Di Costanzo Preve (Una nuova storia alternativa della filosofia)
Vi è oggi un pregiudizio infondato, per cui gli ebrei sarebbero stati gli "inventori" del monoteismo, e quindi i "fratelli maggiori" dei cristiani posteriori. Si tratta di due falsità, o, se vogliamo esprimerci in modo più moderato e secondo i vincoli del politicamente corretto odierno - divinità idolatrica non migliore di molte divinità idolatriche antiche -, di due posizioni inesatte. Per quanto concerne il cristianesimo, esso per potersi costituire dovette rompere con l'ebraismo del tempo in modo radicale, in quanto le eresie devono rompere con le ortodossie con molta maggiore virulenza di quanto debbano demarcarsi o coesistere con religioni completamente diverse (in quel caso, il politeismo greco-romano). E dovette rompere, perché questo presunto "fratello maggiore" non poteva consentire su almeno due punti qualificanti della nuova religione, il carattere messianico di Gesù di Nazareth (figuriamoci poi sulla credenza della sua resurrezione dopo la morte!) ed il carattere universalistico e non tribale-particolaristico del suo messaggio. Anche Caino e Abele e Romolo e Remo erano fratelli, ma non per questo dovremo evitare per "buonismo concordistico posteriore" la verità storica sui loro rapporti conflittuali. Questo non significa ovviamente che i rapporti conflittuali debbano durare per sempre e non possano essere "ricomposti" pacificamente. Ma tacere per buonismo concordistico ipocrita sulla verità storica non serve a nessuno. In quanto alla cosiddetta "invenzione del monoteismo", già a suo tempo Sigmund Freud, in una sua opera magistrale, sostenne che gli ebrei avrebbero dovuto farsi "psicanalizzare" collettivamente per liberarsi dalla loro nevrosi di onnipotenza e di superiorità sugli altri popoli, ed il miglior modo di farlo sarebbe consistito nel riconoscimento razionale del fatto che il loro monoteismo non era affatto un meraviglioso prodotto autoctono dovuto alla "predilezione" che Dio aveva nei loro confronti (un Dio che predilige qualcuno è la bestemmia più grande verso la divinità che si possa concepire, ed è stato proprio l'ebreo Spinoza a distruggere l'immagine di un Dio concepito in modo antropomorfico come qualcuno che "predilige"), ma era derivato dalla religione monoteistica egiziana del faraone Akhenaton (e vedi su questo anche gli studi storici di Jan Assmann). In proposito, la lettura del romanzo storico di Mika Waltari, Sinuhe l'Egiziano, è storicamente più attendibile dell'intero Antico Testamento. Ho volutamente iniziato con la citazione di due ebrei perseguitati, e cioè Baruch Spinoza e Sigmund Freud (anche il secondo lo fu, perché dovette abbandonare Vienna poco prima di morire), perché la rilevazione della sciocca arbitrarietà della presunta "invenzione del monoteismo" non ha ovviamente nulla di "antisemitico". E non solo non ha nulla di antisemitico, ma è anche uno strumento razionale di lotta contro l'antisemitismo, perché l'antisemita si nutre di una presunta "diversità" (non importa se superiore o inferiore) del popolo ebraico, e "succhia" questa diversità come il ragno succhia la mosca incappata sciaguratamente nella sua ragnatela. Lottare contro l'antisemitismo, e nello stesso tempo riconoscere al popolo ebraico una presunta diversità radicale di tipo etnico-religioso (diversità di cui si nutrono appunto i sionisti religiosi fondamentalisti e gli antisemiti di ogni tipo), equivale a cercare di spegnere le fiamme buttandogli sopra dei fiammiferi accesi. Il vero presupposto filosofico di ogni razionale lotta all'antisemitismo consiste infatti nel ristabilimento dell'assoluta "normalità" del popolo ebraico.
Sergio Romano – Corriere della Sera 2 dicembre 2009
L’espressione «tradizioni giudaico-cristiane» non è un falso storico, ma è certamente una costruzione storica, nata in America per rappresentare la particolare importanza che il Vecchio Testamento ha avuto nella formazione dei pellegrini che cominciarono a popolare la Nuova Inghilterra nel Seicento. Erano quaccheri e puritani. Erano stati costretti a fuggire da una patria, l’Inghilterra, dove la Chiesa Anglicana trattava i protestanti «non conformisti» come altrettanti eretici. Avevano trovato un generoso asilo nell’Olanda calvinista. E cercavano un luogo in cui costruire, al riparo dalle persecuzioni, la nuova Gerusalemme. Il loro atteggiamento verso gli ebrei non era fondamentalmente diverso da quello di Martin Lutero ed Enrico VIII (autori di due famosi trattati «contro i giudei»), ma non potevano dimenticare che l’Antico Testamento era la Bibbia ebraica e che il popolo del libro meritava quindi una particolare considerazione. Incidentalmente fu questa la ragione per cui l’Olanda calvinista accolse gli ebrei sefarditi cacciati dalla Spagna e dal Portogallo tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento. Fu questa la ragione per cui Oliver Cromwell, nel 1656, revocò le leggi che avevano cacciato gli ebrei dall’Inghilterra nel 1290, durante il regno di Edoardo I. E fu questa infine la ragione per cui un gruppo di uomini politici britannici, soprattutto battisti e metodisti, videro con grande favore la nascita di un focolare ebraico in Palestina alla fine della Grande guerra. Come gli evangelici americani, molti di essi attendevano la seconda venuta di Cristo e credevano che avrebbe avuto luogo, secondo le profezie, soltanto dopo il ritorno degli ebrei nella Terra promessa. Più recentemente l’espressione «tradizioni giudaico-cristiane» è stata spesso impiegata, politicamente, come una sorta di riparazione per il genocidio dagli ebrei europei nella Seconda guerra mondiale o come una linea di demarcazione tracciata sul terreno contro l’«invasione islamica». In Italia, dove la conoscenza dell’Antico Testamento è molto più limitata di quanto sia nei Paesi protestanti, queste parole mi sembrano un «americanismo», simile a quello di coloro che ascoltano l’inno nazionale mettendosi un mano sul petto, come si fa negli Stati Uniti, e dicono «convention» anziché congresso.