Resoconto di una chiacchierata con Gianfranco La Grassa

Marx non era un’economista o un filosofo, bensì uno scienziato della società che indagò la struttura dei rapporti sociali. Il capitalismo, badate bene, è innanzitutto un rapporto sociale, non è una “cosa” (merce o denaro). Una minoranza, i capitalisti, detiene il controllo dei mezzi di produzione. Inizialmente, Marx reputa il capitalista proprietario dei mezzi di produzione e direttore dei processi produttivi; un ruolo, quest’ultimo, tutto sommato progressivo, in quanto la borghesia e il capitalismo costituiscono pur sempre un passo in avanti nell’evoluzione storico-sociale.
Il mercato rende formalmente uguali perché consente alla maggioranza non capitalista di vendere liberamente la propria forza lavoro in cambio del salario che garantisce la sussistenza storico-sociale; al contempo, però, sancisce l’ineguale distribuzione del plusvalore. L’uomo è l’unico animale che produce più di quanto basta alla propria sussistenza, soprattutto se si serve di macchinari che aumentano la produttività del lavoro: pluslavoro-plusprodotto-plusvalore. Il capitalista si appropria del plusvalore. Ne le “Glosse marginali al Trattato di Economia politica di Adolf Wagner” leggiamo: «Ora nella mia esposizione anche il profitto del capitale effettivamente non è “soltanto un prelievo fatto sull’operaio o una rapina ai suoi danni. Al contrario io rappresento il capitalista come un funzionario necessario della produzione capitalistica e dimostro ampiamente che egli non si limita a “prelevare” o “rapinare”, ma al contrario impone la produzione del plusvalore, contribuisce cioè innanzitutto alla creazione di ciò che sarà prelevato; dimostro inoltre diffusamente che, anche se nello scambio di merci si scambiano solo equivalenti, il capitalista – non appena paga all’operaio il valore reale della sua forza-lavoro – guadagna il plusvalore a pieno diritto, un diritto che naturalmente corrisponde a questo modo di produzione.» In regime di libera contrattazione, a differenza del servo della gleba o dello schiavo, il lavoratore è formalmente libero: in teoria può licenziarsi e cercarsi un altro impiego. L’intuizione marxiana del lavoro salariato come meccanismo che permette al capitalista di intascare il plusvalore è tuttora valida, anche se questa contraddizione non ha decretato la fine del capitalismo. La competizione intracapitalistica comporta la concentrazione dei capitali, il cosiddetto oligopolio. Ciò estranea il capitalista dal processo produttivo, riducendolo a mero proprietario parassita. A questo punto, avviene la separazione tra proprietari e dirigenti, coi primi che vivono di rendita e i secondi che diventano grossi salariati socialmente più prossimi agli operai che ai padroni. Si ha così il General Intellect, che unisce il primo dirigente all’ultimo lavoratore giornaliero. Il socialismo pensato da Marx è questo, non è l’ingombrante mastodonte burocratico e statalista caratteristico del comunismo storico novecentesco; è alleanza tra produttori tesa a impadronirsi del controllo della produzione; è proprietà collettiva dei mezzi di produzione.
La nuova classe dei produttori, una volta impadronitasi dello Stato, inteso come insieme di apparati coercitivi, diventa la protagonista del nuovo e definitivo assetto socialista. Ci si ricordi che il marxismo definisce le due fasi di passaggio e di definitiva affermazione di una società con proprietà collettiva dei mezzi produttivi con due sintetiche frasi: il socialista “a ciascuno secondo il suo lavoro” (prima fase) e il comunista “a ciascuno secondo i suoi bisogni” (seconda e ultima fase). Le contraddizioni tra primo dirigente e ultimo giornaliero sussistono e permangono, ma sono secondarie rispetto alla contraddizione primaria e antagonistica tra chi produce e chi vive di rendita. Nella realtà non vi fu nessuna alleanza tra Marchionne e Cipputi; anzi, i Marchionne di tutto il mondo scelsero di intascare lauti bonus e di continuare a fare l’interesse dei cosiddetti padroni, che nel frattempo non si erano trasformati in “rentier” parassiti. Primi dirigenti furono Henry Ford e Ferdinand Porsch, che poi, a loro volta, divennero imprenditori di successo, contribuendo a mutare e perpetuare il sistema capitalistico. Più di recente troviamo la figura del manager stile Ghidella o Marchionne, che bada a conseguire il minimo risultato col minimo sforzo; e troviamo altresì strateghi del capitale come Agnelli e Berlusconi, capaci di tessere relazioni con attori economici, politici e culturali in patria come all’estero. Lo stratega del capitale intende conseguire la supremazia nel mercato nazionale e internazionale, se necessario indebolendo e fagocitando la concorrenza, fregandosene del massimo risultato col minimo sforzo. Direzione manageriale (si legga Burnham) e strateghi del capitale sono tipici del capitalismo nordamericano. Negli ultimi decenni, all’interno delle imprese la piramide gerarchica si è alquanto stratificata e ciò ha sciolto i vincoli della solidarietà di “classe” tipici della vecchia fabbrica, che era l’unità base del sistema produttivo. La marcia dei quarantamila a Torino nel 1980 rimane emblematica: dirigenti e quadri tecnici di più basso livello contestarono la decisione degli operai di scioperare. Il punto dolente è sempre l’ineguale ripartizione del plusprodotto, riflesso di una struttura piramidale della società a cui nessun tipo di “socialismo” è riuscito a mettere fine. Il socialismo reale c’ha provato, ma ha fallito miseramente generando l’inefficiente uguaglianza al ribasso. Come aveva già intuito Lenin, la classe operaia in sé non è un soggetto rivoluzionario. L’operaio tende a imborghesirsi: Cipputi talvolta sogna un futuro da padroncino, vuole che il figlio studi e diventi avvocato. Lo sviluppo delle forze produttive incrementa il plusvalore relativo e ciò rafforza il capitalismo, perché facilità le rivendicazioni sociali (migliori condizioni di lavoro, maggiori salari e così via). La lotta di classe è qualcosa di estremamente diverso e drammatico: è un gruppo di potere che ne rovescia un altro per mezzo della violenza organizzata e diretta. Non c’entra nulla con le – pur sacrosante – battaglie sindacali che disonestamente vengono gabellate per lotta di classe. Il socialismo non si “costruisce”, devono essere determinati rapporti di forza (come detto prima, l’alleanza tra dirigenti e operai) in seno alla società a partorirlo, spontaneamente o attraverso un taglio cesareo: la rivoluzione. Lo hanno “costruito” nei paesi capitalisticamente immaturi come la Russia zarista o sottosviluppati come la Cina di Mao. Per quanto concerne la rivoluzione socialista, Marx ipotizzò che la scintilla sarebbe scoccata dal paese industrialmente più progredito dell’epoca, l’Inghilterra, e da lì si sarebbe diffusa a “macchia d’olio” seguendo la parabola capitalistica. Il capitalismo però non si è diffuso a macchia d’olio, anzi ha creato una gerarchia di capitalismi più o meno differenti in lotta tra loro, che Lenin definì la catena imperialistica. Nella teoria leniniana, la scintilla sarebbe scoccata nell’anello debole della catena imperialistica nella fase di scontro acuto intercapitalistico (guerra), nella fattispecie la Russia, ma alla fine l’incendio si sarebbe esteso anche ai paesi avanzati: la mai avvenuta rivoluzione mondiale. Perché nell’anello debole? Per il semplice motivo che parti – i sindacati – del proletariato dei paesi capitalisticamente avanzati sono stati assorbiti dalla classe dominante. Il socialismo non è neanche sinonimo di pauperismo: a Marx non fregava nulla del riscatto dei poveri e men che meno dell’esecrato lumpenproletariat (sottoproletariato, proletariato cencioso). Senza abbondanza non vi può essere vera liberazione dal bisogno e, dunque, nessun socialismo. Il pensatore di Treviri non poteva immaginare la terza rivoluzione industriale e men che meno la quarta, la moltiplicazione dei bisogni e delle figure professionali che rendono complessa la società, le “innovazioni di prodotto” (Schumpeter dixit) come il motore a scoppio, che a sua volta diede impulso al settore petrolifero. Ma di questo parleremo la prossima volta.

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