Lo so, succedanei sospetti incombono sulle nostre tavole e le cavallette, presagio di privazioni, oggi prefigurano lo stupro del nostro orgoglio gastronomico. La sciagura imminente non ha più il viso emaciato della Carestia, ma di un panino verde ottenuto impastando polvere di insetto. Tutto vero e tutto giusto, sennonché l’Italia non diventerà sovrana assumendo le forme di un ameno agriturismo. Purtroppo l'orizzonte mentale di certi sovranisti è davvero angusto, e molti di loro non riescono a vedere oltre l’orto e il pollaio. L’ospitalità, il cibo, la qualità della vita e il patrimonio artistico sono grazie di Dio da valorizzare. Però, per amor del cielo, togliamoci dalla testa le 100 cucine d’Italia e piantiamola con la storia del popolo di santi, poeti, navigatori e buone forchette. Alla base dell’imperante ingordigia non c’è nemmeno una sana fame arretrata, solo un calcolato delirio autodistruttivo. Non c'è studio televisivo sprovvisto di angolo cottura e adornato di taglieri colmi di salumi e formaggi, con ceste di primizie a far da scenografia. Ogni telegiornale vanta una rubrica apposita che ci propone con cadenza quotidiana interviste a intenditori che illustrano i pregi di qualche prelibatezza misconosciuta, a nutrizionisti di grido dalla voce suadente, a sommelier imaginifici che delibano vini in calici possenti rintracciandovi retrogusti impensati.
I palinsesti pullulano di programmi in cui le celebrità si improvvisano cucinieri e ghiottoni, mentre fioriscono Scuole di pensiero su fritture e ragù: pare che esprimano l’anima, anzi l’animella profonda del folklore. Forse, e dico forse, è solo mera pornografia dell'alimentazione. Forzati del carboidrato e delle proteine come Chef Rubio stilano la classifica delle trattorie dove ci si abboffa meglio spendendo cifre irrisorie. Chef pluristellati e casalinghe di Voghera si alternano senza soluzione di continuità per la gioia di un pubblico di epuloni. Il pedersoliano Cannavacciuolo rieduca i ristoratori scellerati assestandogli grandi pacche sulle spalle, alternando modi da sergente burbero e da fratello maggiore ricco di umana bonomia. Guai però a non servire una pietanza con la dovuta professionalità, a propinare un “pecorino di
mmerda”, a guarnire sciattamente il lesso di carne o il fritto misto. Lo spettatore viene educato a sviluppare un appetito gargantuesco e l'occhio dello schermo, fattosi mostro lovecraftiano dalla bocca vorace, divora la sussistente materialità. Cavalcando il pretesto sempre valido della tradizione, si offrono tortazze esagerate, primi cremosi, antipasti sbracati, sfiziosità creative mai assaggiate; una fantasmagoria culinaria che frulla l’impossibile, pescando le ricette della nonna e riabilitando i mantecati frettolosi del nipote fuorisede. Il cuoco si è fatto imputato e l'avventore giudice esigente. Questa salsa non ha un alibi? Dov'era lei la sera del dodici dicembre, quando fu consumato il delitto del parmigiano sul pesce?