Brani tratti dal libro di Paolo Cirino Pomicino “La repubblica delle giovani marmotte”.
"Tutto ciò era noto a Giulio Andreotti: un giorno, nel suo studio a Palazzo Chigi, me lo disse chiaramente, esortandomi a non farmi mai tentare dal “reclutamento” in quegli ambienti. È il perenne vizio delle associazioni, diciamo, riservate come la Trilateral, il club Bilderberg, la massoneria e tante altre, che richiedono obbedienza e dedizione assoluta, offrendo in cambio incarichi ben remunerati, funzioni, prestigio e tutele di ogni tipo."
Come si vede il rapporto con De Benedetti era franco ma cordiale, contrapposto ma gentile, con un sottostante di reciproca empatia che, qualche anno dopo, spinse Carlo a chiedermi di essere il suo ministro, nel disegno politico che lui e altri amici del suo mondo stavano mettendo a punto. Declinai con il solito sorriso napoletano, e feci una scherzosa riconversione – già ricordata in altra occasione –: e cioè che io e Andreotti stavamo preparando un progetto industriale e lo avremmo voluto come nostro imprenditore di punta. Era la primavera del 1991, il muro di Berlino era caduto due anni prima, il vecchio Pci si stava spaccando a Rimini, e un gruppo di “dilettanti” guidato da Carlo De Benedetti, Cesare Romiti, Marco Tronchetti Provera, con la regale benedizione di Gianni Agnelli e di Eugenio Scalfari, immaginava di poter guidare il paese con il presunto sapere economico dei suoi esponenti, il potere dell’informazione e del denaro, con al servizio i vecchi militanti del Pci, con il compito di controllare il territorio sostituendo nelle sezioni di partito i ritratti di Lenin, Marx, Gramsci e Togliatti, con la barba di Scalfari, il sorriso accattivante di De Benedetti, lo sguardo compiacente e autoreferenziale del nostro caro avvocato Agnelli. Fu naturalmente un disastro, perché i dilettanti sanno distruggere bene, ma quanto a costruire sono maldestri, in particolare quando si cimentano su terreni impropri come quello della politica.
Ecco perché anche il “Corriere della Sera” dava addosso ai partiti, a eccezione del Pci, che nel disegno politico doveva fornire i “guardiani territoriali” di un governo elitario del paese, nel quale finalmente potere politico e forze economiche si potessero identificare. Si potrebbe dire che il buon Dio prima li fa e poi li accoppia, perché lo stesso obiettivo della allegra e felice brigata di Carlo De Benedetti era sposato in pieno anche da Silvio Berlusconi. Naturalmente i personaggi dei due circhi equestri erano profondamente diversi. Il primo, De Benedetti, tentava di rappresentare quella élite pensosa e colta, che amava il mondo quanto bastava per non mescolarvisi, apprezzava la “erre moscia” grazie alla quale più facilmente reclutava giovani intellettuali extraparlamentari, disprezzava molto il secondo protagonista, Berlusconi, e il suo mondo gioioso e scanzonato sino alla impudenza, un po’ frou-frou e un po’ spregiudicato, meno forbito e più sanguigno.
Già da alcuni mesi ero informato del nome di Monti come possibile futuro presidente del Consiglio. Ne parlai subito con Casini, nella utopica speranza di fargli capire qualcosa. Gli spiegai chi era Monti e la sua assoluta incompetenza politica, avendolo avuto come collaboratore nei tre anni al ministero del Bilancio; i suoi legami internazionali essendo, per l’appunto, presidente europeo della Trilateral, prevedendo il disastro che avrebbe generato. Casini mi disse che a sostenerlo era in prima linea Napolitano. «Sarà così – risposi – ma a dare la fiducia è il Parlamento, e tu devi dire subito che l’Udc non lo voterebbe mai.» Parole al vento. Mi spiace dirlo, non avendo quasi mai parlato male di un democristiano; ma quando si raggiungono le vette della inadeguatezza politica non si può far finta di niente. Casini respinse il mio invito, e nelle elezioni del 2013 fece addirittura la lista con Monti, nonostante gli avessi spiegato per un’ora che sarebbe stato un bagno di sangue. Non volle testimoni al nostro incontro riservato, neanche Lorenzo Cesa, politicamente molto più capace di lui e totalmente d’accordo con me nella contrarietà a quella scelta sciagurata.
Non ci fu verso di convincerlo e l’Udc, che nei sondaggi aveva il 6,5% dei consensi, chiuse la tornata elettorale con un ridicolo 1,8%, lasciando a casa quasi tutti i suoi parlamentari. Torniamo a Napolitano, Monti e la Trilateral. Ho ricordato la sua strettissima amicizia con Henry Kissinger: le pressioni di quegli ambienti americani e della Trilateral trafissero, come un coltello nel burro, l’anima di Giorgio Napolitano, il quale non soltanto sostenne Monti “for president”, ma addirittura fece uno scempio istituzionale, nominandolo senatore a vita alcuni giorni prima dell’incarico di formare il nuovo governo. Un’anomalia che resta unica nella vita repubblicana, perché senatore a vita si diventa dopo aver onorato il paese per anni o se lo si è servito in momenti drammatici.
Sino ad allora Monti era stato professore e poi rettore della Bocconi; in seguito, prima, per dieci anni commissario europeo, alla Concorrenza, e poi al Mercato interno. L’esperienza europea era terminata nel 2005, sei anni prima della nomina a senatore a vita, cinque dall’elezione di Giorgio Napolitano alla presidenza della Repubblica. Quindi non poteva esserci alcun legame tra la nomina e quella esperienza, peraltro decisamente “normale”. La verità, purtroppo, è ben nota.
"Tutto ciò era noto a Giulio Andreotti: un giorno, nel suo studio a Palazzo Chigi, me lo disse chiaramente, esortandomi a non farmi mai tentare dal “reclutamento” in quegli ambienti. È il perenne vizio delle associazioni, diciamo, riservate come la Trilateral, il club Bilderberg, la massoneria e tante altre, che richiedono obbedienza e dedizione assoluta, offrendo in cambio incarichi ben remunerati, funzioni, prestigio e tutele di ogni tipo."
Come si vede il rapporto con De Benedetti era franco ma cordiale, contrapposto ma gentile, con un sottostante di reciproca empatia che, qualche anno dopo, spinse Carlo a chiedermi di essere il suo ministro, nel disegno politico che lui e altri amici del suo mondo stavano mettendo a punto. Declinai con il solito sorriso napoletano, e feci una scherzosa riconversione – già ricordata in altra occasione –: e cioè che io e Andreotti stavamo preparando un progetto industriale e lo avremmo voluto come nostro imprenditore di punta. Era la primavera del 1991, il muro di Berlino era caduto due anni prima, il vecchio Pci si stava spaccando a Rimini, e un gruppo di “dilettanti” guidato da Carlo De Benedetti, Cesare Romiti, Marco Tronchetti Provera, con la regale benedizione di Gianni Agnelli e di Eugenio Scalfari, immaginava di poter guidare il paese con il presunto sapere economico dei suoi esponenti, il potere dell’informazione e del denaro, con al servizio i vecchi militanti del Pci, con il compito di controllare il territorio sostituendo nelle sezioni di partito i ritratti di Lenin, Marx, Gramsci e Togliatti, con la barba di Scalfari, il sorriso accattivante di De Benedetti, lo sguardo compiacente e autoreferenziale del nostro caro avvocato Agnelli. Fu naturalmente un disastro, perché i dilettanti sanno distruggere bene, ma quanto a costruire sono maldestri, in particolare quando si cimentano su terreni impropri come quello della politica.
Ecco perché anche il “Corriere della Sera” dava addosso ai partiti, a eccezione del Pci, che nel disegno politico doveva fornire i “guardiani territoriali” di un governo elitario del paese, nel quale finalmente potere politico e forze economiche si potessero identificare. Si potrebbe dire che il buon Dio prima li fa e poi li accoppia, perché lo stesso obiettivo della allegra e felice brigata di Carlo De Benedetti era sposato in pieno anche da Silvio Berlusconi. Naturalmente i personaggi dei due circhi equestri erano profondamente diversi. Il primo, De Benedetti, tentava di rappresentare quella élite pensosa e colta, che amava il mondo quanto bastava per non mescolarvisi, apprezzava la “erre moscia” grazie alla quale più facilmente reclutava giovani intellettuali extraparlamentari, disprezzava molto il secondo protagonista, Berlusconi, e il suo mondo gioioso e scanzonato sino alla impudenza, un po’ frou-frou e un po’ spregiudicato, meno forbito e più sanguigno.
Due mondi diversi, uniti dall’amore per le donne (la famosa “patonza” da far girare) e dal velleitarismo politico, sostenuto da una crescita economica che, senza l’aiuto dello Stato, non avrebbe resistito al tempo. Il primo mondo, quello degli Agnelli, De Benedetti, Tronchetti Provera, Scalfari, personificava l’élite del paese per la sua lunga storia e per un profilo culturale certamente diverso dal mondo di Berlusconi, più popolare, più sbrigativo e senza l’ipocrisia di regole sbandierate, ma sempre violate sul terreno etico, politico ed economico. I due mondi, peraltro, erano permeati da un comune “vincolo di obbedienza”, perché in entrambi si toccava con mano la presenza della
massoneria. Io ero attratto più dal primo mondo che non dal secondo, e lo stesso primo mondo vide in me, in un tempo lontano, una persona da reclutare.***
Il potere economico ha il profitto come bussola della propria azione; quello giudiziario può solo reprimere, mai costruire. Di qui, allora, i partiti della seconda repubblica, che sembravano usciti dal mondo di Walt Disney, privi di cultura, nemici di ogni forma democratica, mallevadori dei comportamenti istituzionali visti negli ultimi anni in regioni e in tanti comuni, simili ai film dell’horror. La scomparsa dei partiti, con le loro articolazioni territoriali democratiche e la loro autorevolezza, ha fatto sì che ogni sindaco, presidente di regione, consigliere comunale o regionale diventasse un partito a sé, spinto da prevalenti interessi personali. Senza voler generalizzare, questa epidemia di leaderismi periferici ha creato quei guasti nei territori che sono sotto gli occhi di tutti, a ennesima conferma che se i partiti sono i peggiori protagonisti della vita politica, nessuno ha inventato qualcosa di meglio. A dire il vero l’Italia dei partiti è stata un’Italia diversa e più rispettata sul piano interno e internazionale. Il saldo finale, nonostante gli errori dei singoli, è stato positivo per il paese, che a causa della loro scomparsa sta tornando a essere considerato “una espressione geografica”, come sembra abbia detto con disprezzo il principe di Metternich, a ridosso della prima guerra di indipendenza. Se questo accade sul piano nazionale, in periferia regna sovrano il caos, in particolare in alcune zone del paese. La contestuale scomparsa dei partiti e la nascita del nuovo sistema elettorale per i comuni e le regioni hanno costituito una miscela esplosiva con effetti incredibili. L’Italia era abituata nel passato a vedere, durante le elezioni regionali e amministrative, un confronto duro tra i partiti a livello nazionale fermo restando che le alleanze in periferia non sempre rispettavano quelle tradizionali. In parole semplici, nelle grandi città e nelle regioni lo scontro era tra 8-10 liste, quelle dei cinque partiti al governo: l’Msi, il Pci e, di volta in volta, Democrazia proletaria, i Verdi e, non sempre, i Radicali. Qualche volta poteva far capolino una lista civica. Punto e basta. L’introduzione della elezione diretta del sindaco e del presidente della Regione, oltre che del sistema maggioritario sul piano nazionale, ha fatto un cortocircuito con il botto e le liste che si scontrano oggi in una lotta all’ultimo sangue, nelle città piccole e grandi e nelle regioni, si sono moltiplicate sino a raggiungere la ventina, se non di più. Naturalmente non esistono più liste politiche, se non in misura minore, ma i candidati sindaci e presidenti regionali organizzano liste civiche con nomignoli fantasiosi (la Colomba, Campania Libera, Noi Sud, Voi Nord, Tizio Presidente e via di questo passo) per recuperare il maggior numero di voti.
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L’arrivo di Mario Monti.
Già da alcuni mesi ero informato del nome di Monti come possibile futuro presidente del Consiglio. Ne parlai subito con Casini, nella utopica speranza di fargli capire qualcosa. Gli spiegai chi era Monti e la sua assoluta incompetenza politica, avendolo avuto come collaboratore nei tre anni al ministero del Bilancio; i suoi legami internazionali essendo, per l’appunto, presidente europeo della Trilateral, prevedendo il disastro che avrebbe generato. Casini mi disse che a sostenerlo era in prima linea Napolitano. «Sarà così – risposi – ma a dare la fiducia è il Parlamento, e tu devi dire subito che l’Udc non lo voterebbe mai.» Parole al vento. Mi spiace dirlo, non avendo quasi mai parlato male di un democristiano; ma quando si raggiungono le vette della inadeguatezza politica non si può far finta di niente. Casini respinse il mio invito, e nelle elezioni del 2013 fece addirittura la lista con Monti, nonostante gli avessi spiegato per un’ora che sarebbe stato un bagno di sangue. Non volle testimoni al nostro incontro riservato, neanche Lorenzo Cesa, politicamente molto più capace di lui e totalmente d’accordo con me nella contrarietà a quella scelta sciagurata.
Non ci fu verso di convincerlo e l’Udc, che nei sondaggi aveva il 6,5% dei consensi, chiuse la tornata elettorale con un ridicolo 1,8%, lasciando a casa quasi tutti i suoi parlamentari. Torniamo a Napolitano, Monti e la Trilateral. Ho ricordato la sua strettissima amicizia con Henry Kissinger: le pressioni di quegli ambienti americani e della Trilateral trafissero, come un coltello nel burro, l’anima di Giorgio Napolitano, il quale non soltanto sostenne Monti “for president”, ma addirittura fece uno scempio istituzionale, nominandolo senatore a vita alcuni giorni prima dell’incarico di formare il nuovo governo. Un’anomalia che resta unica nella vita repubblicana, perché senatore a vita si diventa dopo aver onorato il paese per anni o se lo si è servito in momenti drammatici.
Sino ad allora Monti era stato professore e poi rettore della Bocconi; in seguito, prima, per dieci anni commissario europeo, alla Concorrenza, e poi al Mercato interno. L’esperienza europea era terminata nel 2005, sei anni prima della nomina a senatore a vita, cinque dall’elezione di Giorgio Napolitano alla presidenza della Repubblica. Quindi non poteva esserci alcun legame tra la nomina e quella esperienza, peraltro decisamente “normale”. La verità, purtroppo, è ben nota.
Quando si entra in collegamento con organismi del tipo Trilateral si rinuncia a una parte della propria libertà.