei risultati è stato l’economia in ripresa negli anni ottanta sotto Ronald Reagan. E uno degli aspetti divertenti è che è stato fatto da persone che non capivano sul serio Keynes e lo criticavano. Abbiamo così avuto un involontario keynesismo anonimo.”
Brani tratti dal libro di Nicholas Wapshott “Keynes o Hayek. Lo scontro che ha definito l’economia moderna”, Feltrinelli, 2015.
Lyndon Johnson, ringalluzzito dal boom economico e dall’aumento delle entrate, si diede da fare per costruire una sua eredità. Nel maggio 1964 dichiarò alla University of Michigan di Ann Arbor: “Abbiamo l’opportunità di progredire non soltanto verso una società ricca e potente, ma verso la Great Society, la grande società”. Giurò di sconfiggere la povertà e le disuguaglianze razziali, di proteggere le campagne, di garantire un’istruzione a tutti i bambini e “ricostruire tutti gli Stati Uniti metropolitani”. Forte della vittoria a valanga sull’ultraconservatore Barry Goldwater alle elezioni del 1964, Johnson, durante gli anni trenta convinto new dealer, avviò una grande ondata di spesa pubblica. Come racconta il deputato dell’Arkansas Wilbur Mills: “Johnson è sempre stato favorevole alla spesa pubblica ma in modo diverso da Kennedy, in un certo senso. Riteneva che potevi sempre stimolare meglio l’economia con i soldi pubblici che non con gli investimenti privati”. Il programma di Johnson, radicale quanto qualsiasi politica avesse tentato Franklin Roosevelt, estese i diritti civili agli afroamericani, dichiarò “guerra alla povertà” attraverso il diritto ai sussidi federali e varò il Medicare per garantire le cure mediche a chiunque avesse più di sessantacinque anni e il Medicaid a chi non poteva permettersi le assicurazioni sanitarie. Gli anni sessanta furono un periodo caratterizzato da un benessere senza pari.
Se il decennio precedente era stato quello della diffusione della ricchezza, i sixties fecero diventare discretamente agiato il lavoratore medio. Lussi come il televisore a colori, i viaggi in aereo e una seconda auto nel vialetto diventarono comuni. Il duro lavoro cedette il passo a una fetta sempre maggiore di tempo libero. Lungi dal favorire un autoritarismo strisciante, come aveva predetto Hayek, il nuovo benessere prodotto dalla pianificazione keynesiana offriva nuove forme di libertà. Le donne, gli afroamericani e i giovani cominciarono a sfruttarle. La Rivoluzione keynesiana fu accompagnata da una rivoluzione culturale che metteva in discussione i costumi tradizionali di una società più povera e codina. Il miracolo keynesiano continuò a operare a favore di Johnson. La produttività aumentò, il salario reale raddoppiò rispetto agli anni di Eisenhower e i senza lavoro calarono nei quattro anni successivi dal 4,5% nel 1965 sino a una media del 3,9%. Johnson accrebbe la fetta del bilancio federale stanziata per i programmi contro la povertà dal 4,7% nel 1961 al 7,9% nel 1969.
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Una frase piena di candore nel discorso sullo stato dell’Unione del 1970 tradì quanto c’era di calcolato in questo cambiamento di linea di Richard Nixon. “Sono disposto ad ammettere la popolarità politica dei programmi di spesa, in particolare nell’anno elettorale.” Il più apertamente opportunista dei presidenti del dopoguerra lasciò che fosse la propria ambizione, anziché l’interesse della nazione, a guidare l’economia, soltanto per garantirsi la rielezione.
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Milton Friedman, consulente economico di Nixon durante la campagna elettorale del 1968, ha sentenziato: “Nixon è stato il presidente degli Stati Uniti più socialista del ventesimo secolo” (Intervista a Milton Friedman, 1 ottobre 2000, Commanding Heights, PBS)
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Nixon convocò un summit di consiglieri a Camp David nel giugno 1971 per discutere il da farsi. Scoprì che i suoi ospiti erano disorientati. Stein invitava a “una politica fiscale più stimolante, un abbassamento delle tasse o un aumento della spesa o entrambe le cose”, mentre Shultz proponeva tagli alla spesa e austerity. Nixon decise di non muovere un dito, una politica nota come “i Quattro No: no all’aumento della spesa, no ai tagli delle tasse, no ai controlli sui prezzi e sulle paghe e no alla svalutazione del dollaro”. Però nel giro di pochi mesi fece una perfetta inversione a U. All’interno di quella che chiamò “Nuova politica economica” approvò la svalutazione del dollaro seguita dall’uscita della valuta dal gold standard; uno stimolo finanziario costituito da tasse inferiori e un aumento della spesa che fece sprofondare il budget federale in un disavanzo di 40 miliardi di dollari; un prestito federale a un interesse vantaggioso per impedire che fallisse la Lockheed, una fabbrica di aeroplani; e nell’agosto 1971 un bando ufficiale all’aumento dei prezzi e delle paghe. In seguito rinunciò al libero scambio e impose un balzello sulle importazioni del 10%. Fu un voltafaccia che lasciò perplessi persino i keynesiani, anche perché una parte cruciale dell’eredità di Keynes, il cosiddetto sistema di Bretton Woods di valute agganciate al dollaro e tramite il dollaro all’oro, sparì dalla sera alla mattina.
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Il consigliere economico del presidente Reagan, Herbert Stein, osservò che “l’aspetto notevole della politica economica di Reagan, a parte il linguaggio, è stata la dimensione dei suoi deficit”. Il presidente, che si crogiolava al sole del boom economico, minimizzò il disavanzo record. “Il deficit non mi preoccupa, è abbastanza grande da badare a se stesso”, disse con una battuta. Per tanti keynesiani la Reaganomics era poco più di un gioco delle tre carte, un trucchetto politico che, dietro la virile retorica hayekiana sulla drastica riduzione delle dimensioni dello stato, avviava un’ondata di spesa nel settore della Difesa che innescava la domanda aggregata e la crescita economica. Secondo il premio Nobel Robert Solow, economista del MIT, “il boom durato dal 1982 al 1990 è stato architettato dall’amministrazione Reagan in perfetto spirito keynesiano, aumentando la spesa e abbassando le tasse, un classico caso di deficit di bilancio espansionista”.
John Kenneth Galbraith era d’accordo. “Reagan è arrivato alla presidenza mentre il paese viveva una recessione abbastanza sgradevole e ha adottato tante robuste politiche keynesiane. Uno dei risultati è stato l’economia in ripresa negli anni ottanta sotto Ronald Reagan. E uno degli aspetti divertenti è che è stato fatto da persone che non capivano sul serio Keynes e lo criticavano. Abbiamo così avuto un involontario keynesismo anonimo.”
Brani tratti dal libro di Nicholas Wapshott “Keynes o Hayek. Lo scontro che ha definito l’economia moderna”, Feltrinelli, 2015.
Wapshott, classe 1952, è un giornalista britannico. Ha lavorato per “The Times” e per “The New York Sun” ed è anche autore di biografie.